Uno dei primi romanzi lettoni in Italia racconta il bisogno di amare la vita

Il latte della madre – Nora Ikstena

(Voland, 2018)

Ci sono tanti modi per viaggiare in terre lontane senza muoversi da casa, ma forse i romanzi ambientati in quei luoghi irraggiungibili sono il modo più vero e sincero per cogliere l’essenza di un Paese.

il latte della madre_copertinaSe accettiamo questo presupposto, non c’è da stupirsi del fatto che la Lettonia è il Paese baltico la cui identità ci è più oscura. La disponibilità di letteratura lettone in Italia è infatti davvero limitata rispetto alla scelta di romanzi, ad esempio, estoni e lituani.
Negli ultimi mesi, tuttavia, la situazione sta cambiando: è ora in libreria Il latte della madre, di Nora Ikstena, edito da Voland, romanzo rivelazione pubblicato in Lettonia nel 2015 e tradotto in italiano da Margherita Carbonaro.
Il romanzo ha vinto due prestigiosi riconoscimenti in Lettonia, il Premio Dzintars Sodums e il Premio dei lettori, e dopo averlo letto è chiaro come abbia conquistato così bene il pubblico.

Il latte della madre è infatti uno di quei rari romanzi che riescono ad abbracciare un secolo, una nazione e un pezzo di Storia attraverso la storia intima e personale di un piccolo gruppo di personaggi.

Le protagoniste della Storia qui raccontata sono tre generazioni di donne: una nonna, una mamma e una figlia di cui non vengono mai citati i nomi. La nonna ha vissuto l’occupazione hitleriana della Lettonia e ha tratto in salvo la propria figlia nei giorni più terribili del ’44, la madre ha vissuto per tutta la sua vita sotto il regime comunista e la figlia, nata nel ’69, è l’unico spiraglio di speranza verso il futuro.

La mamma e la figlia – la generazione del ’44 e la generazione del ’69 – sono le due voci narranti del romanzo, i loro racconti si alternano in brevi capitoli e le loro vite, che scorrono intrecciate eppure distanti, sono raccontante sia dal punto di vista dell’una che dell’altra.

Il rapporto tra le due è lontano da una classica relazione madre-figlia: nata quasi per caso, la figlia non ha bevuto il latte di sua madre appena nata ed è stata cresciuta dai nonni fino al momento di trasferirsi, a causa del lavoro della madre, in una località di campagna. Al contempo, è un legame molto più stretto e profondo del normale, una continua lotta tra la morte, rappresentata dalla madre, e i tentativi della figlia di riportarla alla vita.

La madre rappresenta una generazione senza speranza. Colta, assetata di sapere, dolorosamente consapevole di tutto ciò che la circonda, fin dalla giovane età la donna non riesce a sopportare la fatica di vivere. Il carattere tormentato e disperato del suo personaggio appare tra le righe gentilmente: la sua sofferenza non viene urlata esplicitamente ma traspare dai dettagli, dal suo stile di vita, dalla sua apparente capacità di amare. Un personaggio come lei è difficile da comprendere per chi non ha vissuto tutta la propria vita sotto un regime: non è immediato immedesimarsi in una donna che non ha mai subito fame, sofferenza, delusioni personali, abbandoni o fallimenti lavorativi eppure sente la vita come un peso troppo ingombrante da continuare a portare. L’amore per la libertà viene descritto magistralmente da Nora Ikstena attraverso il dolore di una donna che non ha mai vissuto libera.

Accanto all’abisso più cupo della disperazione, la figlia rappresenta l’ingenua e indispensabile speranza; la voglia di vivere che fatica per tirare la madre dalla propria parte.

Questa lotta estenuante tra la vita e la morte si svolge tra le pagine de Il latte della madre attraverso racconti delicati di vita quotidiana in cui al tremendo giogo sotto cui vivono le protagoniste si affiancano minuziose descrizioni della campagna lettone, di boschi, di fiumi e di giardini. L’epopea della madre si svolge infatti nel mezzo di una natura accogliente e severa che si presta ad alcune tra le metafore che costruiscono il romanzo: in primis, il latte.
La figlia non ha bevuto il latte della madre da bambina per esplicita scelta della donna. Il latte, celebrato nella Lettonia sovietica come l’alimento più sano e nutriente al mondo, provoca repulsione alla bambina per tutta la propria infanzia, fino al momento in cui, grazia all’intervento della madre, non viene più costretta a berlo a scuola:

All’ora del pranzo nessuno più me lo mise davanti. Ma lo assaggiai dal bicchiere del compagno seduto accanto a me. Era normalissimo latte. Potevo berlo, ma potevo anche non berlo. Ero libera di scegliere.

 Metafora intraducibile ora della libertà, ora dell’amore materno e del caldo di un grembo (l’acqua del fiume viene più volte definita calda come latte), il latte è un simbolo così multiforme da diventare un’ossessione.

Il latte non è l’unico elemento legato alla maternità che ricorre nel romanzo: la madre, che è una madre quasi per caso e che è incalzata dalla morte, è anche una ginecologa e pratica di nascosto dai suoi superiori l’inseminazione artificiale sulle sue pazienti, affascinata dalla vita come da un mostro che mai riuscirà a comprendere fino in fondo.

La madre avrebbe trovato consolazione nel mondo post comunista in cui la figlia è destinata a vivere o il disamore per la vita non può cambiare da un giorno all’altro e avrebbe finito per divorarla e mangiare anche la speranza della figlia?

L’unica risposta consolatrice a questa domanda sembra poter venire dal personaggio androgino di Jese, dolce simbolo di unione, forza e perseveranza:

Non chiamare fogna la tua vita, diceva Jese cercando di consolare mia figlia. Non chiamarla mai così. È quella che ci è stata data. Siamo stremate e oppresse da un fardello pesante. Bisogna prendere tutto con umiltà, anche le spazzole metalliche, e allora l’anima riacquisterà forza.  

(Loreta Minutilli)

in primo piano: “Spring waters”, di Vilhelms Purvitis (1872-1945), paesaggista lettone

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