Titanio, Stefano Bonazzi
(Alessandro Polidoro Editore, 2022)
Un quartiere di estrema periferia vicino al mare, la Ciambella, è la casa dell’adolescente Fran e della sua strana (per usare un eufemismo) famiglia. Nella Ciambella la legge e lo Stato non hanno mai fatto il loro ingresso, eppure tra i suoi abitanti vi è un senso di comunità del tutto sui generis. Il quartiere è un luogo di paradossi: Fran non va a scuola, ma legge moltissimo; i suoi genitori lo amano, ma il ragazzo inizia a comprendere che questo amore forse non è del tutto “normale”. La normalità è proprio il grande assente in Titanio, romanzo da poco uscito per Alessandro Polidoro Editore, nel quale il confine tra “normali” e “mostri” è labilissimo. Grazie a questa ambiguità Titanio lascia non pochi quesiti aperti, dei quali ho potuto parlare proprio con l’autore, lo scrittore e fotografo Stefano Bonazzi.
La prima domanda che ti pongo è, diciamo, ex ante il romanzo. Ho sempre pensato che la scrittura nasca da un bisogno. Quale bisogno ti ha spinto a scrivere Titanio?
In tutto quello che scrivo cerco di indagare principalmente la paura, in primis verso le persone e gli altri e poi anche verso sé stessi; è la paura il filo rosso che lega sia le immagini che realizzo che i romanzi e i racconti che ho scritto. Uno dei miei primi romanzi era incentrato sugli attacchi di panico, che mi hanno coinvolto in due anni della mia vita piuttosto difficili tra i 20 e i 22 anni, causandomi anche deficit fisici. Invece in Titanio, sebbene abbia preso spunto da un fatto di cronaca che lessi tempo fa, sono partito dalla pura finzione. Volevo vedere se sarei riuscito a dar corpo ad una storia con elementi completamente immaginati piuttosto che con delle influenze autobiografiche.
È interessante il fatto che tu abbia citato la cronaca: mi sembra che la Ciambella, il quartiere degradato da te inventato in cui è ambientata la storia, sia raccontata con uno sguardo spietatamente realistico e quasi documentaristico. A quali fonti hai attinto per creare questa ambientazione (che forse sarebbe più corretto definire come uno dei “personaggi” principali del romanzo)?
Volevo che l’ambientazione del romanzo fosse un’entità vera e propria e soprattutto nella prima parte del romanzo ho cercato di trasmettere questo: Fran stesso ad un certo punto dice che il condominio è come se respirasse e pulsasse. Mi piace molto l’idea che le strutture in cui abitiamo apprendano e assorbano un po’ di noi, come noi assorbiamo un po’ di loro: mi sono accorto cambiando casa diverse volte che certe atmosfere che c’erano in certi luoghi me le portavo poi in giro e viceversa.
Per quanto riguarda le fonti, la costruzione della Ciambella deriva molto dai ricordi di quartieri periferici dove sono nato. Un aspetto curioso è venuto fuori facendo editing con Antonio Esposito, perché era convinto che io stessi parlando di Scampia, che è il luogo in cui lui è cresciuto e dove io però non sono stato nemmeno una volta! Da un lato questo mi ha fatto piacere perché vuol dire che c’è un certo grado di realismo in ciò che ho scritto, però d’altra parte mi ha permesso di capire che il livello di degrado che c’è in varie zone d’Italia in fondo non dipende dalla regione. Nella prima versione erano nominati luoghi reali, ma poi alla fine ho deciso di decontestualizzare tutto perché mi interessavano soprattutto le sensazioni, i rumori, gli odori del posto. Dando al lettore una location fisica avevo paura di depistarlo. Si tratta anche di un rimando al mio primo libro A bocca chiusa, in cui né il protagonista né i luoghi avevano nomi: mi piace creare questa atmosfera da “limbo urbano”, se si può chiamare così.
La Ciambella è tutto fuorché un luogo sicuro: traffico di droga, assalti armati e assenza dei servizi più essenziali. Eppure sia il protagonista Fran che il padre dicono di sentirsi protetti al suo interno, delineando una netta distinzione tra un dentro sicuro ed un fuori in cui ci si perde e nel quale si è senza protezione. Come spieghi questo paradosso?
La Ciambella non è un luogo sicuro, ma in essa i personaggi riescono a trovare protezione erigendo delle barriere, ad esempio rinforzano le porte e mettono le sbarre alle finestre. Mi piaceva immaginare il romanzo come una sorta di cipolla con vari strati: la cantina, la soffitta, le pareti dell’appartamento, i muri della Ciambella e l’esterno con il mare. Fran fa una sorta di percorso in cui esplora delle zone a mano a mano non solo verso l’esterno ma anche in altezza: c’è infatti una parte ambientata sotto terra con la cantina e poi la parte superiore dell’edificio, dove a Fran piace trascorrere molto tempo. Vi è quindi un’esplorazione a 360° del contesto che lo circonda, da cui il protagonista apprende che fuori non è pericoloso come gli viene raccontato dai genitori e che però al tempo stesso non è tutto “rose e fiori”. L’esterno rappresenta un luogo utopico dove è possibile formarsi e crescere, ma Fran sa anche che non è così certo che all’esterno sia tutto così facile.
Una parola che torna spesso nel libro è “mostri” e forse possiamo dire che Titanio è un romanzo di mostri, anche in considerazione del fatto che alle patologie psicologiche dei personaggi spesso si accompagnano particolari deformazioni fisiche (basti pensare al braccio-chela del padre di Fran). Nonostante le colpe atroci di cui si macchia Fran, però, il lettore non riesce mai a percepirlo come un mostro. Come mai Fran riesce a restare “puro” (o ingenuo, per usare le tue parole) nonostante le sue colpe?
Secondo me qui gioca un ruolo importante il livello di empatia che può sviluppare il lettore. Mentre scrivevo non ero così sicuro che il lettore non avrebbe percepito Fran come mostro, in quanto stavo delineando il profilo di un ragazzino che poi va a compiere atti veramente gravi. Quando ne scrivevo non riuscivo a empatizzare con lui, ma poi in realtà ho visto che la maggior parte dei lettori lo fa. Credo dipenda dal fatto che, poiché nel libro sono tutti peccatori, si deve scegliere con quali personaggi entrare maggiormente in sintonia, ovvero “il male minore”. Certo, non è detto che chi legge debba per forza empatizzare con il protagonista: la letteratura non è per forza immedesimazione, sebbene sia qualcosa che viene abbastanza spontaneo.
L’alto grado di ingenuità che ha Fran lo rende una sorta di innocente, di “puro”. Mi ricollego alla frase del regista Eskil Vogt in esergo al libro, che dice che noi diamo per scontato che i ragazzini siano innocenti, ma ne siamo veramente sicuri? Questa domanda la lascio aperta anche io verso il lettore, perché io per primo non sono riuscito a darmi una risposta certa. Secondo me – si tratta di un’interpretazione puramente personale – in Fran è già insita una parte di “nero” che poi viene sviluppata in quel tipo di contesto.
L’incontro con Fran in un certo senso cambia la vita di Alan, l’educatore, tanto da indurlo a riflettere sulla sua vita privata e sulla relazione con la compagna. Cosa fa sì che Fran abbia questo potere di mettere in discussione l’esistenza di chi gli sta intorno?
Penso che Alan veda in Fran una particolare doppiezza: da un lato una profonda ingenuità che lo fa sembrare un bambino innocente, dall’altro la freddezza totale (che lui stesso ammette) quasi da automa nei confronti di quello che ha fatto. Questa commistione di umano e di inumano è la parte che affascina di più Alan, il quale non riesce a decifrare Fran, che del resto all’inizio è impenetrabile ed erige muri per non permettere agli altri di guardare dentro di lui. Sospendendo il giudizio e cercando di raccontare di sé per far capire a Fran che ha davanti una persona umana in carne e ossa, Alan cerca di far breccia nel ragazzo.
Nel libro Fran espone un’idea della scrittura come di un mezzo imperfetto: afferma ad esempio che è impossibile descrivere i sentimenti con le parole o anche che la scrittura “normalizza” le atrocità che racconta perché attraverso quella che chiama “grammatica” imprigiona attraverso regole ciò che nella realtà è fuori controllo. Si tratta della tua visione della scrittura?
Qui in realtà sono io che parlo al posto di Fran perché mi sono trovato molto in difficoltà nel cercare di raccontare di persone che si potrebbero ritenere mostri, cercando di utilizzare una prosa che non fosse né troppo didascalica né retorica. Ho fatto un lungo percorso con questo romanzo, che ha subìto anche diversi cambi di titolo e ha avuto tre riscritture complete. Alla fine ho inserito nell’ultima versione quelle parti riguardanti la scrittura anche perché Fran è un lettore assiduo, è molto incuriosito dai libri e in certi momenti non fa altro che leggere, come del resto facevo io nei periodi della mia vita in cui avevo gli attacchi di cui parlavo prima. Questo suo forte legame con la parola scritta me lo ha fatto sentire vicino.
Nella lettura di Titanio ho notato una grande cura nelle descrizioni dei corpi e delle sensazioni fisiche, che sono sempre rappresentate con una certa vividezza. Il corpo è anche uno dei tuoi soggetti prediletti nelle tue fotografie. Devi questa scrittura così corporea alla fotografia, arte che, più della scrittura, richiede sempre un riscontro concreto?
Quando devo scrivere qualcosa cerco prima di tutto di visualizzarla visivamente. Soprattutto quando vado ad indagare qualcosa che ha a che fare con la morbosità, con le pulsioni e con la carnalità me le immagino come se fossero immagini in movimento. Si tratta quindi di una scrittura molto cinematografica: è come se avvicinassi l’obiettivo il più vicino possibile per poi vedere i pori, i dettagli e le imperfezioni della pelle. A volte parto proprio da un dettaglio qualsiasi come una goccia di sudore, una cicatrice, un’unghia rovinata e poi da lì mi allontano e vado a ricostruire il resto.
Hai scelto di descrivere la violenza subita da Fran con delle pagine bianche con poche parole al centro. È stata una scelta successiva di editing o lo hai stabilito già in fase di scrittura?
È stata una scelta mia. Inizialmente non era così, anzi c’era un’abbondanza di dettagli e di descrizioni. È stato nella seconda riscrittura che ho optato per la pagina bianca. La prima versione del libro era infatti uno sfogo, un monologo di rabbia: c’era solo Fran, la Ciambella e la sua famiglia, ma mancava una “spina dorsale”. Il parere generale di lettori ed editor con cui mi confrontai era che vi erano delle potenzialità, ma che così il romanzo non andava in nessuna direzione. Ho quindi iniziato a cercare una struttura narrativa più articolata e mentre la creavo mi sono accorto che aggiungendo dettagli alla trama avrei dovuto toglierne alle descrizioni. Ho provato così a lavorare per sottrazione, soprattutto nella seconda parte. Vedo il romanzo un po’ come un imbuto: nella prima parte ci sono più dettagli per creare una base e far capire al lettore come si sta nella Ciambella e poi nella seconda parte i dettagli vanno a diradarsi.
La scelta della pagina bianca è dovuta al fatto che si tratta di qualcosa che mi ha sempre fatto paura: il bianco mi ricorda le pareti degli ospedali, i neon di una sala operatoria, il bianco di un limbo. In quel passaggio ho voluto riprodurre tutto questo esteticamente.
A cura di Giacomo De Rinaldis