Male a Est: oltre la pancia del pesce cosa c’è?

Male a Est, Andreea Simionel
(Italo Svevo, 2022)

I personaggi di Male a Est sono poco simpatici. Autoritari, scontrosi, chiusi, distanti. Rabbiosi. C’è poco spazio per la tenerezza o la comprensione, nel romanzo d’esordio di Andreea Simionel, e il titolo – tre parole in fila a segnare un luogo e un sentimento con asciuttezza e precisione – lo afferma fin dalla copertina. E se un lettore poco attento o svagato decidesse comunque di aprire il romanzo nella speranza di un incontro piacevole o di una risata, verrebbe smentito dai primi paragrafi.

Male a Est si apre parlando di morti. I morti non si vedono, i morti non disturbano, afferma la protagonista e voce narrante del romanzo, Andreea Pavel. Eppure, i morti son sempre lì; guardano e aspettano oltre le alte mura del cimitero che si trova su Strada della Pace, la via dove abita Andreea. Non hanno fretta; accolgono imperturbabili i vivi e i loro fiori, i vivi e l’erba calpestata durante i picnic domenicali, i vivi e le loro preghiere smozzicate e incerte.  A esser morti, infatti, ci vuol poco: un attraversamento incosciente sul grande viale senza semafori e strisce, come accade al figlio della maestra della protagonista, e si è subito dall’altro lato. Lì, oltre il muro bianco ed alto ad aspettare e ad accumulare tributi, oggetti e attenzioni che non potranno più essere usati.

Oltre il muro vive anche il padre di Andreea. La sua assenza (che si protrae ormai da tre anni) assomiglia alla morte, una distanza che non può essere colmata: solo la madre può parlare al telefono con suo marito, ad Andreea e alla sorella spettano messaggi brevi e insignificanti, da inviare ogni sera con i telefonini comprati grazie ai soldi dell’Italia.  È a Torino, infatti, che questo padre senza nome (come senza nome sono anche la sorella e la madre della protagonista) lavora, accumula, invia: denaro, pesto, tiramisù per la famiglia rimasta nella pancia del pesce. Il pesce è il paese che non è mai nominato, così come senza nome (per quasi tutto il romanzo) rimane la città dove vive la famiglia Pavel, in cui tutto, però, – strade, piazze, scuole – è intitolato a Eminescu, il più noto poeta rumeno. Siamo in Romania, quindi, intorno al 2003. È questo l’Est del titolo, un Est fatto di amandine e covrigi e divise per la scuola, in cui Ceausescu non è mai nominato e la politica è lontana dalla quotidianità di Andreea e della sua famiglia. Lei ha dieci anni e fa la quarta elementare, è la seconda della classe, sempre dietro alla compagna Andreea Simionel. L’Andreea Simionel letteraria, omonima e doppia della scrittrice (che rispecchia anche nella descrizione: come l’Andreea in carne e ossa, anche l’Andreea S. letteraria è bionda, alta, esile, mentre Andreea Pavel è bruna e tozza) segna una doppia distanza: quella tra Simionel e ciò che racconta – necessaria a trasporre sulla carta un’esperienza vicina all’autobiografismo – e quella tra la Romania e l’Italia.

Quando i Pavel decideranno, infatti, di seguire il capo famiglia a Torino, l’Andreea Simionel personaggio rimarrà indietro, così come il resto della vita rumena della protagonista. Si compie, a metà libro, un trapianto di vita e di lingua, che passa per quell’italiano che «s’infila dentro la bocca con le sue zampe e te la divarica, come le forbici per tirare fuori i bambini dalla fica». Ad Andreea l’italiano non piace, l’inglese lo considera una lingua da oche e il rumeno un riflesso incondizionato, un’abitudine da abbandonare per riuscire a integrarsi.

L’integrazione è violenza, vuol dire sforzarsi di essere diversi da come si è, colorare nei margini come la obbliga a fare l’insegnante di italiano nella scuola di Torino: linee dritte e parallele di pennarello che seguono i confini dettati dalla nuova vita, dalla nuova scuola, dai nuovi compagni. Vuol dire scavare nella vergogna tanto a fondo da riemergerne inzaccherate fino all’osso. Vuol dire rispondere a domande come «Romania dove, di preciso? Dove?». Andreea Pavel lo fa con la sua lingua nuova di zecca imparata in meno di otto mesi, Andreea Simionel (autrice) risponde ai lettori con la sua scrittura secca, asciutta, senza inflessioni e accenti, senza rotondità e pause. Ci sono lingue-pitone che ti avvolgono sinuose per poi stritolarti; la lingua di Simionel assomiglia a un colpo di tamburo, esatto e ripetuto per 263 pagine. Una lingua adulta e cinica.

Il rischio, se si legge il romanzo tutto d’un fiato, è di perdersi nella monotonia e ripetitività del suo ritmo. L’affermarsi di Andreea, della sorella e della madre in Italia passa attraverso un deterioramento progressivo delle relazioni familiari; ciò che prima li univa deve essere estirpato, e il romanzo accompagna questo movimento con una foga che a volte corre il rischio di allontanare il lettore. Eppure la storia di questa malattia-Italia va letta e diffusa; contagiarsi e contaminarsi è l’unica strada possibile in un mondo che è uno, ma le cui strade sono molteplici.

Alessia Sciannamblo

Immagine in evidenza di Tom Swinnen: https://www.pexels.com/it-it/foto/pittura-astratta-2249961/

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