L’ascensione del Monte Bianco, Ludovic Escande
(2018, Einaudi, trad. Margherita Botto)
Il mio posto non è qui, sono un clandestino dell’alta montagna e come ogni persona entrata illegalmente in un posto che non la vuole provo l’angoscia di essere rispedito al punto di partenza.
La montagna è simbolo, è idea, è un “albero per adulti” dove gli uomini possono seminare ambizioni e paure e raccogliere frutti carnosi che hanno il gusto dell’entusiasmo e dell’angoscia. Per qualcuno scalare e vivere la montagna equivale a superare se stessi, per altri a trovare se stessi, per altri ancora ad avere l’opportunità di uscire da se stessi. Ludovic Escande, autore e protagonista de L’ascensione del Monte Bianco, riassume in sé tutti questi motivi senza incarnarne appieno nemmeno uno.
È un pungolo esistenziale quello che spinge Escande, editor di mezza età fisicamente sciupato, a tentare la via normale del Monte Bianco: il suo divorzio dalla moglie e la sua “caduta libera” verso un fondo di vita orizzontale sono tratteggiati in pochissime righe nel primo quarto del racconto, e servono da scenario, da tetra “baseline”; i rimanenti tre quarti tratteggiano la storia di una redenzione conquistata tramite la verticalità delle cime. L’itinerario di Ludovic, che zigzaga tra baite di montagna, guglie di roccia e impressionanti tour de force alcolici, assumerebbe quasi i caratteri di un’epica psico-drammatica, non fosse per il tono costantemente autoironico e frizzante della narrazione. A raccontare e rivivere la propria avventura è infatti il Ludovic “redento”, rinato, che guarda con distacco il suo passato e affida i drammi e le paure peggiori del suo io precedente a un coro di sardoniche voci interiori, col quale il neo-alpinista dialoga e si interroga riguardo il senso e l’esito del suo tentativo.
Prende vita così un racconto di viva e tangibile introspezione, che accompagna realmente per mano (o, se preferite, in cordata) il lettore attraverso le cornici purgatoriali del Monte Bianco. Il protagonista si pone le stesse domande e si dà le stesse, incomplete, risposte che ognuno di noi – popolo che la montagna la ammira perlopiù dal basso – potrebbe trovare dentro di sé al momento dell’incontro con la roccia, che «nelle condizioni della scalata […] non è accogliente, si ribella alla nostra volontà di potenza». La componente psicologica è dunque la caratteristica preponderante dell’intreccio; affiora, però, in determinati momenti, anche un certo gusto per il mondo fisico. Il contatto con il ghiaccio e il calcare, la fatica, il dolore – vi basti sapere che il nostro parte per la scalata con degli scarponi di due misure più grandi – informano i pensieri dell’autore e diventano componenti essenziali nel determinare ciò che egli sente e racconta.
Insieme all’esplorazione del complicato mondo interiore dello scrittore, l’altro pregio del libro risiede sicuramente nella grandiosità della comitiva che lo accompagna. I tre personaggi che la compongono sono tratteggiati in maniera decisamente caricaturale e costituiscono solidi archetipi narrativi tra cui si tendono le fila dei pensieri dell’autore.
Se Sylvain Tesson – l’istrione, il matto dei tarocchi, il più sregolato – rappresenta lo spirito avventuroso di certo alpinismo, Daniel Du Lac recita il ruolo di chi vede la montagna piuttosto con rispetto e venerazione. Non a caso è Sylvain a convincere Ludovic a partire, ma tocca a Daniel il ruolo di compagno di cordata dell’autore. È sempre Daniel a riportare Ludovic alla realtà, nel corso della sua prima crisi di panico, e a salvarlo dalla sua prima caduta ancorandolo saldamente alla roccia, la cui realtà materiale e immobile fa da contraltare al pendolo affannato dei pensieri.
Jean-Christophe Rufin, infine, è il patrocinatore della spedizione, ma allo stesso tempo colui che più ne prende le distanze: da medico egli teme particolarmente per la sorte di Ludo, e non cessa di dimostrare la sua ironica diffidenza verso i compagni di scalata e la spedizione tutta. La curiosa combinazione dell’atteggiamento macchiettistico dei tre e dei drammi interiori di Ludovic dà vita a scene dal sapore surreale e quasi fumettistico.
I pregi maggiori de L’ascensione del Monte Bianco, nonché il suo spirito più profondo, sono riassunti dalle sue ultime pagine, che ci traghettano dal Monte Bianco in una Parigi immaginifica in cui scalare la guglia più alta di Notre-Dame de Paris sembra la cosa più normale del mondo. Non c’è un motivo per cui non dovreste leggere questo piccolo volume, che riesce ad essere allo stesso tempo il manifesto psicologico di un “clandestino della montagna” e un riuscito e atipico pezzo di letteratura di viaggio.
Samuele Gaggioli