La città interiore – Mauro Covacich
(La Nave di Teseo)
Per spiegare l’entità di un libro come questo, finalista al Premio Campiello 2017, basterebbe forse analizzarne le informazioni primarie, quelle che emergono già dalla copertina. La casa editrice è La Nave di Teseo, nata da pochi anni e gestita da Elisabetta Sgarbi, che in Italia rappresenta un esempio consapevole e di successo della lotta alla grande e corrotta editoria con contenuti di qualità. L’autore è Mauro Covacich, triestino di nascita e già nel nome intellettuale di frontiera: per metà italiano, per metà di un’area che è contemporaneamente quella slovena e croata – quella oltre Italia, in due parole.
Il titolo della storia è La città interiore, che subito allude al fatto che un luogo fisico sia al centro delle vicende, pur trasformandosi in una figura diversa, collegata all’emotività, all’esperienza personale, alla cultura… E alla Storia con la maiuscola, come ci suggerisce la copertina. Un bosco e due bambini, lei con un vestitino e lui con una divisa militare, che alle spalle hanno uno specchio in cui il riflesso di entrambi li mostra già adulti.
In cosa consiste, insomma, questa pubblicazione? È al tempo stesso un’autobiografia, un excursus storico, un vagabondare fra le epoche e fra i luoghi di confine, una riflessione intima e collettiva, un vero e proprio romanzo il cui protagonista coincide in parte con l’autore: una sorpresa, in breve. Una di quelle da cui è difficile separarsi, non appena le si spacchetta.
Perché la lingua di Covacich è trascinante, multiforme, colta: traduce continuamente dal triestino all’italiano, dall’italiano all’inglese, e passa poi per lo sloveno, per il francese, per il croato, per l’inglese. Tira in ballo Italo Svevo accanto a Franz Kafka, James Joyce e subito dopo Claudio Magris, Umberto Saba e Ivan Goran Kovai, John Maxwell Coetzee e Pier Antonio Quarantotti Gambini, fino ad arrivare a Gian Franco Giannotti. E non solo, naturalmente. Ad accrescere il desiderio di raccapezzarsi, di orientarsi quasi, è un incedere narrativo in cui non sempre predomina un andamento crono-logico, anzi.
La Storia, infatti, dà lo spunto per due episodi-chiave nella vita di Flavio Covacich prima, nel 1945, e del figlio Mauro poi, nel 1972. Entrambi sono osservati da bambini, mentre serpeggiano fra le strade di Trieste come dentro un labirinto di cui conoscono ogni più recondito segreto. Flavio, addirittura, “si muove come un migratore lungo le rotte celesti. Non conosce i nomi delle vie, segue riferimenti emotivi, talvolta geometrici, i colori delle insegne, le fughe di luce verso la marina, i volumi dei pieni e dei vuoti tra i palazzi, le chiome degli alberi”. Mauro, invece, viene fotografato dalla penna dello scrittore mentre osserva la città dall’alto e si chiede come mai, con un cognome come il suo, lui sia italiano e non sloveno – che significa, in quel momento degli anni Settanta, come mai si trovi nella zona A anziché nella zona B del capoluogo di regione. Dopodiché, prende il via una serie di eventi inaspettata e imprevedibile.
Le due esistenze sono legate da un filo rosso invisibile, che Covacich cerca instancabilmente di rintracciare, rientrando da adulto in quel groviglio di strade, di sensazioni e di episodi realmente accaduti che hanno lasciato briciole qua e là, da raccogliere e da identificare di volta in volta. Sullo sfondo sta una nazione intera e qualcosa di più, qualcosa al di fuori, con tutte le sue contraddizioni e con i suoi punti di contatto con popoli vicini e lontani a un tempo. E in primo piano, tuttavia, non rimane solo la testimonianza di Covacich in quanto tale, che farebbe consumare l’intero racconto in una saga familiare forse ormai abusata.
Le due esistenze sono legate da un filo rosso invisibile, che Covacich cerca instancabilmente di rintracciare, rientrando da adulto in quel groviglio di strade, di sensazioni e di episodi realmente accaduti che hanno lasciato briciole qua e là, da raccogliere e da identificare di volta in volta. Sullo sfondo sta una nazione intera e qualcosa di più, qualcosa al di fuori, con tutte le sue contraddizioni e con i suoi punti di contatto con popoli vicini e lontani a un tempo. E in primo piano, tuttavia, non rimane solo la testimonianza di Covacich in quanto tale, che farebbe consumare l’intero racconto in una saga familiare forse ormai abusata.
A spiccare è, piuttosto, un reportage cartografico di Trieste e della sua “scontrosa grazia”, da un lato, e un memoire profondo e consapevole dall’altro lato, dentro cui prende sempre più piede l’esigenza di capire quali e come siano le proprie radici, come potersene riappropriare e che significato dare, intanto, al percorso di allontanamento da queste ultime che si è compiuto nel corso della vita, alla ricerca di un posto dove stare che fosse a tutti gli effetti “casa”.
“[…] forse è un’altra la guarigione che sto cercando. Mi ritrovo sempre più a propendere per una febbre autoindotta, il genere di avaria psicosomatica che non si risolve con la cura, bensì col perdono. Quindi è questa la ragione del viaggio? Non le radici, non il ritorno a casa, […] ma una stele funeraria, la croce del fratello morto che mi assolva dall’indifferenza, dalla non appartenenza. Sei italiano o sei slavo? Se porti quel nome perché non parli croato? Se sei italiano perché ti chiami così?”
Domanda ai propri lettori (e a sé stesso) Covacich, a un certo punto, lasciando intendere che non è possibile esaurire nello spazio di un romanzo il forte senso di appartenenza e di abbandono che ha provato fin da bambino, esattamente come Flavio prima di lui, quando aveva solo sette anni e si aggirava fra i nazifascisti nel Borgo Teresiano per portare una sedia fin dove i militari stavano interrogando suo padre. Non è possibile perché intanto il tempo scorre in avanti e all’indietro, trascinando con sé parole, idee, sentimenti e città interiori similissimi fra loro, ma ciascuna diversa a seconda della persona che la abita.
L’unica conclusione che si possa donare e a cui si possa aspirare nello spazio di qualche centinaio di pagine, quindi, è questa: che essere nati a Trieste significa dedicarle giorno dopo giorno una dichiarazione d’amore incomprensibile, forse non ricambiata, e che nel frattempo rende chi la vive dentro e fuori di sé un cittadino del mondo, oltre che di una terra di frontiera. Un partecipante alla Storia, oltre che uno spettatore. Un figlio, oltre che un padre, e un bambino oltre che un uomo.
Eva Luna Mascolino