Intervista: Laura Pugno racconta ‘La ragazza selvaggia’ in finale al Campiello

Laura Pugno è in finale al Premio Campiello con La ragazza Selvaggia (Marsilio). Abbiamo parlato con lei della sua opera e della sua scrittura. ( Se non avete ancora letto il libro e volete saperne di più, trovate qui la recensione)

L’opera ruota principalmente intorno alla contrapposizione tra natura e cultura, tra lo stato selvaggio e quello civile, in un certo senso anche tra uomo e animale. Si può dire sia un leitmotiv dei tuoi romanzi, come in Sirene (Einaudi e Marsilio), Antartide (minimum fax) o La caccia (Ponte alle Grazie). Da cosa deriva il tuo interesse verso una tematica quasi antropologica e sociologica (fa pensare a Lévi-Strauss o a Norbert Elias), tanto interessante quanto particolare?

 Nel romanzo di ricerca, intendendo qui e ora per ricerca non tanto l’aspetto linguistico – la lingua de La Ragazza Selvaggia è il più possibile rarefatta e tersa –  quanto il posizionamento dell’opera rispetto a quanto già esiste, a quanto già è stato scritto, un tema spesso affiora quando, nella società in cui quel romanzo nasce, diventa possibile pensare quel tema in modi diversi da quanto fino ad allora è stato fatto. In questo senso, oggi il pensiero sulla frontiera, che attraversa tutto il mondo a cominciare dai nostri stessi corpi, tra natura e cultura è qualcosa che inevitabilmente ci accompagna. Non perché la questione della natura sia mai stata assente dal pensiero umano, ma perché abbiamo acquisito potere e allo stesso tempo vulnerabilità, e di questa vulnerabilità, lentamente, stiamo diventando – o forse la parola esatta è tornando ad essere – consapevoli.

 Dasha, la ragazza selvaggia, ha vissuto per dieci anni nei boschi come una fiera. Quando viene ritrovata, la famiglia si prodiga perché venga ‘ri-addomesticata’, sottratta allo stato di natura per essere riabilitata nella società, presumendo che ciò equivalga a fare il suo bene; ma nessuno si chiede se davvero questo sia il meglio per lei, o se in realtà fino ad allora aveva vissuto una vita, sì diversa, ma non per questo peggiore. Tutti danno per scontato sia la vita ‘umana’ e civile ad essere migliore.

Non tutti, in realtà. Tessa, la ricercatrice che ritrova Dasha ferita nella scena d’inizio e decide di restituirla alla sua famiglia, ha molti dubbi sulla scelta da compiere, e infatti, a un certo punto nel romanzo capiamo che quello non è stato il primo incontro tra loro, che Tessa avrebbe potuto mettersi in contatto con gli Held molto prima, segnalare la presenza di Dasha nella riserva di Stellaria, e ha preferito non farlo. Una scelta crudele? forse, considerando ciò che accade dopo. Una scelta razionale? anche lì la risposta è forse, perché il comportamento di Tessa – e di tutti i personaggi del libro – è allo stesso tempo profondamente razionale  e profondamente irrazionale. La tesi del libro non è che la vita umana e civile sia, o non sia, migliore, di un’ipotetica altra vita, perché in realtà quest’altra vita non è per noi possibile, perché la natura e la cultura sono così intimamente mescolate dentro di noi che in realtà è impossibile capire dove passi il confine.

In effetti l’atteggiamento di Tessa fa differenza rispetto agli altri personaggi. Lei appunto aveva individuato Dasha già da tempo, ma non l’aveva mai riferito a nessuno. Sembra l’unica in grado di capirla davvero: ad esempio prova orrore per la cura a base di sedativi e le procura un altro cane; ma soprattutto sembra quasi che Tessa sia attratta dalla vita selvaggia di Dasha.

Torniamo a quanto detto prima: Dasha è per Tessa – come per tutti i personaggi del libro – l’incarnazione di qualcosa di intatto e per questo irraggiungibile, ma quel qualcosa di intatto non è come ce l’aspettiamo, può essere violento, può essere feroce. Tessa non idealizza Dasha, sa benissimo che può essere pericolosa, e infatti in apertura di libro, quando la ritrova, la vediamo muoversi con ogni cautela, come davanti a una tigre ferita.  Entra in gioco anche il passato di Tessa, la sua storia personale di bambina nei boschi di Stellaria, il suo essere allo stesso tempo una scienziata, una donna “che abita la solitudine come un altro corpo”, e la nipote di quella che veniva creduta essere “l’ultima strega del paese”. L’apparizione di Dasha, perché di apparizioni in un certo senso si tratta, mette Tessa di fronte a tutto ciò che è, e che non è più, o che ha scelto di non essere.

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Fonte: illibraio.it

 Ritornando alla contrapposizione tra vita civile e vita brada, è Dasha, la selvaggia, quella che infine resiste, mentre tutti gli altri, che cercavano di portarla sulla sponda sicura della civiltà, soccombono. Non se la passano certo bene Giorgio o Agnese o Nina. In particolare il parallelismo tra Nina e Dasha è rilevante: gemelle, l’una selvaggia e l’altra no, ma con destini che si dimostrano opposti negli esiti.

Destini opposti, o un destino comune? Dasha è sicuramente la metà oscura della solare Nina, ma allo stesso tempo, è anche l’espressione di tutta la ferocia che anche Nina, come diventa evidente a poco a poco nel romanzo, porta con sé. E anche Nina è la metà oscura di Dasha, l’Ombra: ciò che non riusciamo assolutamente ad accettare, come Dasha bambina non riesce ad accettare l’allontanamento dalla sorella gemella che il superamento della linea d’ombra – ancora – dell’adolescenza, per lei, comporta. In modo estremo, è raccontato qui qualcosa che capita spesso tra fratelli o sorelle: ci si definisce rispetto alle qualità e ai difetti di un altro, che diventa l’Altro, oltre che rispetto ai propri, ci si ritaglia una parte di mondo rispetto alla totalità e all’altro si lascia il resto.  Nina avrà le città, Dasha i boschi.

 Giorgio, il padre di Dasha, è senza dubbio una figura interessante. Fermo nelle sue idee, inflessibile nel voler salvare Dasha attraverso un reinserimento nella civiltà, utilizza denaro e prestigio per offrirle le cure ‘migliori’. Eppure nel finale cambia del tutto idea e auspica un diverso destino per la figlia. È forse ciò che accade a Nina a fargli cambiare idea?

Nina, in qualche misura, in modo simbolico, riesce a salvare, alla fine del romanzo, sua sorella, a compensare il male che con la ferocia dell’infanzia ha cercato di infliggerle.  In questo incrocio di destini, anche Giorgio, che con la stessa ferocia ama le figlie adottive, riesce a cambiare punto di vista. Il nuovo destino non è necessariamente migliore, è di certo temporaneo, lo sappiamo sin dall’inizio del romanzo, ma per Dasha è un destino possibile, e in questa possibilità è racchiusa, se non una speranza,  almeno un’apertura.

 Uno spunto di riflessione che ho trovato nella storia è legato al tema della maternità/paternità: Tessa non ha una madre; Nina vuole esserlo ma non può, e di conseguenza non può essere padre neanche Nicola, il suo compagno; Nina e Dasha sono adottate; Agnese sembra più una figlia che una madre. E se guardiamo ad altre opere, ci accorgiamo che è una situazione ricorrente: in Quando verrai Eva non ha un padre; in Antartide sia Sonia sia Matteo perdono i propri in circostanze insolite; ne La Caccia  Nord e Mattias si mettono in cerca del padre scomparso. È un caso o si tratta di un effettivo filo rosso che accomuna la tua produzione?

Gli scrittori, e le scrittrici, sono sensori del proprio tempo. E come per la natura e la cultura, anche per quanto riguarda la famiglia e il senso di appartenenza a un nucleo più ampio, a una comunità, oggi stiamo pensando modelli nuovi, basati sulla scelta e non solo sul sangue. La famiglia è il primo luogo delle storie e le storie, anche quelle raccontate, sono frutto delle scelte che compiamo, consapevolmente o no. La letteratura è (anche) un esercizio di consapevolezza, un passaggio di consapevolezza tra persone e tra generazioni.

La ragazza selvaggia, lo scorso 26 maggio, è stata selezionato dalla Giuria dei Letterati tra le cinque opere finaliste al Premio Campiello. Per questo, inevitabili sono i miei complimenti, perché reputo il Campiello il più importante premio letterario italiano, e poter concorrerne alla vittoria è un risultato davvero prestigioso. Siccome mi piace immedesimarmi nella situazione, c’è qualche aneddoto legato al momento in cui hai saputo di essere stata selezionata e alla reazione con cui hai accolto la notizia, che hai voglia di raccontare?

Stavo dormendo, e mi sono svegliata con questa bellissima notizia, che quindi ha avuto un che di onirico, quasi magico.

Ormai voi finalisti siete in tour per l’Italia con il Campiello per parlare delle vostre opere. Che esperienza sta essendo? E che atmosfera hai trovato al Campiello?

E’ un’esperienza molto bella e intensa, perché, oltre alla conoscenza e alla condivisione con gli altri scrittori, c’è l’incontro col pubblico in un modo particolare, una percezione particolare e quasi fisica del pubblico là fuori, o lì davanti a te.  L’atmosfera è emozionante ma anche distesa, perché l’esito del Premio non è nelle nostre mani: i 300 lettori anonimi, là fuori appunto, stanno leggendo, e decideranno chi di noi sarà il vincitore, o, visto che questa cinquina è felicemente a maggioranza femminile, la vincitrice. Lasciamoli leggere tranquilli…..

– Giuseppe Rizzi –

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