“Il pozzo”: nelle profondità della vita interiore

Il pozzo, Regīna Ezera
(Iperborea, 2019 – trad. M. Carbonaro)

regina ezeraDue anni fa abbiamo iniziato a esplorare il territorio della letteratura lettone con Il latte della madre di Nora Ikstena (Voland) e abbiamo chiacchierato con la traduttrice Margherita Carbonaro dei suoi progetti futuri per diffondere le opere letterarie di questo Paese in Italia: è in questa occasione che abbiamo sentito parlare per la prima volta di Regīna Ezera, voce autorevole della letteratura baltica, e de Il pozzo, il suo capolavoro, ora nelle librerie italiane per Iperborea.

La prima edizione del romanzo è del 1972: ci troviamo in una Lettonia saldamente legata all’URSS e destinata a restare sotto il regime sovietico fino alla sua dissoluzione nel 1991. La vicenda è ambientata nella campagna baltica, nei dintorni di un lago chiamato affettuosamente la Biscia da chi vi abita intorno. Siamo quindi apparentemente lontani dalla grande Storia e dai suoi movimenti, la narrazione si concentra sull’acqua e su altre profondità.

Il lago stesso è infatti il motore dell’incontro tra il medico di Riga Rūdolfs, che passa le vacanze in campagna per sfuggire alla sua famiglia o forse a sé stesso, e gli abitanti di casa Tomariņi: l’anziana Alvīne, sua figlia Vija e sua nuora Laura con i due figli piccoli. Le tre donne e i bambini vivono nell’ombra ingombrante di Ričs, figlio di Alvīne e marito di Laura, in carcere per un omicidio accidentale.

Rūdolfs chiede in prestito a Laura la loro barca per andare a pesca, Laura gliela concede: inizia così un’amicizia tra il medico e la comunità matriarcale di Tomariņi che si nutre di non detti, colori, suoni e sensazioni e che prelude a un’attrazione impossibile tra l’uomo e la schiva e silenziosa Laura.

Il cosa succede potrebbe essere riassunto tutto qui: una manciata di incontri fugaci tra un uomo abituato a prendersi dalla vita tutto ciò che desidera e una donna a cui la vita, invece, ha tolto tutto ciò che poteva. Sono entrambi prigionieri, l’uno di una libertà illimitata e priva di affetti, l’altra di doveri e responsabilità a cui non può neanche immaginare di sottrarsi, e il sentimento che comincia a legarli è destinato a rimanere inespresso seppur deliziosamente reciproco. 

La straordinarietà de Il pozzo sta nel modo in cui il racconto di qualche ordinaria giornata di fine agosto nella vita di un gruppetto di persone riesce a trasmettere la misura delle loro intere esistenze e del passato che si portano in spalla, nel modo cioè in cui la quotidianità si fa carico di un messaggio universale.

Nel romanzo di Regīna Ezera ogni dettaglio è rivelatore: il modo in cui viene preparata la marmellata di mele, il colore dell’acqua del lago, le voci attutite dalla distanza. La normalità è descritta con una squisitezza di particolari – menzione d’onore per le scene che hanno per protagonisti i bambini – che le conferisce una dignità eroica e contribuisce a creare un’atmosfera sospesa, magica e avvolgente in cui il lettore non può evitare di venir risucchiato.

«Vide infine che i due vecchi secchi che usavano per la mungitura erano vuoti, li appese al bilanciere e andò al pozzo. In lontananza il cielo ardeva ancora, ma già si erano accese le prime pallide stelle. La catena scorreva e strideva, quasi uggiolando. Laura girò meccanicamente la manovella finché la catena arrivò alla fine e allora si rese conto che il secchio era sul fondo del pozzo già da un po’ e doveva aver smosso i sedimenti: l’acqua non sarebbe stata limpida.» [p. 275]

In un presente statico, sempre uguale e senza vie di fuga, emerge con prepotenza lo spettro del passato. Man mano che la tragica storia che grava sulla famiglia cui Laura si è legata sposando Ričs viene svelata, il presente appare sempre più come uno spazio stagnante, rassicurante ma chiuso in sé stesso, proprio come un lago, mentre la vita vera si è svolta nella generazione precedente.

Il disperato tentativo di due esseri umani di salvarsi a vicenda dalla solitudine fa infatti da sfondo a una grandiosa storia di amore e odio, padri e figli, colpe ed espiazioni, i cui dettagli vengono rivelati in maniera quasi casuale, come relitti senza importanza di un’epoca conclusa. La generazione di Alvīne, nata quando ancora la terra aveva padroni e testimone della dominazione nazista, ha ormai finito la sua parte gioie e dolori terreni e non le resta che prendersi cura dell’orto, rammendare le calze e sbucciare le mele.

Prima de Il pozzo, Regīna Ezera aveva scritto delle opere che avevano avuto un moderato successo ma, come ci racconta Margherita Carbonaro nella postfazione, lei non si riteneva superiore alla massa grigia di scrittori della sua epoca. Il suo capolavoro nacque in seguito al rifiuto dell’amico e collega scrittore Gunārs Priede, che, dopo aver letto un fascio di venticinque lettere in cui l’autrice gli comunicava i suoi sentimenti, rispose: Non scriviamoci lettere, ma ciascuno scriva le sue opere letterarieLei sublimò il suo dolore, lo trasformò in arte, compose un’opera universale e divenne la grande dame della letteratura lettone: ora possiamo finalmente conoscerla meglio.

 

Loreta Minutilli

 

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