Paolina, Marco Lodoli
(Einaudi, 2018)
Paolina ha quindici anni, mille pensieri che le affollano la mente, ed è incinta. La sua vita corre a perdifiato verso un bivio, ma ormai non c’è più tempo per riflettere su quale strada sia meglio intraprendere: o tiene il bambino o lo elimina, o va a destra o a sinistra, e se non prende una decisione collasserà contro il niente che affolla la sua esistenza. Niente famiglia, niente scuola, niente ambizioni, niente. Al mondo c’è solo lei, Paolina, con quel feto che le cresce in grembo e la certezza che nessuna scelta sarà mai giusta.
Allora la ragazza cerca un appiglio nei piccoli tasselli umani che hanno composto il puzzle della sua esistenza. Nell’arco di una sola giornata, l’unica che si concede per prendere una decisione, Paolina rintraccia i potenziali padri e chiede il loro aiuto. Quello che trova invece è un coro di voci eterogenee che rifiutano in ogni modo la vita – quella che cresce dentro Paolina, ma anche quella di qualsiasi altro bambino, la vita degli altri, la propria. Ciascuno di loro è circondato dallo stesso niente che appesta l’esistenza di Paolina, e rifiutano l’idea che qualcosa possa riempirlo.
Nessuno dei personaggi che si succedono tra le sottili pagine del romanzo ha lo spessore caratteriale e psicologico di un essere umano vero. Sono maschere, feticci, icone di tipi umani che nella loro diversità – l’inutile, il ribelle, il ricco, l’escluso e tanti altri – tracciano un affresco antropologico estremizzato e coerente. Hanno ruoli diversi, ma parlano con la stessa voce, per esprimere concetti simbolici con una consapevolezza artistica. Il romanzo di Lodoli è quasi una poesia, un susseguirsi di riflessioni intense messe in bocca a personaggi improbabili.
Anche Paolina è irrealistica e bellissima al tempo stesso. Ingenua, profonda e a tratti sciocca, sembra che la sua mente si focalizzi solo sui dettagli, che si perda tra voli pindarici e non sappia più come scendere a terra. Non riesce a inserirsi nella società, un limite che pare accumunare tutte le persone che la circondano. Ha commesso molti errori, ma vi è una tale dolcezza nei suoi sbagli da vanificare ogni impulso a giudicare o a provare compassione. I suoi fugaci incontri sessuali vengono descritti come naturali e delicati, ogni suo passo in avanti è un errore che il lettore è disposto a perdonare.
Poi ci sono le rose, una per ogni ragazzo che ha scelto di non essere padre. Paolina sancisce ciascun “no” alla vita con un dono che di per sé è il più ancestrale simbolo della vita stessa: un fiore. A livello narrativo, le rose donate dalla ragazza ai suoi amanti sono l’ennesimo invito a interpretare questo romanzo come un’opera sostanzialmente simbolica, vera solo nella misura in cui non pretende di essere considerata una fotografia fedele della realtà, quanto piuttosto una sua rappresentazione poetica.
Il romanzo tratta il profondo tema della vita e lo mette in discussione con un approccio metaforico e delicato. Lo stile asciutto, schietto e leggero contribuisce a creare un’atmosfera quasi onirica intorno alla quotidiana tragedia della protagonista. Il risultato è una sentenza spietata sull’umanità, sulla giovinezza e sulla vita stessa.
Il mondo è crudele. Questo ci insegna il romanzo di Lodoli: che le persone sono sole e cattive, che il giusto e lo sbagliato sono pure contingenze destinate a cambiare con il punto di vista da cui le si osserva, e che il senso della vita è un concetto impalpabile e fondamentalmente inutile. Paolina è sola perché il mondo la maltratta, la umilia e la allontana. Ha senso continuare a mettere al mondo altri esseri umani, se questo è l’ambiente con cui dovranno convivere?
E una risposta, tutto sommato, c’è: forse sì.
Anja Boato