Un romanzo nigeriano tra i 100 libri migliori di sempre secondo il Norwegian Book Club

Le cose crollano, di Chinua Achebe

Fin da quando ero bambina leggere per me non è stato solo un modo per passare le-cose-crollano-copertinaspensieratamente un paio d’ore ogni pomeriggio e per immergermi in avventure epocali, ma anche e soprattutto l’unico modo che avevo a disposizione per viaggiare, sentire e conoscere realtà che mai in altro modo avrei potuto sfiorare.

Crescendo, continuando a leggere e catalogando le mie letture mi sono resa conto che ultimamente quei viaggi di cui tanto andavo fiera da bambina diventavano sempre più circoscritti ad alcune specifiche aree del mondo: Europa, Stati Uniti, qualche occasionale puntata in Asia. Non sapevo nulla della letteratura africana, ad esempio, e non perché io la trascurassi, ma perché il mercato dell’editoria in Italia offre davvero poco spazio agli autori che esulano dalla cultura occidentale, a parte qualche best seller del momento.

Una felice eccezione a questa norma è, tra le altre, rappresentata dalla casa editrice La nave di Teseo, da cui è stato pubblicato nel Novembre 2016 Le cose crollano, capolavoro del nigeriano Chinua Achebe nonché uno dei romanzi più importanti della storia africana e uno dei 100 libri migliori di sempre secondo il Norwegian Book Club, edito per la prima volta nel 1958.

Leggere Le cose crollano è importante non solo perché è un romanzo coinvolgente, ricco ed emozionante, ma perché si tratta uno dei rari casi di romanzo africano di successo globale scritto da un autore indigeno, che non ha studiato le tradizioni Ibo di cui si parla nel romanzo con l’occhio esterno dell’uomo bianco, ma le conosce come parte del proprio patrimonio culturale.

È chiaro fin dalle prime pagine che non si sta leggendo un autore europeo o con una cultura affine: il ritmo della narrazione scorre in maniera completamente diversa da quello dei classici del nostro Novecento, gli eventi sembrano susseguirsi seguendo il naturale corso delle giornate e senza una coesione di fondo e solo verso la fine ci si accorge che tutti gli episodi apparentemente ininfluenti per la trama sono stati in realtà raccontati con uno scopo preciso e hanno un ruolo impalpabile ma determinante nella narrazione.

La storia è ambientata nella Nigeria precoloniale e si dipana intorno al personaggio di Okonkwo, uno dei capi del villaggio di Umuofia. Attraverso la vita di Okonkwo e della sua famiglia l’intero stile di vita dell’etnia Ibo è presentato al lettore con il suo complesso sistema di credenze, leggi e miti. Okonkwo incarna fino all’esasperazione i valori di forza, coraggio e onore che sono tipici della sua cultura e che ad un amante della tradizione classica sembreranno non dissimili da quelli degli eroi greci; la sua irruenza viene mostrata al lettore episodio dopo episodio e con essa le leggi ufficiali e interiori che intervengono a frenarlo. Okonkwo è un personaggio tragico perfettamente costruito, incapace di trovare un compromesso tra quello in cui crede e la comunità, e la sua tragicità troverà sfogo e compimento con l’arrivo dell’uomo bianco.

Mi sono sempre chiesta, riguardo la colonizzazione dell’Africa, come sia stato possibile per gli Europei saccheggiare un continente abitato da persone nel pieno delle forze e certo più abituate al clima e alla natura del luogo. Questo romanzo mi ha dato la risposta: il crollo della civiltà Ibo così come è esistita fino all’Ottocento è avvenuto dall’interno, con l’abbandono delle vecchie consuetudini da parte degli indigeni in favore della religione cristiana importata dai conquistatori.

Da questo punto di vista è particolarmente significativo il personaggio di Nwoye, il figlio maggiore di Okonkwo. Nwoye cresce all’ombra minacciosa del padre e delle sue aspettative. La più grande paura di Okonkwo è quella che lui o i suoi figli possano essere paragonati ad una femmina e in questo terrore ho letto più che una vera misoginia (la persona con cui Okonkwo si sente più a suo agio è, dopotutto, sua figlia Ezinma), il tentativo di respingere e allontanare da sé tutto ciò che al mondo femminile è associato: la tenerezza, il buonumore, la frivolezza, la fantasia (prerogative delle donne sono il canto e il racconto dei miti). Tutto questo per Okonkwo è debolezza e disonore e deve essere evitato, mentre da parte sua Nwoye teme gli aspetti più truci della cultura Ibo (uno tra tutti, l’abbandono dei gemelli, considerati impuri) e si rifugia volentieri, quando più, nel mondo rassicurante delle donne, che offre alcune risposte alle domande che lo affliggono e a cui il potere incarnato da suo padre sembra rifiutarsi di dare una risposta.

Con l’arrivo dell’uomo bianco e del suo Cristianesimo Nwoye fuggirà quindi da un dogmatismo all’altro, desideroso solo di lasciarsi alle spalle la figura ingombrante e imperiosa di suo padre, e come lui molti altri.

La tragedia silenziosa e affilata di questo romanzo lascia chi lo legge con molte conoscenze in più e molte certezze in meno, una sola rimane su tutte: non esistono culture migliori o peggiori di altre e nessuno può arrogarsi il diritto di insegnare a vivere.

Sono in corso di pubblicazione per La nave di Teseo i due volumi che concludono la trilogia di Achebe iniziata con Le cose crollano, in una nuova traduzione. Non possiamo che augurarci che sempre più case editrici seguano l’esempio e ci permettano di assaporare storie e tradizioni sempre più remote rispetto alle nostre.

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