Romanzo di crinale
Silvano Scaruffi (NEO, 2024)
Già a partire dalla seconda riga del romanzo, al lettore vengono consegnate le prime coordinate topografiche della storia: si indica il punto in cui si snoda via Russia, mettendo a fuoco quello che più tardi verrà descritto come «uno spiazzo ghiaioso» con un ciliegio nel mezzo.
Chi legge non potrebbe procedere oltre senza la bussola di quelle immagini, precise e caliginose allo stesso tempo: la voce narrante che le fa esistere sulla pagina mantiene per tutto il tempo questa ambiguità tra il nitore cristallino delle singole scene e il rischio che sempre corrono d’impolverarsi di granuli di terreno, come quelli che si posano sull’obiettivo di una videocamera sporcandone lo sguardo.
Attraverso un ordito di racconti intermittenti, nella prima parte del romanzo si fa la conoscenza dei vari personaggi: Ginasio è un taglialegna, un «pezzente», secondo le offese avvelenate della moglie; a chi legge appare solo troppo buono, o forse troppo stanco e rassegnato per reagire alle cose della vita.
Si dice di lui, in paese, che abbia il dono della divinazione: d’improvviso gli capita di addormentarsi contro il tronco del ciliegio e avere delle visioni profetiche, di tronchi che si animano e «pezzi di cielo dirupati al suolo» (p. 44).
Bunga è invece un malinconico ‘matto’, di quelli che esistono in ogni paese; innocuo e smagato, se ne va in giro in compagnia di un barattolo colmo di terriccio che fa da tana a un verme, suo confidente inseparabile.
C’è poi Bestio, ex-uomo, ora animale brado e indomato. Una sorta di creatura infernale nel vero senso della parola: abita gli inferi, forse addirittura vi regna, striscia dentro cunicoli deserti scavati sotto una vecchia fabbrica dismessa. È al centro di oscure leggende in paese: creduto unico superstite di un disastro, il fango della diga l’avrebbe ingoiato e poi risputato; vaga nei boschi mentre predando tutto quanto gli capiti a tiro.
Ancora, c’è un personaggio che non ha la fisicità possente di Bestio, né la loquacità ubriaca di Romma e Brusca, i due tipi da bar di cui pure in alcuni capitoli si ascoltano sprazzi di conversazioni sconclusionate: un personaggio non umano, insomma, ma che è più che altro una forza esterna, esogena, che si cala dall’alto su quel ‘piccolo mondo’ senza essere accolta né capita.
Si tratta del Parko, un modo come un altro per intendere il Potere, un’alterazione del paesaggio (come quella ‘k’ conficcata al centro della parola, che la viola e la snatura). Un ente esterno che pretende di controllare quel luogo, sottomettendolo a leggi che non gli appartengono.
«Rimane il fatto che il Parko, che è poi questo territorio, esiste perché esistono le persone, le loro storie, le cose che hanno vissuto e hanno da raccontare. Mica per i fischi delle marmotte. Bisognerebbe poi anche tenere in conto che noi che ci viviamo, qua, non siam mica “tutti quelli che passano”. È inutile star lì a ridire che manca il lavoro, mancano le strade, mancano i servizi, manca questo e quello. Ormai l’abbiamo capita ʼsta fola: qua ci manca tutto. Ma a noi, può poi anche darsi che non ci serva niente» (p. 58)
Altro personaggio non umano che pure viene descritto nella sua particolareggiata ‘fisicità’ è il tempo, documentato nel suo trascorrere da immagini bellissime che pennellano imbrunire aranciati o descrivono come la luce della sera «lecca i mobili» quando si infiltra nelle case.
Tuttavia, l’impressione che rimane addosso a chi legge è che tutto si stia svolgendo in un mondo in cui l’aria è pigiata in una cappa stantia e il cielo ha il colore della cenere. In altre parole, si è ostaggi di quel cielo livido che a un certo punto scorge Ginasio sopra la sua testa: «non c’era mai stato posto per un Sole in quel cielo che sembrava chiudersi su se stesso come un budello appallottolato, di un grigio sempre più scuro» (p. 43).
Con la stessa inquietudine il lettore procede attraverso le pagine: quest’atmosfera contribuisce ad alimentare il presagio che prima o poi qualcosa di terribile succederà – che si tratti di un conflitto di quella terra col Potere che la vuole cambiare (e controllare), o che siano davvero avvisaglie di terremoti, come un paesano allarmato continua a denunciare, nel suo ruvido dialetto, mentre nessuno dà credito alle sue segnalazioni.
Nel protagonismo assegnato al paesaggio che racconta, quello che ‘Romanzo di crinale’ pennella non è solo un ritratto d’ambiente: il luogo non si limita a perimetrare le azioni ma le assimila e, forse, ne decide il corso, attivando un morboso ‘determinismo ambientale’ per cui i personaggi sono condizionati da quel territorio che li ha voluti così, e che gli impone persino la lingua che parlano.
Esiste infatti un’affinità materica, persino un’isotopia, tra la qualità del paesaggio e quella della lingua dei personaggi: forma e contenuto, ambiente e parole sembrano fatti della stessa consistenza ghiaiosa e organica.
In questa lingua si aggregano detriti di dialetto e neologismi dalla vigorosa energia inventiva, che sembrano incunearsi nelle frasi accidentalmente, monete che lampeggiano in gore di fango: il pantano le ammanta senza ingoiarle. Ginasio si schiena contro il tronco e lì si insonia; le fiamme di un incendio slinguano fuori; il verme si scurtiva spostando granuli di terra.
Va detto tuttavia che la lingua non viene percepita dissociata, in questa sua doppia natura: lo stile dell’autore addiziona in un continuum, pieno di chiazze e screpolature, l’uno e l’altro registro. L’italiano (nella versione qui modellata da Scaruffi, che va sempre a caccia di suoni frastagliati e sassosi) fa da tessuto connettivo tra questi modi complementari pensare la realtà.
Questo «ghippo appenninico dove l’aria sa di frontiera, la terra di colonizzazione, le persone di deriva» (p. 139) non potrebbe raccontarsi se non attraverso questa lingua composita e bifronte, anch’essa di frontiera, proprio come il paesaggio che racconta.
Viviana Veneruso
(immagine di copertina: https://unsplash.com/it/foto/strada-in-mezzo-al-campo-coperto-derba-durante-il-giorno-PYh4QCX_fmE).

