La rivoluzione dellɜ indignatɜ: intervista a Giuliana Zeppegno

L’indignata, Giuliana Zeppegno
(Terrarossa, 2024)

Tra il 2011 e il 2014, la Spagna è stata teatro di un movimento sociale di portata gigantesca che ha segnato un prima e un dopo nella politica interna: collettivi anticapitalisti, ecologisti, femministi, gruppi di cittadini si sono mobilitati dal basso per invocare diritti, equità e democrazia reale. Epicentro di queste mobilitazioni è stata la capitale, Madrid, dove il 15 maggio 2011 gli indignados sono scesi in piazza nella storica Puerta del Sol, rimanendoci accampati fino al 12 giugno.

In questo fervido contesto si muovono i protagonisti de L’indignata, il secondo romanzo di Giuliana Zeppegno, edito da Terrarossa nella collana Sperimentali. Quattro sono i protagonisti che danno voce a questo romanzo corale, in cui la storia personale è indissolubilmente legata a quella politica, che travolge le loro vite come una malattia che ti rigenera invece di ammazzarti.
C’è Andrés, che dopo anni senza un lavoro stabile passati tra manifestazioni e concerti punk, ora gestisce la libreria Eleutheria per il collettivo Nosaltres; c’è David, un dottorando in antropologia che ha una relazione complicata con l’attivismo e non sa bene cosa fare del suo futuro; c’è Giulia, italiana che vive a Madrid da otto anni, precaria e segnata da relazioni abusanti. Infine, c’è Teresa, cilena, capelli da gitana, che fa parte di gruppi anarchici e gestisce il Babel, un bar popolare nel quartiere di Lavapiés.

È attorno alla sua assenza che si sviluppa il romanzo: Teresa scompare misteriosamente lasciando gli altri orfani non solo di un modello di libertà cui identificarsi, ma anche del suo bar-covo che, come un ventre caldo, racchiude tra le sue pareti molti pezzi della loro vita.
Si innesca così una indagine, in cui la ricerca di Teresa diventa anche esplorazione più profonda all’interno delle storie dei suoi amici, che pur dovendosi confrontare con le loro contraddizioni e fragilità, non smettono di cercare un motivo per cui valga la pena indignarsi e lottare l’unɜ accanto all’altrɜ.

Una storia frutto di invenzione, con personaggi in parte immaginari, ambientato in luoghi reali che hanno fatto da cornice di avvenimenti veramente accaduti: L’indignata è un romanzo originale e pieno di vita, che spalanca lo sguardo del lettore sul presente, sulla collettività e sul senso della scrittura in relazione ad essi. Su questo e sull’inedito stile del libro, ho avuto l’opportunità di intervistare l’autrice, Giuliana Zeppegno.

La mia prima curiosità ha a che fare con l’appartenenza. Da italiana a Madrid, mi ha colpita da vicino lo straniamento di Giulia, il suo interrogarsi sulla sua vita all’estero e sul senso di colpa che si porta con sé. Senso di colpa da cui non è esente nemmeno David, che dopo il suo periodo di ricerca in Perù, vive un’estraneità costante anche nella sua terra natale, che lo tiene ai margini dei movimenti politici: si sente un impostore, “troppo bianco, troppo ricco, troppo povero, troppo troppo”. Nellɜ tuɜ personaggɜ emerge sempre una crisi su due livelli: la ricerca di un’identità personale e il confronto con il “noi” collettivo. Un tema enorme, che hai saputo bilanciare e armonizzare durante tutto il racconto, aprendo uno spazio di riflessione non scontato per chi legge. Tu, da italiana trapiantata a Madrid, come hai vissuto i movimenti del 15M?

Vivere all’estero, come forse sai anche tu, può suscitare stati ambivalenti, che vanno dall’euforia, allo straniamento, al senso di colpa rispetto a familiari e amicɜ del paese d’origine. Mi sono trasferita a Madrid 15 anni fa, in piena crisi economica, per necessità, e ci sono rimasta per scelta. Faccio fatica a considerarmi migrante, proprio per questa possibilità di scegliere e per il privilegio di essere nata in Europa, che rende la mia esperienza radicalmente diversa da quella spesso drammatica di chi arriva dall’Africa, dall’Asia, dall’America Latina.
La mia vita in Spagna è legata indissolubilmente al mio incontro con l’attivismo del 15M. In Italia avevo vissuto scioperi, grandi manifestazioni, o proteste durature come quella del 2008 contro la riforma universitaria. Ma non avevo mai visto niente di simile a quello che poi fu il 15M (“movimento degli indignados” nei media italiani), con l’eccezione forse del movimento No TAV, che però credo sia un caso a sé. A Madrid sono stata semplice manifestante nel 2011, poi dal 2012 membro attivo di diversi collettivi e progetti menzionati nel romanzo. Trentenne, avevo già una forte coscienza politica, eppure il 15M mi ha cambiato la vita. Non so come dirlo diversamente senza riempire pagine e pagine. Oggi so che quel movimento, con la costellazione di persone e realtà che mi ha fatto incontrare e il senso di comunità che mi ha fatto vivere, è stato il motivo principale per cui sono rimasta a Madrid nonostante avessi la possibilità di tornare. La radice di tutte le amicizie, gli amori, i dubbi, gli ideali, le scoperte, le scelte che hanno segnato quegli anni e determinato il mio oggi.

Dormíamos, despertamos. Dormivamo, ci siamo svegliat3. Era questo il motto del 15M, impresso su una targa in Puerta del Sol. Qual è stato lo scarto, se c’è stato, vedendolo a posteriori, tra quelli che erano i sogni, le utopie e i desideri nuovi e decolonizzati, che si andavano costruendo insieme in anni pervasi di “eccitante senso di possibile”, e quella che è stata la realtà delle cose?

È molto difficile trovare le parole per rispondere a questa domanda in un momento così buio, di fronte al genocidio in corso, al collasso climatico, ai corpi in mare che non fanno notizia, ai lager finanziati da noi, al micidiale abbraccio tra fascismo e neoliberismo, all’alienazione da social in cui siamo immersɜ, al nostro abdicare alle cose più umane e preziose che abbiamo per delegarle all’IA. Il mondo è andato chiaramente nella direzione opposta a quella che sognavamo e abbiamo cercato di disegnare, e lo ha fatto con il consenso, e persino con l’adesione pulsionale profonda, di milioni di persone. A pensarci, viene da piangere.
Ma vorrei anche aggiungere: in Spagna continua a esserci un livello di politicizzazione diffusa, tra la gente comune, che non vedo in Italia. Solo un esempio: ho preso parte ad almeno dieci manifestazioni per la Palestina dall’ottobre 2023, ed erano di massa, ed erano autorizzate, e attraversavano il cuore della città. In Spagna i partiti di sinistra esistono e sono nella coalizione di governo. In Spagna la quarta ondata femminista è stata ed è qualcosa di entusiasmante. In centro a Madrid ogni giorno vedo baciarsi per strada persone di ogni orientamento e identità sessuale senza che nessunǝ si giri nemmeno a guardarle. Tutto questo e molto altro credo non sarebbe stato possibile senza il 15M.

Nel libro la città di Madrid ha una sua voce: ci racconta dei mercati vuoti coi negozi chiusi per la crisi; di signori ben vestiti che frugano nella spazzatura; di bancomat carbonizzati, centri di salute occupati. In particolare, è il barrio di Lavapiés, “un pugno di strade grande come il mondo”, ad essere il teatro di svariate vicende, tra cui assemblee, sfratti, scontri con la polizia. Tu vivi a Madrid dal 2010, per cui ero curiosa di chiederti come fosse cambiata la città da ieri a oggi. Che eredità ha lasciato il 15M e come ha modellato la città?

La città di Madrid cambia velocemente, in preda com’è alla speculazione immobiliare e a processi di gentrificazione. Oggi è una città piena di turistɜ e un po’ più “pettinata” rispetto a dieci anni fa; il quartiere di Lavapiés si è svuotato in parte dei miei amici e delle mie amiche, che sono andatɜ a vivere dove possono permettersi di pagare un affitto, e io vivo in centro ma in un appartamento di 30 m² insieme a un’altra persona. Però resistono diversi collettivi e realtà culturali nate allora. Sono stati sgomberati centri sociali ma ne sono sorti di nuovi. La gente continua in qualche modo a fare rete, a “fare quartiere”.

«Il 15M, senza Twitter, non sarebbe mai esistito», si dice a un certo punto del libro. In che modo l’impatto dei social ha contribuito alla nascita e alla diffusione della protesta? E secondo te, come è cambiato oggi l’attivismo con il loro uso?

Questa è stata una questione molto dibattuta negli ambienti che frequentavo perché erano ambienti radicalmente decrescitisti e antitecnologici. Io stessa ho acquistato il mio primo smartphone dopo il 2020. Non sono in grado di fare analisi. Posso solo dirti che per il 15M twitter ha avuto un ruolo organizzativo cruciale, ma i corpi erano tutto. La chiave del movimento è stata l’occupazione fisica degli spazi. Oggi la protesta si è trasferita in larga parte al mondo virtuale, come d’altronde ogni altra cosa, e sinceramente non so che cosa diventeremo, quando questa mutazione antropologica sarà completata: so solo che in questo momento così caotico e pieno di rumore − che forse è un momento di transizione − personalmente mi sento alienata, compulsivamente attaccata ai social, sempre più smemorata e persino (colpevolmente) dedita a un certo infotainment, in questo spettacolo globale dove le fiction sono basate su storie vere e le storie vere al telegiornale superano in orrore qualsiasi fiction.

La ribellione di Teresa al sistema passa anche attraverso la scrittura. La sua scomparsa coincide anche con la cancellazione dei suoi social, e porta i suoi amici a cercare tracce di lei lasciate su varie agende: scritte, scarabocchiate, cancellate e riscritte. Che ruolo ha la scrittura, e più in generale la letteratura nel contesto dell’attivismo politico? Penso anche a tutti quei progetti editoriali che menzioni nel corso della storia (come Enclave de libros, Traficantes de sueños o la libreria Eleutheria).

Le librerie/case editrici che nomini resistono, e fanno un lavoro eroico di diffusione di cultura critica attraverso i libri che vendono e pubblicano, o gli incontri e i dibattiti che organizzano, come tante librerie in Italia. L’attivismo che ho vissuto era pieno di libri, in effetti, perché era un attivismo urbano, e fatto da persone squattrinate ma colte e lettrici. Non deve essere necessariamente così. La scrittura è la mia vita e oggi il mio modo di protestare passa soprattutto dalla pagina scritta. Ma penso ci siano molti modi di provare a cambiare il mondo, anche meno “intellettuali”. Ne L’indignata ho cercato di fare letteratura politica, spinta da motivi sia letterari che attivisti. Quello che ho fatto “serve” politicamente a qualcosa? Rispondo con i versi di Juan Gelman che mi ronzano in testa da quando li ho sentiti recitati da Cecilia Roth sopra un pezzo ipnotico dei Gotan Project: “«Con estos versos no harás la revolución» dice. Se sienta a la mesa y escribe” [“«Con questi versi non farai la rivoluzione» dice. Si siede al tavolo e scrive”] (Juan Gelman, Antología personal, 1993)

Tu stessa in questo libro sperimenti molto con la scrittura. A livello macroscopico, coi generi: L’indignata è un giallo, ma anche un romanzo storico e pure politico. Giochi con i punti di vista: la storia è raccontata da Andrés in prima persona, da Giulia in seconda persona e da David in terza persona. Inoltre, ti metti alla prova con le forme – il romanzo, il diario, gli appunti – e con la lingua, inserendo spesso espressioni in spagnolo. Può considerarsi, questo libro, una tua forma di ribellione?

Che bella domanda! In qualche modo sì, anche se mentre scrivevo non intendevo fare qualcosa di “sperimentale”. Semplicemente pensavo: “Quante cose si possono fare in un romanzo! Le possibilità formali e tematiche sono pressoché infinite”.
Per me era importante che il romanzo fosse godibile dal punto narrativo e stilistico: che avesse una trama comprensibile senza sforzi eccessivi, avvincente, ricca di tensione narrativa e colpi di scena; che la scrittura ricalcasse i pensieri dei personaggi in modo credibile (anche se, lo sappiamo, “i pensieri dei personaggi” sono sempre un effetto letterario), ma fosse anche ricca e musicale. Le scritture seconde che ho inserito (diario, appunti, scarabocchi) sono funzionali alla storia narrata. E anche la scelta delle tre persone grammaticali non risponde a un intento di innovazione formale: ho introdotto la variazione in modo spontaneo e poi, a romanzo ultimato, ho pensato che potesse dare più tridimensionalità a quel “noi” che volevo costruire, facendo meglio risuonare la polifonia, e l’ho mantenuta. Più che di infrangere regole, si tratta di non porsi troppi limiti.
Forse romanzi come il mio, tutto sommato abbastanza canonici, vengono percepiti come sperimentali perché la letteratura mainstream si sta appiattendo su un numero limitato di temi e formati, e non siamo più abituatɜ a una certa varietà espressiva.

Giulia menziona la prospettiva di una rivoluzione per contagio: «nessuna idea astratta a cui sacrificare la propria vita senza ricevere altra vita in cambio. Piuttosto: la gioia provata vivendo in un modo diverso, e la voglia di replicarla, quella gioia, di espanderla.» Nel libro dai sicuramente un esempio di un modo di vivere ai margini della norma sociale vigente: Tere, Giulia, Andrés e David formano parte di una comunità di persone legate da varie forme dell’amare, che condividono ideali di uguaglianza e dignità, e che esercitano la propria libertà prendendosi cura l’un3 dell’altr3. Volevo sapere se, mentre scrivevi L’indignata, avessi immaginato che potesse fare la sua parte come veicolo di trasmissione di questa rivoluzione.

Certo, ci speravo. L’indignata nelle mie intenzioni era molte cose insieme: innanzitutto una sfida letteraria (un romanzo corale che riflette su che cosa succede alla soggettività dentro al “noi”; un romanzo politico non didascalico, non “risolto”, in cui la dimensione politica doveva farsi letteratura, e quest’ultima non doveva sacrificare nemmeno un atomo di sé stessa sull’altare della politica); ma anche una testimonianza (di un’epoca straordinaria che ho avuto la fortuna di vivere), un omaggio (alle persone che l’hanno resa possibile), e in qualche modo il mio piccolo contributo (lo dico a bassa voce) a quell’utopia quotidiana che non mi è mai sembrata così distante come in questo momento ma che può continuare a bruciare, sotto la cenere, in forma di brace, per divampare in futuro, quando meno ce lo si aspetta.

Intervista a cura di Beatrice Palmieri

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