“La notte ha la mia voce”, di Alessandra Sarchi
La lettura dell’ultimo romanzo di Alessandra Sarchi, La notte ha la mia voce, mi ha accompagnata per più di due settimane, che è un tempo piuttosto lungo per i miei standard. Non si tratta di un tomo di più di 500 pagine né di un’opera noiosa, ma ho dovuto centellinarlo per riuscire a tollerarne l’impatto. Provo a spiegarvi perché.
La voce narrante del romanzo è una donna costretta su una sedia a rotelle in seguito ad un incidente d’auto. Esiliata da un giorno all’altro in un territorio inesplorato e ostile in cui anche i gesti più semplici richiedono fatica e determinazione, si sente ormai lontana da ogni possibilità di vivere una vita vera. Durante una seduta di fisioterapia, però, incontra la Donnagatto, una giovane donna priva di una gamba, e lentamente il suo approccio verso il mondo cambia.
I fatti, tuttavia, non sono il centro dell’opera e costituiscono piuttosto, quasi come in un romanzo di formazione, il pretesto per addentrarsi nella vita quotidiana di una mente agile e disperata costretta a vivere in un mondo che è al contempo identico a quello che precede l’incidente e completamente diverso perché guardato da un’altra prospettiva.
L’intero romanzo è strutturato come la ricerca di una verità nascosta e necessaria, di una ragione per cui vale la pena comunque vivere, pensare e produrre. Anche lo stile è improntato a trasmettere l’idea di un continuo cercare e interrogarsi: tutte le sensazioni provate dall’io narrante prima e dopo l’incidente sono descritte accuratamente con un lessico che richiama efficacemente tutti i cinque sensi e in particolare il tatto.
Il corpo in generale è il personaggio principale dell’opera e questa è una delle ragioni per cui ho dovuto razionarne la lettura: l’autrice usa un linguaggio medico lucidissimo per descriverne le funzioni, le pecche e le potenzialità e ho trovato questa scelta efficacemente disturbante. A turbarmi è stata la prospettiva severa e precisa della prosa e mi sono sentita costretta come non mai a guardarmi da dentro, a interrogarmi sui meccanismi interni che mi permettono di svolgere le funzioni vitali che ritengo più scontate. Sebbene mi abbia portato a leggere solo qualche pagina alla volta, quindi, questa imperiosità rende il romanzo decisamente originale.
All’ossessione della voce narrante per le gambe e l’atto di camminare si accompagnano alcune pagine estremamente interessanti sull’evoluzione, degna di nota in particolare quella in cui la protagonista paragona la sua condizione a quella del Tiktaalik, un animale preistorico di passaggio tra i pesci e i primi tetrapodi. Altrettanto ossessivo è l’interesse per la danza condiviso con la Donnagatto e in particolare la passione per l’arte e la vita del ballerino Nureyev, che appare come l’emblema idealizzato di tutto ciò che è vita, movimento e desiderio.
Come necessariamente avviene in letteratura, la verità ultima da scoprire e custodire è celata ovunque e da nessuna parte tra le pagine del libro. Io ho scelto di vederla in questo passaggio (pag. 68), con cui chiudo questa recensione.
Non avrei saputo raccontare la vita della Donnagatto e neppure la mia. L’acqua che scorreva produceva topi, figure cangianti, gorgoglii e neri abissi in miniatura. Ma non c’erano parole per dirlo, io non le avevo. Le parole delle poesie che leggevo, dei romanzi, le immagini dei film e dei dipinti arretravano e si facevano insulse davanti all’enigma dei corpi che ancora c’erano, in alcuni casi erano persino attraenti, ma non servivano più a ciò per cui erano serviti un tempo. Quello che sapevo dire era: sopravvivere alla morte, diventare malati cronici, portare in giro il proprio disagio, superarlo a tratti, a volte sì a volte no, in ragione delle circostanze esterne, delle energie a disposizione, dell’amore altrui. Ma questo non equivaleva banalmente a vivere, come vivevano tutti o quasi?