Grande nave che affonda, Andrea Cappuccini
(Atlantide, 2023)
Quali motivi ci impediscono di buttarci in una storia d’amore? Cosa ci ostacola davvero dal perseguire i nostri sogni? Di cosa abbiamo paura, quando esitiamo prima di spiccare il volo?
Queste sono le domande che si pone e a cui cerca di dare risposta Diego, il protagonista del romanzo d’esordio di Andrea Cappuccini, Grande nave che affonda. Le vicende iniziano e finiscono con il periodo in cui il migliore amico di Diego, Taddeo, sconta una pena in carcere per un motivo che non viene mai specificato. A occupare saltuariamente la sua stanza si inserisce l’amico che sembra come prendere il posto di Taddeo nella sua famiglia, diventando come una specie di figlio di scorta per la mamma, Viviana, per il padre Romano, un sostituto per i nonni e per la sorellina Aurora.
Nella scelta di un linguaggio parlato, colloquiale, come se la voce narrante fosse uno di quei personaggi di cui stiamo leggendo, la narrazione ha il ritmo e la cadenza di una delle colorate conversazioni a cui potremmo assistere nel testo, dà l’impressione di trovarci in un locale della periferia romana, davanti a due pinte di birra, ad ascoltare il racconto delle sconclusionate vicissitudini di vita dei protagonisti, a volte esilaranti, a volte incredibili, a volte dolorosamente simili alle nostre.
I personaggi si agitano continuamente alla ricerca di un senso, anche se a volte cercano di dimenticare la necessità di trovarne uno. Sono così veri, nella loro assurdità, che a volte sembra di sentirli parlare, come se li si conoscesse davvero. Contribuisce senza dubbio la parlata in dialetto romano e le personalità da borgata, riconoscibili sia per chi vive sulla propria pelle la quotidianità di Roma sia per chiunque abbia visto un film con Carlo Verdone.
La casa della famiglia si sviluppa su più livelli, come una Torre di Babele, in cui si incontrano, si raccolgono e coesistono lingue diverse, amici e parenti, umani e fantasmi, storie di altri tempi e storie del presente, storie mistiche e di fantascienza, storie contrastanti e sovrapponibili, nelle quali è difficile non perdersi e non intrecciare i fili.
E in quella matassa è infatti molto facile perdersi per smarrirsi per sempre, come rivela la profonda crisi generazionale che il romanzo racconta. Mentre le vecchie generazioni si aggrappano, con nostalgia e frustrazione, al passato del quartiere di Torricella, annessa da pochissimo alla città di Roma, quelle nuove invece sono costrette a interfacciarsi con una realtà provinciale e stagnante e cercare di non rimanerci invischiati, come mosche intrappolate in una ragnatela.
La vecchia generazione rimpiange un passato idealizzato ed epicizzato, pensa che ormai si può morire per strada a Torricella senza che importi più a nessuno, pensa che la popolazione non si unisca e non insorga più contro le ingiustizie sociali. Prima, quando le famiglie che abitavano a Torricella potevano contarsi sulle dita di una mano, e si conoscevano tutti, ognuno aveva un ruolo sociale e un soprannome e una posizione, tutto era equilibrato e ogni cosa aveva il suo senso. Il presente appare spaventosamente caotico in confronto, si è tutti più anonimi e soli, confusi e allo sbaraglio. Non ci si riconosce per strada, ci si perde continuamente, perché non c’è più nulla di tracciato.
E mentre i protagonisti di mezza età e oltre faticano a ritrovare loro stessi, i loro obiettivi o anche solo qualcosa che possa valere i loro sforzi, i ragazzi di Torricella si perdono tra le serate sempre meno divertenti e le droghe sempre più pesanti. Devono rimanere vigili e consapevoli se non vogliono smarrirsi, rischiando di venire rapiti da quello spettacolo grandioso e terrificante del grande abisso che reclama a sé gli abitanti del quartiere, come guardare un’imponente nave che affonda, lentamente e inesorabilmente, senza che nessuno possa intervenire o fare qualcosa di vagamente utile.
Quella sensazione di familiarità, di confortante rinuncia, di guardare il proprio futuro lentamente sprofondare, di preferire continuare a sognare piuttosto che vivere, e crogiolarsi nell’idealizzazione di come le cose potrebbero andare, è il centro tematico della narrazione del romanzo e motivo del suo titolo. Sprofondare lentamente in un fango sempre più denso, fino a quando sarà troppo tardi: e ciò che Grande nave che affonda ci rivela è che nessuno ci tirerà fuori in tempo se non lo faremo noi stessi.
«Ludovica quella volta della sigaretta mi ha detto che tutte le cose affondano nel fango,» racconta Aurora, la sorella di Taddeo, «o nel buio, non mi ricordo. Che bisogna tenersi per non cadere. Poi ha detto qualcosa sul fatto che aveva poco tempo, che tutti avevamo poco tempo. E era vero, infatti è morta. Non lo so se sto pure io affondando da qualche parte, ma non mi va di aspettare per fare quello che mi va di fare.»
Insieme a lei, Diego si rende conto in maniera ancora più lucida degli effetti di questa crisi esistenziale, che vede riflessa in se stesso e nei suoi coetanei. «Diego sentì che era ingiusto che le cose alla fine si perdessero così, naufragassero, tra la gente che spariva o ci restava sotto e ci si perdeva senza una ragione. Si faceva tutto quel casino per rincorrere dei sogni e rincorrendoli ci si perdeva.
Con questo romanzo, Andrea Cappuccini crea un monumento commemorativo a tutte quelle persone che si perdono nella strada, nella nebbia, nelle serate, e che covano dentro di loro, appena sopito sotto la brace spenta, il rimorso dolceamaro di non aver mai continuato ad andare avanti, che sia questo un amore, un sogno, un viaggio, la possibilità di scoprire se esiste la felicità, insieme alla possibilità, terrificante, di poterla afferrare.
Davide Lunerti