Noi, i Selk’nam: dialogo con un popolo che ancora resiste

Noi, i Selk’nam – storia di una resistenza, Carlos Reyes e Rodrigo Elgueta
(Edicola Ediciones, 2022, Trad. P. Primavera)

L’opera di Carlo Reyes, scrittore, e Rodrigo Elgueta, illustratore, è difficile da definirsi. Graphic novel in tre colori, principalmente bianco e nero, in poche pagine si aggiunge il rosso, è allo stesso tempo fiction e saggio. Entrambe le anime del libro contribuiscono, però, a costruire e sviluppare la storia dei popoli fuegini, cioè della Terra del Fuoco, e, in particolare, la storia dei Selk’nam, abitanti della punta estrema dell’Isola Grande, oggi sotto il governo argentino, vittime di un genocidio cancellato dai libri di storia.

Il lavoro di Reyes ed Elgueta è metaletterario e metanarrativo. La parte saggistica, infatti, vede i due autori che, sulla pagina, impersonano sé stessi mentre intervistano persone avvicinatesi alla cultura e al popolo Selk’nam in vari modi. Gli autori svelano i retroscena della produzione di un fumetto, quasi si trattasse di un’opera teatrale e loro fossero gli sceneggiatori, discutono sullo svolgimento della parte di fiction, incontrano altri scrittori, studiosi, artisti, Selk’nam sopravvissuti al massacro.

Gli europei entrano in contatto per la prima volta con gli abitanti della Terra del Fuoco nel 1519, con Magellano, che circumnaviga per primo la punta australe delle Americhe, “scoprendo” questi territori. Per via di Antonio Pigafetta, il cronista che lo accompagnava, nasce il mito dei Patagoni, esseri antropomorfi che vivevano nudi caratterizzati da un’altezza fuori dal comune. Sono i nuovi giganti e alle loro terre vengono attribuiti i miti che per secoli erano stati caratteristici dell’Oriente. In un mondo in cui il confine tra realtà e immaginazione era quanto mai labile, fiorirono leggende e racconti che li vedevano come protagonisti: crudeli mostri selvaggi dalla forza sovrumana da una parte, esseri superiori dalle inconcepibili conoscenze scientifiche e filosofiche dall’altra. Nel 1939, il paleontologo Alciole d’Orbigny stabilisce che nessun indigeno supera il metro e 92, il che vuol dire, comunque, che erano più alti di trenta o quaranta centimetri degli europei del XVI secolo.

La vita materiale Selk’nam era molto semplice e, per questo, non lasciò traccia, ma essi partecipavano comunque di un mondo spirituale molto ricco. Compito delle persone che, oggi, vogliono tentare un approccio alla cultura indigena senza farne parte, è accettare che esiste una parte insondabile della loro cultura. Secondo Tirso Troncoso, filosofo e docente dell’Universidad de Chile, siccome il nostro punto di vista sarà sempre esterno e lontano, da portatori di una cultura materialista opposta a quella indigena, è necessario comprendere che «c’è stato qualcosa di meraviglioso che possiamo intravedere, ma che non riusciremo a decifrare con gli strumenti della scienza umana».

Grazie a persone come l’antropologa Anne Chapman, sappiamo che la società Selk’nam era «ugualitaria e patriarcale, una contraddizione che l’ideologia si è sforzata di giustificare» tramite i miti cosmogonici. Gli indigeni non avevano capi ereditari o elettivi, come riportato da Lucas Bridges, primo uomo bianco a nascere nel distretto di Ushuaia, nel 1874, ma, in base all’impresa da portare a termine, veniva scelto un leader per le sue abilità.

Martin Gusinde, sacerdote e antropologo austriaco, visse a contatto con alcuni clan Selk’nam, e partecipò a dimostrazioni di magia sciamanica. Nonostante l’indubbia difficoltà per un occidentale razionale e cattolico di avvicinarsi ad un atto magico pagano, nel 1923 partecipò e documentò un hain Selk’nam, un rituale di iniziazione per i giovani maschi, che prevedeva che gli uomini adulti indossassero maschere e dipingessero i loro corpi a imitazione degli spiriti Kotaix, o Halahàces. La festa dell’hain era parte integrante della cultura Selk’nam, e prevedeva la momentanea unione di gruppi nomadi altrimenti separati. Nel 1923 i Selk’nam avevano già abbandonato i loro costumi, ma acconsentirono a vestirsi secondo l’uso tradizionale e a farsi fotografare da Gusinde. Proprio grazie a questa documentazione, siamo in grado di immaginare come si svolgessero i loro rituali.

Come riportato dall’antropologa e sceneggiatrice di fumetti Berna Ojeda Labourdette, il grande errore degli europei fu di non comprendere mai la società Selk’nam, «contraddistinta da un ricco mondo interiore e da una lingua complessa», caratterizzata da nomadismo e non abituata a coprirsi se non con pellicce idrorepellenti di guanaco. Il pregiudizio che la cultura cilena non fosse abbastanza dignitosa, come sostenuto da studiosi del calibro di Darwin, forti del razionalismo dell’epoca Vittoriana, fece sì che il Cile fosse ceduto all’Argentina, in quanto terra non produttiva. «Fu la logica dell’utilità legata alla rivoluzione industriale», chiaramente non applicabile ad un popolo di cacciatori-raccoglitori, che portò Darwin a dire che «i Selk’nam erano gli esseri più miserabili della faccia della terra».

L’ignorante arroganza occidentale del sentirsi superiori e portatori dell’unica civiltà possibile, fece sì che le usanze e le credenze indigene fossero obliterate e schiacciate dall’illusione di un’evangelizzazione legittima. Si va da fatali errori dettati dall’ignoranza, quali l’offerta di bevande zuccherate, che tra gli indigeni causò morti per setticemia, l’imposizione di abiti cui i Selk’nam non erano abituati, che, inumiditisi, li fecero raffreddare causandone la morte, a veri e propri atti di cattiveria mista ad un’inaccettabile idea di punizione. È il caso della relegazione di indigeni su un’isola allo scopo di evangelizzazione: quando i sacerdoti scoprirono la loro intenzione di andarsene con una zattera, allentarono le corde che tenevano insieme i legni dell’imbarcazione, affinché si separassero in mezzo al mare causando l’annegamento dei fuggitivi.

La convinzione che le persone non occidentali fossero di razza non umana e l’incomprensione di un mondo estraneo, portò al rapimento di indigeni e alla loro deportazione in zoo europei a puro scopo commerciale. Come raccontato in Zoològicos humanos, Maurice Maitre, un impresario belga, rapì una famiglia di undici persone e la portò all’esposizione universale di Parigi del 1889. Come riporta Gusinde, con il pretesto di un’«etnologia disumanizzante» e per legittimare le teorie della superiorità della razza e del colonialismo, gli undici Selk’nam, portati in tournée a Londra e in Belgio, furono presentati come cannibali, in uno spettacolo morboso e voyeuristico che iniziò a essere contestato da medici e missionari soltanto dal 1900, cinquant’anni dopo la creazione dei primi zoo umani. L’esibizione di indigeni in cattività fu parte dell’intento di sterminio perpetrato nei loro confronti.

Il genocidio dei Selk’nam è legato a doppio filo allo sfruttamento dei loro territori. Personaggi come José Menéndez, presentato come uno dei padri fondatori dalla storiografia ufficiale, fu uno dei latifondisti che conquistarono economicamente la Patagonia. Giunto a Punta Arenas per riscuotere un debito, fece costruire la propria tenuta nei territori dei popoli indigeni, allontanati con la forza, e prese parte al potenziamento dell’industria tessile iniziato dagli inglesi. Al servizio suo e di altri latifondisti «vi erano i più spietati cacciatori di indigeni. Inoltre, promossero la deportazione dei Selk’nam nelle missioni salesiane, da cui non uscirono più». In parallelo, i latifondisti repressero gli operai della regione, che chiedevano medicinali e di essere pagati in denaro, non in buoni da spendere presso i negozi dei latifondisti. Il governo Yrigoyen portò alla fucilazione di un centinaio di braccianti disarmati a Santa Cruz, in Argentina. Poco più di cinquant’anni dopo, Pinochet dedicava una strada a Punta Arenas a Menéndez, avo del consulente culturale del dittatore, Enrique Campos Menéndez, che mise in atto una manipolazione ideologica culturale al fine di esaltare i padri fondatori insieme ai concetti di nazione, tradizione e cilenità. La verità fu occultata, era necessario vincere «la guerra dell’universo simbolico», dopo che il governo socialista era stato sconfitto militarmente. La condizione libera dei Selk’nam, il loro massacro, lo sfruttamento delle loro terre, furono nascosti dalla storiografia istituzionale, tacendo il dolore causato dalla cultura bianca cattolica.

Oggi, riportano gli autori, è la profondità dell’inconscio collettivo che può connetterci con i Selk’nam, come hanno sperimentato Alejandro Albornoz, musicista elettroacustico che attinge agli elementi minimalisti della musica indigena, Pamela Morales, che ha ideato un balletto di danza contemporanea ispirato alla ricerca di libertà di due bambine costrette sull’isola di Dawson da una missione cattolica, o, infine, Rodrigo Elgueta, che usa un tratto spontaneo per disegnare gli indigeni, un tratto realistico per disegnare sé stesso, Carlo Reyes e i loro intervistati, e un tratto più fumettistico per la parte di fiction.

Il riconoscimento dei popoli nativi, antitetico alla venerazione di ciò che ormai è scomparso, è quanto ha portato Reyes ed Elgueta a scandagliare, per quanto possibile, ciò che è ancora recuperabile della cultura Selk’nam. Scoprire che ci sono Selk’nam che sono sopravvissuti al massacro è propulsore della diffusione della loro memoria. Come raccontato dalla parte di fiction, che occupa una posizione marginale rispetto alla parte saggistica, c’è necessità di dialogare con le popolazioni sconfitte originarie, necessità di pronunciare i nomi degli assassini per ricordare.

Noi, i Selk’nam non è riscrittura in chiave narrativa della storia dei Selk’nam, cosa che non avrebbe fatto altro che occultare, per l’ennesima volta, la storia, nascondendo il mistero delle società fuegine sotto ad un velo di finzione, e, per questo, la parte saggistica è preponderante. L’opera edita Edicola Ediciones è un potente mezzo di comunicazione di una storia tenuta nascosta. Rappresenta la speranza che, se la memoria collettiva è stratificata quanto lo è quella individuale, ci si ricordi del tentativo, quasi del tutto riuscito, di sterminio, ma anche della resistenza di un popolo. Un popolo che, tutt’ora, non si è dato per vinto. Memoria alla quale ci si deve accostare con rispetto, instaurando una relazione non tanto intellettuale quanto emotiva con l’originario che travalica il tempo.

Eleonora Mander

Rispondi

Inserisci i tuoi dati qui sotto o clicca su un'icona per effettuare l'accesso:

Logo di WordPress.com

Stai commentando usando il tuo account WordPress.com. Chiudi sessione /  Modifica )

Foto Twitter

Stai commentando usando il tuo account Twitter. Chiudi sessione /  Modifica )

Foto di Facebook

Stai commentando usando il tuo account Facebook. Chiudi sessione /  Modifica )

Connessione a %s...