Defrost, Diletta D’Angelo
(Interno Poesia Editore, 2022)
La prima parola in Defrost, edito per Interno Poesia nel 2022, è un’immagine: un vitello, in bianco e nero, in una probabile sala di mattatoio. Uno sguardo assoggettato; impaurito. La curvatura delle zampe ancora non del tutto sviluppate; la sensazione, nell’aria della fotografia, che manchi poco alla sua fine, e che lui/lei ne sia consapevole.
Esiste infatti una tematica in Defrost di Diletta D’Angelo, che parte da qui e ci accompagna per tutto il libro, ovvero quella della della prigione (emotiva/psicologica). È l’ingabbiamento dello stare al mondo; del caso, se così si può chiamare, che ci ha imposto di nascere in quel luogo e in quel momento e con quelle persone e che ci ha fatto diventare quello che siamo. Colmi di traumi – non nostri, perlopiù – i quali ci perseguitano senza scampo fino a un’apparente rinascita, che forse non è altro che una presa di coscienza, più che un cambiamento.
Ingabbiati fin dall’inizio, quindi, destinati a morte certa, l’esordio letterario di D’Angelo ci accompagna in alcune storie, animate da figure, a volte certe storicamente, altre generate dalla penna della poeta. In particolare è ricorrente il personaggio di Phineas Gage, operaio ottocentesco “salvatosi” da un gravissimo incidente accadutogli nel 1848, quando un’asta di metallo gli trapassò il cranio e gli distrusse il lobo frontale sinistro. Sopravvisse per dodici anni, sì, ma non era più lo stesso Phineas Gage, caratterialmente parlando – tanto che i suoi stessi amici faticavano a riconoscerlo.
Collegandosi a questo evento – e ricordiamo bene la parola “evento”, perché Defrost è ricco di eventi, accadimenti imprescindibili, quindi, che smuovono senza scelta i destini degli esseri umani –, l’io poetico dell’autrice parla della morte di una sorella, improvvisa, per impatto, e suggerisce le onde dell’urto che hanno risuonato a lungo, hanno congelato, appunto, chi ne è stato colpito.
È interessante poi come la consapevolezza di questo congelamento si pieghi sull’analisi (Anamnesi il nome del primo capitolo) delle piccole azioni quotidiane. Nei movimenti più basilari, nella famiglia, nel corpo, si trovano i segni dei traumi. Non nei grandi momenti, quindi, ma nella quotidianità congelata, statica. L’analisi di tutto ciò è la prima forma di “salvezza”.
D’Angelo alterna testi in prosa a testi in versi; personaggi della mitologia greca a personaggi di una privata, la prima persona alla terza, portandoci verso la convinzione che il trauma segna la nostra personalità senza che ce ne rendiamo conto, e che pian piano si prende tutto, come una micosi cerebrale, e che se Phineas Gage aveva effettivamente una ferita enorme al lobo frontale sinistro che ne influenzava la personalità, poco cambia, perché l’asta di metallo può essere anche invisibile, ma rimane ugualmente devastante.
Potremmo vedere Defrost come un piccolo romanzo di (de)formazione, e, per quanto siano insopportabili queste parole (s)composte, s’intende una narrazione di crescita ed evoluzione nella stasi dell’impossibilità e della messa in discussione di tutto. Solo tramite l’autoanalisi e l’osservazione di ciò che ci appartiene in quanto luoghi famigliari, allora, si trovano bagliori luminosi che indicano una strada verso quello che siamo, e ci aiutano a “scongelare”.
La capacità di Diletta D’Angelo nella composizione generale della silloge è notevole, e di questo ne va dato merito. Allo stesso modo, la composizione dei testi, con una metrica precisa e tagliente, rispecchia la densità tematica dell’intero libro.
Tuttavia durante la lettura sembra che i testi si sforzino a essere imponenti quanto l’idea che li ha preceduti. Con questo voglio dire che molti testi sembrano eccessivamente costruiti. E molti, inoltre, tentano di richiamare sempre la stessa dinamica metonimica degli altri, rischiando di essere poco originali.
Spesso le descrizioni sono estremamente accurate, facendo utilizzo anche di termini tecnico-scientifici; altre volte sembrano idee non del tutto sviluppate e messe su carta per riflettere la loro origine, senza diventare però materia viva.
Fortunatamente D’Angelo ha un grande senso della misura, per cui non ha dilungato eccessivamente il corpo del libro fino a snaturarne il senso, ma l’impressione è che avrebbe potuto continuare con testi simili ancora a lungo, facendosi oltrepassare dalla capacità di strutturare la metrica che incalza, e che fa scrivere e scrivere ancora, rendendo tutto almeno accettabile.
Defrost contiene delle illuminazioni, nonostante le raccolga piuttosto disordinatamente. Ha, soprattutto, una notevole illuminazione filosofica di principio, che viene esposta con maestria fin dall’inizio – fin dal titolo – ma nelle sue singolarità si perde.
Nelle letture dei poeti contemporanei è una domanda che ci si ripete spesso: va considerata la singola poesia che compone il libro o il libro nella sua interezza? A mio avviso, entrambe le cose. In questo caso Defrost si eleva per libro nella sua interezza, regalando una concezione di logos alla sua chiusura, dopo avere letto l’ultima composizione. Defrost, dal mio punto di vista, funziona in quanto opera complessiva, ma riesce poco nei suoi momenti, nelle poesie che lo compongono.
Diletta D’Angelo, comunque, si espone al pubblico in una buona prima prova, dimostrandosi una talentuosa poeta che riesce a scavare senza timore nella complessità umana. La necessità di sincerità disillusa, di ricerca dell’osso, questo sì, è percettibile in ogni parola da lei messa su carta.
Vittorio Parpaglioni
Foto in evidenza di Steve Johnson: https://www.pexels.com/it-it/foto/pittura-astratta-1145720/