“L’Arminuta”, di Donatella Di Pietrantonio
Ci sono storie che toccano i punti più profondi dell’animo umano e li rimescolano. Sono storie che stravolgono le convinzioni di chi le legge, creano una nuova mappa di ciò che è giusto e ciò che è sbagliato e costruiscono ricordi così vividi che sembra di averli vissuti in prima persona. L’Arminuta, l’ultimo libro di Donatella Di Pietrantonio edito da Einaudi, racconta una di queste storie.
La vicenda si svolge in un Abruzzo mai nominato eppure presente fin dalle prime pagine nel modo di parlare dei personaggi, popolare e colorito anche se mai del tutto dialettale. L’Abruzzo è la terra dell’autrice e ha fatto da sfondo anche alle altre sue opere, in questo caso però ogni riferimento a luoghi reali rimane implicito: si parla della città e del paese senza mai nominarli davvero, eppure le radici della storia sono profonde e ben salde. Basti pensare al titolo, una parola che in dialetto significa la ritornata.
Il contesto storico è quello degli anni Settanta, anche se la maggior parte delle scene è totalmente fuori dal tempo e dalla realtà e lascia intuire un’ambientazione in un’epoca ancora più lontana. Questa sensazione è tanto più acuta quanto surreale è la storia della protagonista, nata in una famiglia numerosa di un paesino di montagna e affidata ad una ricca parente che non può avere figli perché cresca con tutti gli agi. La bambina si affaccia all’adolescenza senza sospettare di vivere con dei genitori adottivi e un giorno, senza alcun apparente motivo, viene riportata alla famiglia d’origine, dove è costretta a cambiare completamente stile di vita, a condividere una stanzetta con un gran numero di fratelli, a proteggere i suoi pasti dalle mani che saccheggiano la sua porzione e a sbrigare incombenze da adulti che non le erano mai toccate con la vecchia famiglia.
Lo stile di Donatella Di Pietrantonio è scarno ma estremamente vivido e preciso e riesce a catturare sentimenti e stati d’animo con poche parole ben poste, al punto che ho provato sulla mia pelle l’angoscia di una ragazzina che si ritrova da un giorno all’altro a vivere nello sporco e nella povertà più assoluta senza aver avuto, prima di allora, la minima idea di cosa ciò possa significare.
In un ambiente così ostile, però, non mancano le luci: c’è Adriana, la sorella di sangue dell’Arminuta e sua compagna di letto, una ragazzina vispa che ha imparato a stare al mondo come un’adulta e che, al contempo, è ancora una bambina. Tra le due sorelle si instaura un legame quasi più profondo di quello che può legare due persone che hanno passato una vita insieme: Adriana invidia l’Arminuta e al contempo, pur più piccola e indifesa, si sente in dovere di proteggerla, perché non si macchi e non si rompa nel mondo difficile a cui lei è tanto più abituata. La dolcezza e la risolutezza di questo personaggio mi hanno assolutamente conquistata.
C’è poi Vincenzo, il fratello maggiore, con cui riconoscere un legame di sangue è difficile e viene molto più naturale guardarsi e scoprirsi come sconosciuti.
La vera fonte del conflitto che dilania la protagonista, però, più ancora del cambio di vita e di abitudini di ogni tipo, è l’improvvisa mancanza di una madre. Le due madri dell’Arminuta, quella adottiva e quella reale, appaiono entrambe come totalmente incapaci di ricoprire il loro ruolo, per ragioni diverse e che cambiano nel corso della storia. Se all’inizio, infatti, la ragazzina era ben ferma nel chiamare mamma la donna che l’aveva cresciuta ed evitava il più possibile di rivolgersi a sua madre di sangue, questa tendenza viene mitigata e cambiata nel corso della storia e la donna che prima desiderava ardentemente come mamma diventa, più freddamente, Adalgisa. Al contempo, agli occhi del lettore la figura della madre di sangue brusca e spiccia si addolcisce e nelle frequenti, teatrali e drammatiche litigate tra lei e la protagonista si intravede l’ombra di una donna ben più complessa e tormentata di quello che appare dal modo in cui la figlia ritrovata la guarda all’inizio del romanzo.
L’Arminuta è quindi un romanzo che parla di maternità e lo fa con uno sguardo lucido e impietoso, più circoscritto è invece il ruolo dei due padri nella vita della protagonista: quello adottivo è una figura passiva e inconsistente e il suo ruolo nella vita dell’Arminuta appare quasi limitato al volere della moglie. La ragazzina non pensa mai al padre perduto come individuo e ne sente la nostalgia solo come elemento del contesto famigliare. Anche il padre di sangue non è molto presente, ma con il procedere della storia ha un paio di momenti di riscatto in cui dimostra di non essere totalmente insensibile al destino di sua figlia – o almeno di esservi molto più interessato dell’uomo che l’ha cresciuta per 13 anni.
Il romanzo di Donatella di Pietrantonio narra una storia feroce e turbolenta, raccontata con grazia e senza una riga superflua. Ho letto quest’opera col cuore più che con la testa, divorandola in un giorno, e poi l’ho digerita poco alla volta, ho continuato a pensare ai personaggi e al corso che seguono le loro vite. Una voce così potente merita di essere ascoltata.
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