Il delitto di Agora, Antonio Pennacchi
(Mondadori, 2018)
Il narratore, limpido alter-ego dell’autore, ci porta ad Agora, paese dei monti Lepini teatro di un brutale duplice omicidio: Emanuele e Loredana, fidanzati, sono stati assassinati nella casa di lui. Un delitto inspiegabile sia per la brutalità dell’omicida, che ha inferto in totale 124 coltellate, che per l’apparente assenza di movente.
Sembra un tipico romanzo giallo, ma in poche pagine le aspettative del lettore sono destinate a crollare.
Non che Pennacchi (o meglio, il suo alter-ego) non ci avvisi: lui non è uno scrittore di gialli, lui questo romanzo non voleva neppure scriverlo, lui si limita a raccogliere le testimonianze, le prove, i fatti perché il delitto di Agora l’ha affascinato. Patti chiari, amicizia lunga, verrebbe da dire.
È a denti stretti, e di malavoglia, che affermo di essere stata delusa.
Lo stile di Pennacchi, così personale con le sue digressioni, il suo umorismo, la sua erudizione, mal si sposa con le tematiche, con gli artifici, con i modelli del romanzo giallo. Il delitto di Agora è un romanzo che tocca generi diversissimi, ma non riesce a valorizzarli.
Ovunque ritroviamo la storia dell’Agro Pontino, rivisitata, certo, ma tremendamente affascinante: i lettori di Canale Mussolini non potranno non riconoscere e amare il tono scanzonato di Pennacchi, che ci racconta aneddoti incredibili con tanta sicurezza da farci dubitare su quale sia la verità (ammetto senza vergogna di aver più volte interrotto la lettura per cercare alcuni nomi ed eventi su Google).
In confronto, i capitoli dedicati al delitto risultano lenti, pesanti, faticosi. La narrazione è infatti affidata alle carte: interrogatori, ricostruzioni, testimonianze. Il tono è burocratico, impersonale; la vicenda si impantana negli orari, nei nomi dei testimoni, in dettagli che potrebbero risultare essenziali in un altro genere di romanzo, ma che in quest’opera non hanno alcuna rilevanza.
Vi è poi la componente psicologica-filosofica. Assecondando lo stereotipo quasi abusato dell’uomo di mezza età inserito nell’alta società eppure debole e sperduto, il narratore intrattiene lunghe discussioni con un avvocato e con il proprio psicoterapeuta: uomini invariabilmente cinici, un po’ fanfaroni, sebbene colti e in qualche modo piacevoli.
Ancora una volta, il delitto passa in secondo piano, sommerso dai ragionamenti sulla natura umana e sulla società: non mettiamo in dubbio che siano argomenti interessanti e sempre attuali, ma è questa la sede opportuna?
Alcune di queste irregolarità possono essere imputate alla travagliata storia editoriale del romanzo. La prima versione, pubblicata per Donzelli nel 1998, si intitolava Una nuvola rossa, espressione che ritorna come sottotitolo in questa edizione.
Pennacchi stesso dice di essere sempre stato deluso dal libro, che ritiene in qualche modo “inconcluso”; perciò, in occasione della pubblicazione con Mondadori, ha deciso di riscrivere il finale e di operare una revisione generale.
Non è un caso che il finale sia l’elemento più bello dell’intero romanzo. Pennacchi lascia da parte le riflessioni filosofiche, le indagini e gli excursus storici e riprende in mano la narrazione per esprimere il suo punto di vista, la sua unica certezza: e si tratta di un’immagine tanto delicata, tanto commovente da annullare, almeno per un momento, i difetti che la precedono.
In sintesi, ne Il delitto di Agora si possono trovare le caratteristiche che hanno fatto la fortuna di Antonio Pennacchi e Canale Mussolini, ma non si può negare che risultino poco valorizzate dal tema prescelto.
Sonia Aggio