Premio Strega Europeo ’18: “Hotel Silence” di Auður Ólafsdóttir

Hotel Silence, Auður Ava Ólafsdóttir
(Einaudi, 2018; trad. di S. Rosatti)

 

93c3e06280bb20fed70cee5f06ef4e1aUn uomo è ormai al giro di boa della sua vita. Jonas ha appena divorziato da sua moglie e lei gli ha comunicato che in realtà non ha alcun legame con la ragazza che per ventisei anni ha creduto sua figlia. Non è sua, è di qualcun altro, e questo significa che non avrà nessun discendente a sopravvivergli, nulla a impedirgli di cadere nell’oblio. Quell’oblio che invece attanaglia sua madre nella forma del morbo d’Alzheimer o più semplicemente della demenza. Improvvisamente crollano tutte le certezze di un’esistenza, la vita passata e la sopravvivenza futura perdono di senso e utilità. Ormai solo, senza legami, senza ragioni, perché continuare a vivere?
Una speranza c’è per ognuno, questo ci insegna la popolare scrittrice islandese Auður Ava Ólafsdóttir, che con Hotel Silence è nella cinquina finalista del Premio Strega Europeo 2018.

Che ci sia una speranza, celata da qualche parte e pronta ad attenderlo, questo Jonas lo ignora ancora. L’unico pensiero che affolla la sua mente è ormai quello del suicidio. È un pensiero lucido, un calcolo freddo e preciso. Ci riflette, ci ragiona, va a fare visita a sua madre, incontra sua figlia, analizza il suo passato attraverso i diari di gioventù, ma quando tutto sembra ormai pronto, s’accorge che qualcosa gli era sfuggito: se la fa finita, chi sarà a trovare il suo corpo? A chi lasciare questa incombenza? No, sua figlia non si merita questo. Non può farle questo torto.
Il viaggio allora pare inevitabile. E così Jonas vende tutti i suoi abiti, vende la sua azienda, riempie una valigia di un trapano e poco altro, scrive un messaggio per sua figlia e parte. Va dall’altra parte del mondo, in un innominato paese appena uscito da una feroce guerra civile. Così da morire solo, così che a trovarlo sia un estraneo.

Come era facile immaginarsi sin dal principio del romanzo, in questo paese straniero, presso l’Hotel Silence, Jonas trova la sua speranza. Trova persone a cui (ri)appartenere, trova qualcuno di cui prendersi cura, trova uno scopo per resistere, comprende che la morte non è poi una condizione tanto desiderabile, perché quella gente che la conosce bene ha voglia soltanto di vivere. Il trapano e gli attrezzi da lavoro che s’era portato come unico bagaglio, con cui costruire un gancio a cui appendersi, diventano gli strumenti con cui aggiustare quel che c’è di rotto, per riqualificare l’albergo e con esso la vita delle persone che ci ruotano attorno. Mister Fix, così viene rinominato.

Jonas, che trovava la sua esistenza priva di senso e utilità, scopre che da qualche altra parte, nel mondo, lui può essere ancora qualcuno, può avere un ruolo rilevante, può fare in modo davvero che le cose cambino, che la gente stia meglio. Tutti abbiamo un’utilità, e se ci sentiamo privi di forze, privi di un posto nel mondo, c’è un qualche posto, pur lontano, dove possiamo essere determinanti e sentirci fondamentali; tutti possiamo aiutare il mondo ad essere migliore. Questo vuol trasmettere Auður Ava Ólafsdóttir ai suoi lettori. Un messaggio certamente positivo, ottimista, radioso, per quanto ai limiti della retorica.

Molto di questo libro, tuttavia, mi ha lasciato perplesso. Come le vicende raccontate e il messaggio da veicolare prevedono, si tratta di un libro da un andamento lento, nel quale il tempo trascorre con calma forse eccessiva. I libri riflessivi e dall’incedere lento sanno essere il più delle volte molto affascinanti, ammalianti, ma in Hotel Silence alla malia e al fascino prevale piuttosto la noia, tant’è che la narrazione in tanti casi si riduce in un mero e soporifero elenco di azioni banali:

“Apro la valigia e dispongo i miei oggetti personali sul tavolo, l’uno di fianco all’altro. Non ci vuole molto. La mia camicia rossa la appendo nell’armadio, il maglione lo metto sulla mensola a fianco e i diari li lascio sul tavolo, vicino alla cassetta degli attrezzi. Non mi sono ancora imbattuto in un contenitore per i rifiuti.
Devo andare a dormire, devo lavarmi i denti? Apro il rubinetto…” (p. 78) E così via.

Nella prima parte soprattutto, i vagheggiamenti suicidi del protagonista si ripetono ridondanti, sterili e lagnosi. Non c’è un approfondimento che sollevi interesse o riflessioni, che fornisca un contributo né al dibattito né all’esplorazione letteraria del suicidio come tema. Si prova malessere e tedio, poco più. E anche la scelta di andare a morire in un paese appena uscito da una guerra civile appare artificiosamente come un pretesto narrativo, mai giustificato e inquadrato in una ragione coerente con le azioni del protagonista.

Solo dopo due terzi di pagine la lettura si fa più interessante e piacevole. Vediamo concretamente Jonas all’opera con le ristrutturazioni dell’albergo; che si impegna per rendere migliore la vita delle donne che lì ha conosciuto, e lentamente per aiutare l’intero villaggio. La morale viene esaltata, Jonas recupera persino i rapporti con sua figlia. Ma può bastare solo l’ultimo terzo del libro a risollevarne le sorti? Quella pensata da Auður Ava  Ólafsdóttir è senz’altro una storia piacevole, lieta e interessante, ma il modo in cui è stata trasformata in un romanzo non convince.

– Giuseppe Rizzi –

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