Vene. Il talento dei sommersi, Noemi De Lisi
(effequ, 2024)
Nico, il giovane protagonista del libro di Noemi De Lisi, fin dalle prime pagine si presenta al lettore come infetto da una malattia incurabile: l’introversione.
Tutti i personaggi della storia, lui compreso, trattano la cosa come una tara genetica, incistata tra i cromosomi dalla nascita; non una peculiarità caratteriale ma una malformazione inguaribile e uno stigma sociale, da portare con vergogna e disonore dell’intera famiglia.
Questo difetto è tanto più infamante se si paragona Nico al fratello Rosi, perfetto esemplare della categoria di estroversi che a Nico paiono governare la realtà: tipo spavaldo, persino arrogante nei modi, che impone con fare sicuro il suo stare nel mondo, proprio mentre l’altro si ripiega in una vita ritirata, spettrale, votata all’inazione e all’invisibilità.
Rosi non fa che inchiodare il fratello alla percezione della sua colpevole, immutabile diversità: il rapporto tra i due è una delle più appassionanti e ritorte assi lungo cui è costruito il romanzo.
«In questa casa rimane tutto uguale. Ti devi abituare alla realtà».
Al nostro passaggio lasciamo un tunnel incenerito dai propulsori, ha lo stesso spessore del mio collo, ci servirà per tornare in superficie, un giorno.
«Bisogna essere coerenti con sé stessi. Ora tu mi devi giurare che non cambi, altrimenti non sei più mio fratello…»
Arriviamo al centro della Terra, la capsula è in picchiata verso il nucleo incandescente.
«Giuramelo!»
Abbiamo paura di evaporare, ma tutto il calore e la luce spariscono nell’impatto, affondiamo.
«Te lo giuro». (p. 15)
Tra i cari di Nico, l’unica a valorizzarlo malgrado la sua ‘menomazione’ è la nonna, possente matriarca che per tutta la vita ha esercitato il suo peso sulla famiglia tutta.
La sua voce, impasto di espressioni dialettali e saggezza popolare, torna ossessivamente alla mente di Nico, anche dopo la sua morte, che coincide poi con la scena intensissima e oscura su cui il romanzo si spalanca.
Per provare a curarsi dalla sua ignobile malattia, Nico cede alla sospetta offerta del dottor Rizzo, fantomatico psichiatra che parrebbe sponsorizzare un progetto pilota adatto a chi, come lui, desidera liberarsi dalla museruola dell’introversione. Accettando di sottoporsi al programma Nico incontra Carme, ex introversa miracolosamente guarita grazie alla cura brevettata dal dottore; sta a lei ricoprire il ruolo di tutor e guidarlo lungo il percorso di guarigione.
Tuttavia, l’autoanalisi di Nico non coincide con una fetta del romanzo dal tono unicamente introspettivo, solipsistico e cerebrale, effetto (e controindicazione) che l’autrice è riuscita ad evitare. Al contrario, assieme a Carme Nico si schioda finalmente dal suo immobilismo e scopre il movimento, l’azione, lo sfrigolare del desiderio, l’incontinenza del vivere senza patologiche timidezze.
Il tutto in una successione di eventi che trasferisce sulla pagina il brulichio riottoso e indisciplinato delle strade di Palermo: è qui che la storia si muove, piroetta e accelera.
La città raccontata da Noemi De Lisi acquisisce vita e colore specialmente in quelle pagine in cui si assiste alle scorribande di Carme e Nico: i due gustano la sua vita notturna fino agli eccessi, andando alla ricerca di occasioni in cui lui possa mettere alla prova il suo desiderio di estroversione.
Com’è Palermo? La città fuori dalla stanza, seppellita dal cemento, dalla massa di sudori e pelli, teste che si agitano senza perdere squame, sembrano i fanali delle macchine intorno alla strada. […] La città estroversa, spigliata, con tutte le ossa scoperte, circondata dalle fiamme. (p. 145)
Accanto a questa Palermo così tratteggiata, un’altra ambientazione cruciale per il romanzo è casa di Nico, dove la storia prende l’avvio e dove sempre ritorna: luogo ristagnante in cui si ha l’impressione che il tempo marcisca. È così perlomeno che il lettore percepisce questo spazio all’inizio, quando Nico confessa di essersi rintanato nell’appartamento come sul fondo di un sarcofago, facendo sua l’immobilità che era della nonna degente e che appartiene adesso anche al padre disoccupato.
Con le sue sabbie mobili, la casa blocca i piedi di tutti i personaggi che da quel microcosmo familiare non riescono a liberarsi.
Noemi De Lisi ha imbastito un romanzo la cui struttura è a metà tra quello di formazione (dalla parabola increspata, discontinua) e un tormentato romanzo familiare, dove per famiglia s’intende un organismo che si sa malato e non fa niente per guarirsi, se non forzandosi a un estremo gesto di coraggio.
Della scrittura dell’autrice si apprezzano in particolare i coup de théâtre dell’intreccio – specialmente mentre scivola verso il finale – e alcune trovate stilistiche sui generis.
Penso all’abbacinante visionarietà di certe scene, o anche alla lingua contorta che l’autrice inventa per Carme: una forzatura eccentrica dell’italiano standard, una successione incongruente e bislacca di lemmi espressionistici che il lettore, assieme a Nico, impara a decifrare.
Chi legge viene coinvolto in una ‘cooperazione interpretativa’ che lo sfida e urtica: non gli si chiede di accontentarsi di una lingua scontata, agevole, epurata di qualsiasi rompicapo.
Certo, tutti gli eccessi han bisogno di essere dosati, e forse l’autrice ha calcato la mano finendo per ostentare fin troppo alcune scelte formali, che dunque rischiano di apparire affettate.
Tuttavia le si perdona facilmente questo azzardo in nome dell’originalità dell’intreccio e delle scene più potenti (e riuscite) che scalzano via i difetti dell’opera imponendosi, col loro cono d’ombra, all’immaginazione di chi legge.
Viviana Veneruso

