Capovolgere la realtà: intervista a Ezio Sinigaglia su “Sillabario all’incontrario”

Sillabario all’incontrario, Ezio Sinigaglia
(Terrarossa Edizioni, 2023)

Sillabario-allincontrario_fronte-copertinaUno scrittore attraversa una fase di depressione. Alla ricerca di una soluzione, si reca dal medico, che gli prescrive come terapia la scrittura. Questo l’”antefatto” di Sillabario all’incontrario di Ezio Sinigaglia (edito da Terrarossa Edizioni), scritto tra il 1996 e il 1997 e inizialmente non destinato alla pubblicazione. Sinigaglia cerca le cause della propria condizione attraversando le lettere dell’alfabeto, ma in senso contrario. A partire dalla Z individua per ogni lettera una parola significativa che diventa una porta di accesso alla comprensione del passato e del presente. Il risultato è un’opera che oggi inseriremmo nell’attualissimo genere letterario dell’autofiction, ma che in realtà è la sincera autoanalisi di un maestro di stile che con la raffinatezza e la precisione tipiche della sua scrittura ci fa vedere il mondo alla sua maniera: all’incontrario.

Ho avuto il piacere di conversare con Ezio Sinigaglia su questo suo libro, ma anche su tanto altro.

Come dichiari nella prefazione al libro, Sillabario all’incontrario nasce da una condizione di malattia. La scrittura si presenta quindi come “farmaco” nel senso più originario del termine. Come spieghi questo suo potere benefico e, forse, salvifico?

In un certo senso non me lo spiego, però sono convinto che ci sia. La mia abitudine a leggere e a scrivere è talmente antica che non mi sono mai sorpreso di questo effetto benevolo della letteratura. Nel Novecento poi questo rapporto fra malattia e scrittura e fra scrittura e guarigione è quasi uno dei temi prevalenti. Si trova tra gli altri in Svevo, in Proust o nel Thomas Mann de La Montagna magica, il quale dedica a questo tema praticamente tutto il romanzo. Citerei volentieri anche Giuseppe Berto perché il suo Il Male oscuro è nato da una forma di depressione che in qualche modo può essere paragonata alla mia.

Non a caso, ne La Coscienza di Zeno, ne Il Male oscuro e anche nel mio Sillabario all’incontrario in fondo è nella figura del padre che si può individuare un nodo intorno al quale si agitano dei problemi irrisolti, che quando non si ha voglia di affrontarli danno luogo a delle fasi di scoraggiamento e di depressione. Anche nel mio caso questa fase seguiva di pochi mesi la morte di mio padre, che non era stato uno shock vero e proprio dal momento che era un uomo già molto anziano. La scomparsa di un genitore crea però sempre qualche sommovimento nella coscienza e soprattutto un po’ più in basso, nell’inconscio.

Perché hai scelto la particolare forma del sillabario invece che quella del romanzo, per così dire, “tradizionale”?

Fin dall’inizio ho immaginato che fosse difficile individuare una singola causa di questo mio stato e che, per così dire, “i quadri da appendere” fossero più di uno. Molti più di uno, direi: per esempio ventuno, come le lettere dell’alfabeto. Mi piaceva anche l’idea di seguire le associazioni di idee, un po’ come quando si fa analisi. Poi ancora perché a me piace – l’ho fatto praticamente in tutte le cose che ho scritto – inserire qualcosa di paradossale, un capovolgimento utile alla comprensione della realtà. E in questo caso l’inversione dell’ordine alfabetico credo sia ancora più semplice e vistosa di altri capovolgimenti che avvengono in altri miei libri.

Pochi mesi prima di questa fase depressiva avevo scritto uno degli ultimi capitoli del mio “romanzone” Fifty-Fifty, e in particolare l’episodio in cui, dinanzi alle stranezze che escono dalla bocca del narratore Aram, il bersagliere-autista Sciofì, che poi diventerà il suo amante, gli dice: “Dio bono, co’ lei ci casco sempre: m’ostino a metter l’a per prima: e invece, debbo capovolger tutto l’alfabeto.” L’idea mi è venuta anche da lì, si potrebbe dire che l’ho rubata a questo mio personaggio.

Certo, è ovvio che non si tratta di un vero e proprio sillabario. Come ha notato una critica acuta come Mariolina Bertini, il mio è un sillabario “all’incontrario” non solo perché l’ordine alfabetico è capovolto, ma anche perché è il contrario di un sillabario: il sillabario è un genere letterario che vuole rassicurare i bambini mostrando loro una realtà già molto ben definita, bene organizzata e immutabile; il mio cerca invece di fare esattamente l’opposto.

Il libro è stato scritto tra il 1996 e il 1997. Nel rileggerti oggi a distanza di quasi trent’anni, hai fatto delle particolari considerazioni?

Ho sempre curato molto i miei libri nella forma, anche se ho sempre pensato che sarebbero rimasti inediti fino alla mia morte. Normalmente hanno bisogno di pochissimi ritocchi per andare in stampa. Nel caso del Sillabario, a parte piccoli errori e rare ripetizioni indesiderate che ho corretto, non c’era la volontà di toccare nulla per via del meccanismo che è alla base di questo libro, l’associazione di idee. Toccare qualcosa per modificare un processo mentale secondo me sarebbe stato scorretto.

La cura per la forma è una mia abitudine, però non ho scritto Sillabario all’incontrario come un romanzo destinato alla pubblicazione, ma quasi come una lettera al medico che me l’aveva prescritto (al quale infatti è dedicato). All’inizio avevo usato un paio di volte il pronome “Tu” perché mi rivolgevo a lui, ma l’ho cambiato quando ho capito che la cosa si stava ingrandendo, per cui il lettore doveva restare indefinito.

Nel libro parli molto del passato, dell’infanzia e della giovinezza. Come ti relazioni con il passato?

Quando si arriva ad un’età così avanzata il rapporto col passato diventa più positivo e “mitico” di quanto non sia stato quando si hanno quaranta o cinquant’anni. Allora mi ricordavo dell’infanzia come di un periodo sì felice, ma cominciavo anche a individuare i problemi che lì avevano trovato il loro seme. Soprattutto vedevo l’adolescenza come una fase di profonda crisi, come credo sia per quasi tutta l’umanità: un’età emozionante, ma anche difficile, per cui si tira un respiro di sollievo quando se ne esce. Non ricordo quale scrittore abbia detto che uscire sani e salvi dall’adolescenza è quasi un miracolo.

Adesso tendo a vedere la giovinezza come una terra più desiderabile di quanto non mi apparisse una ventina di anni fa, perché naturalmente allora vi era la vigoria del corpo e la possibilità di fare cose che ora diventano impossibili. Nell’insieme non vivo il passato con un vero rimpianto, ma piuttosto con una leggera nostalgia. Nel complesso sono piuttosto contento del percorso che ho fatto, muovendo da un inizio difficile: alla fine sono riuscito a impossessarmi della mia personalità, nonostante i problemi identitari di cui si parla molto nella lettera H, con il narratore che si guarda allo specchio e non si riconosce, finendo per attribuire questa difficoltà al fatto che i suoi capelli sono sempre in movimento.

Come dicevi prima, per molti anni i tuoi lavori sono rimasti inediti; dedichi infatti la lettera I alla parola “inedito”. Paragoni l’inedito ad un circuito elettrico con l’interruttore spento: senza il lettore l’opera non viene “illuminata”. Vorrei che mi parlassi di questa capacità di vivificare l’opera da parte di chi legge.

Ciò che volevo chiarire a me stesso in quella lettera I era che quello che è spiacevole dell’inedito non è la mancata soddisfazione di una mia volontà di affermazione personale, ma piuttosto il fatto che l’inedito non può avere lettori, che sono ciò in cui il libro si realizza: un romanzo è scritto per essere letto, come appunto un impianto elettrico è progettato per essere acceso: se non viene acceso non può illuminare. Così il libro non pubblicato è incompiuto perché può compiersi solo nella lettura.

L’inedito è come una lettera che non viene spedita, immagine che tra l’altro compare nel libro quando si parla di francobolli: il narratore bambino, che ha un padre e un fratello filatelici, si chiede come possano esistere dei francobolli nuovi (francobolli cioè che non sono mai stati timbrati, che non hanno mai “viaggiato”) e pensa che siano stati creati per delle lettere che non sono mai state spedite. Ecco, l’inedito assomiglia anche a questi francobolli in perpetua attesa del timbro che li autorizzi a partire.

Uno degli aspetti che più mi ha colpito del libro sono le descrizioni. Pur essendo molto accurate, non risultano mai pedanti, ma aprono prospettive inedite su un aspetto della realtà all’apparenza insignificante. Penso ad esempio alla descrizione del sinuoso movimento di un cameriere in un albergo parigino, che diventa una vera e propria teoria della linea. Nel capitolo sull’inedito parli anche della tua ricerca della marginalità: credi che questa capacità di osservazione sui generis sia legata in qualche modo alla tua propensione a rimanere ai margini, rifuggendo dai ruoli?

Vi è certamente un legame tra il mio destino di marginalità vissuto sin dall’infanzia nell’ambito nella famiglia e la mia tendenza a una vita molto sensuale e contemplativa, tutt’altro che competitiva o attiva nel dramma dell’esistenza, dello struggle for life. Ho sempre cercato delle posizioni comode ma anche molto marginali, dalle quali potessi guardare il mondo e nutrire il tarlo del pensiero e della scrittura.  In realtà quello che osservo è ciò che scelgo di osservare, in quanto sono anche una persona enormemente distratta: posso camminare per la strada e non salutare qualcuno che conosco perché letteralmente non lo vedo. Ci sono invece cose che osservo con molta attenzione, perché evidentemente mi interessano più di altre.

La tua scrittura è pervasa da humour, a cui dedichi la lettera H. Affermi senza mezzi termini che è meglio tacere piuttosto che scrivere senza umorismo, raccontando come questa particolare modalità di comprensione della realtà faccia parte di te sin dall’infanzia. Cosa intendi esattamente per humour?

C’è un nesso molto forte tra lo humour e quello di cui parlavamo all’inizio, cioè il mio amore per il paradosso, la mia tendenza al capovolgimento delle cose come si fa con un oggetto per guardarlo sotto una prospettiva nuova. Allo stesso modo capovolgere tutte le situazioni, le convenzioni e le norme serve per poter capire meglio a che cosa sono legate e se vale la pena seguirle o seguirle alla rovescia. L’umorismo non nasce dalle convergenze e dal rispetto delle leggi della fisica, ma semmai dall’opposto (la classica gag di quello che inciampa in un gradino, che fa ridere perché è qualcosa di inatteso).

Poi c’è un altro nesso che è quello tra marginalità e ironia, due cose che spesso coincidono. È difficile che una persona che si sente al centro della scena possegga una vera ironia e autoironia. Può forse esercitare un’ironia “cattiva” nei confronti degli altri, ma la vera ironia parte dalla capacità di ridere di sé stessi e di criticarsi, di vedersi nelle parti manchevoli. È un tratto tipico di chi sta ai margini, inosservato.

Una curiosità, per così dire, stilistica: come mai nel libro prediligi l’uso dei due punti al punto?

Questa è una scelta che forse avevo già fatto altre volte, ma mai in modo così macroscopico. Ho trovato che fosse una modalità di interpunzione molto adatta a quello che stavo scrivendo, perché i due punti hanno la caratteristica di interrompere la frase senza chiuderla, un po’ come il punto e virgola, che però rappresenta comunque una sosta. I due punti sono invece una breve pausa che apre ad una frase successiva: li paragono ad una nota puntata in una partitura musicale, che crea un leggero rallentamento per aprire poi verso un’accelerazione.

Scrivi che: ‹‹Un libro può aprire buchi, se è un buon libro, non richiuderne››. In cosa consistono questi buchi?

Chi si illude che un libro possa colmare una lacuna credo non abbia capito cosa sia un libro, soprattutto se di buona letteratura. Ciò che l’autore ha di interessante da dire può essere illuminante, ma è anche inquietante perché apre nuovi spazi di incertezza, piuttosto che richiudere quelli vecchi. La buona letteratura è proprio questo: stimola il pensiero e quindi crea il dubbio più di quanto non lo risolva. Io ho molto rispetto del lettore, e troverei indegno e sleale annoiarlo. Però non voglio neanche andare supinamente incontro ai suoi gusti. A me piace mettere “una pulce nell’orecchio” del lettore, dargli un po’ fastidio con qualcosa che non gli piace sentirsi dire, e che però lo stimola a pensare.

A cura di Giacomo De Rinaldis

Foto in copertina di Flavia Matta

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