Coi piedi e la mente sul Nanga Parbat, il più iconico tra gli ottomila

Nanga Parbat. L’ossessione e la montagna nuda – Orso Tosco
66thand2nd, 2023, pp. 119

La storia di un luogo come il Nanga Parbat (una delle quattordici cime più alte di ottomila metri presenti sulla terra) ci dice molto di sé e delle persone che ne hanno costruito il mito. Sì, perché il Nanga Parbat è una delle montagne più affascinanti per gli alpinisti di tutto il mondo, a partire dal primo che diede vita alle spedizioni su quella cime: Albert Mummery. Dopo alcune conquiste sulle Alpi, nel 1895, Mummery tentò di scalare la montagna nuda trovandovi la morte, cercando per di più di raggiungere la vetta del Nanga Parbat attraverso uno sperone centrale assai pericoloso, che prende il suo nome e che negli anni ha attirato altre vite trasformandole in morti. 

Su questo apparente cortocircuito si costruisce tutta la narrazione di Orso Tosco nel suo nuovo libro per 66thand2nd, con il quale la casa editrice romana inaugura il restyling di alcune collane fra cui proprio “Vite inattese”. Tosco, infatti, racconta la storia alpinistica del Nanga Parbat attraverso alcune delle figure che lo hanno affrontato ma, soprattutto, che hanno alimentato il mistero e il sogno intorno a questo enorme blocco di roccia e ghiaccio. 

Il nome dell’alpinista britannico si legò per sempre alla parete di ghiaccio che l’aveva ucciso […]. E il fatto che proprio quello stesso sperone sia riuscito, più volte, a reclamare altre vittime getta una luce sinistra sul magnetismo di cui è capace. Gli uomini e le donne sembrano attratti da questa zona incredibilmente pericolosa come falene dalla luce di una candela. (p. 24)

Il cuore del racconto di Tosco coincide con l’idea che le montagne attirino gli uomini più coraggiosi attraverso un magnetismo oscuro, che non si può spiegare totalmente a parole. Per questo il testo è innervato di citazioni di poeti e cantori della difficoltà, solo loro hanno saputo dire ciò che gli altri hanno solo potuto “sentire”. Gli alpinisti – a loro modo cantori della difficoltà e del pericolo – con la loro attività hanno invece tratteggiato una linea narrativa che Orso Tosco segue e valorizza. 

Si parte da Mummery e dal suo sguardo visionario, per poi affrontare la parentesi tedesca sul Nanga Parbat: la iniziò Willy Merkl nel 1932 e nel 1934 il quale, seguendo «la sciagurata abitudine degli esploratori occidentali a non dare troppo retta alle popolazioni locali», fallì entrambi i tentativi di salire in vetta, il secondo gli fu fatale e morì sotto il peso di una valanga insieme a due portatori locali. Nel frattempo il Terzo Reich, nel corso dell’operazione di ridefinizione dei propri confini culturali, definì il Nanga Parbat “la nostra montagna”. Questa appropriazione indebita era figlia della passione di Heinrich Himmler per il mondo dell’occultismo e la teosofia: una vicenda che nel libro viene ben approfondita, alimentando così la meta-narrazione sulla montagna e quindi la godibilità dell’intero impianto. 

Il legame fra i tedeschi e il Nanga Parbat però continuò, in un clima totalmente diverso. Sono affascinanti le pagine che Tosco dedica ad Hermann Buhl, uno dei maestri dell’alpinismo leggero anche sugli ottomila (ovvero quel tipo di alpinismo che non prevede campi fissati sulla montagna, chilometri di corde fisse, ma pensa a una salita e discesa rapide, senza troppo impatto sulla montagna). Buhl nel 1953 riesce a raggiungere – primo uomo sulla terra a farlo – la vetta del Nanga Parbat, da solo, dopo aver scalato ininterrottamente per quaranta ore. Scendendo sarà costretto a bivaccare da solo, in piedi, a oltre 8000 metri di altezza; riuscirà a sopravvivere grazie alla «propria passione [che] sovrasta per intensità la paura della morte. Ma passione per cosa, di preciso?» si domanda comprensibilmente Tosco. La risposta è tutto quello che si riesce a comprendere solo se sfiorato:

La vera passione di Hermann va rintracciata nella libertà, nella libertà assoluta che riesce a trovare soltanto lassù, appeso alla roccia, tra i ghiacci, diretto verso la vetta. L’alpinismo per lui è un modo per ristabilire i valori essenziali della vita, valori che il mondo e la società tentano sempre di stravolgere e inquinare, e che invece l’alta quota è in grado di formulare con chiarezza assoluta, al punto da regalare a Boris Vian un’intuizione preziosa: «Sulle cime più alte ci si rende conto che la neve, il cielo e l’oro hanno lo stesso valore». (pp. 35-36)

Un discorso che può sovrapporsi, senza dubbio, alle altre persone che segnano la storia di questa montagna. Reinhold Messner che nel 1978 compie l’ascesa in solitaria del Nanga Parbat (Buhl era salito in cordata, poi ha proseguito nell’ultimo tratto da solo), dopo che nel 1970 era riuscito a raggiungere la vetta con suo fratello Günther, salvo poi dover tornare da solo con quest’ultimo trascinato via da una implacabile valanga. Nives Meroi e Romano Benet, o Tomasz Mackiewicz, detto Tomek, ma anche l’italiano Simone Moro che insieme all’altoatesina Tamara Lunger, il basco Alex Txikon e il pakistano Ali Sadpara, nel febbraio del 2016 raggiunsero la vetta del Nanga: prima spedizione a riuscirci in inverno. 

L’ultimo capitolo alpinistico è dedicato a Tom Ballard e Daniele Nardi che nel 2018 tentarono di scalare la montagna attraverso l’inviolato sperone Mummery, il quale li rigettò indietro lasciandoli appesi sulla parete, anche loro travolti (probabilmente) da una valanga. Ballard era il figlio di Alison Hargreaves, grande alpinista che morì in discesa dopo aver conquistato il K2; Nardi, invece, era un alpinista atipico, nato in provincia di Latina, cocciuto e in contrasto con buona parte degli alpinisti con cui si è venuto a incontrare. Le storie di entrambi raccontano della loro ossessione e della volontà che a volte travalica l’intelletto. Quando questa si incanala nei giusti argini diventa intuizione, altre volte può assomigliare più a un delirio. 

Orso Tosco lavora costantemente su questa duplicità e nel frattempo racconta storie appassionanti senza quella tipica ritualità con la quale sono scritti i libri di alpinismo. Nanga Parbat è un libro che guarda dall’alto ciò che racconta, parla idealmente dalla cima della montagna, osservando dinamiche che ai più sfuggono e rivolgendosi anche a chi l’alpinismo non lo conosce o non lo pratica. Poiché Tosco utilizza una lingua calata nella narrazione, né troppo enfatica né troppo secca, sa muoversi perfettamente nel filo che ha deciso di sbrogliare dall’intera matassa. Il messaggio appare sempre e solo uno: se l’ossessione può essere devastante, senza un obiettivo a cui mirare si rischia di guardare sempre fuori dalla stessa limitata finestra. 

Saverio Mariani

Foto di Haseeb Jamil su Unsplash

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