Come non scrivere, Claudio Giunta
(UTET, 2018)
Premessa: in questo momento provo una forte ansia da prestazione, e spero di non fare strafalcioni che mi farebbero finire tra gli esempi di Come non scrivere – parte seconda.
Nel momento in cui comincio a scrivere, dalla tv arrivano queste parole: “Dal suo volto non mi pare… i suoi occhi mi dicono… che questo abito non la…”. Alzo lo sguardo, vedo un uomo che alza le mani e le agita, in evidente imbarazzo. Mi illumino: è l’occasione giusta per mettere in pratica i consigli di Giunta.
Siamo in un negozio di abiti da sposa, la cliente indossa un abito molto semplice. È chiaramente scontenta. Il venditore potrebbe dirle “Vedo che quest’abito non la soddisfa”, invece comincia una frase più complessa e si perde.
Aveva un’alternativa più semplice a portata di mano, perché non l’ha usata?
Perché non ce lo insegnano.
Come non scrivere non è un manuale che insegna a scrivere, ma offre un’alternativa al linguaggio pesante e contorto (un dicolon, aiuto!) che caratterizza tanti settori – dalle scuole ai ministeri, dalle redazioni ai tribunali.
Uno stile – brutto – che ci viene inculcato fin da bambini: i termini di uso comune come andare e viso vengono sostituiti da sinonimi apparentemente eleganti come recarsi e volto. I verbi diventano espressioni elaborate: girare? Troppo banale, meglio scrivere effettuare una svolta. Le frasi dirette? Brutali. Il suo stato di salute è compatibile con lo sport? No, la sua prestanza (!) non è incompatibile con l’attività sportiva.
Sconsiglio la lettura di Come non scrivere a chi cerca un manuale che contenga i “trucchi” utili a scrivere una lettera, una tesina o un annuncio; certo, ci sono approfondimenti molto interessanti – io ho salvato quello sulle note bibliografiche, croci di ogni studente in tesi – ma il maggior pregio di quest’opera sta nella sua capacità di far riflettere il lettore.
Finalmente si mette in dubbio la correttezza di un certo linguaggio, ci si domanda se sia veramente necessario trasformare le parole più comuni nei loro corrispettivi più complicati, si rivela senza se e senza ma l’assurdità delle frasi formate da una sfilza di termini astratti (un’abitudine che, con mio grande fastidio, è passata alla narrativa: a che pro scrivere provava una sensazione a metà tra l’infelicità e il rimpianto, un sentimento di caducità e impoverimento? Mostrare, non raccontare!).
D’altro canto, lo stile “alleggerito” proposto dall’autore tende ad avere un altro difetto: nel tentativo di rendere chiaro il concetto, si rischia di scadere nel banale.
Semplificare non significa appiattire la lingua. Certo, Giunta afferma fin dall’inizio che bisogna impegnarsi, che si stia scrivendo un messaggio Whatsapp o una tesi di laurea, ma la teoria convince meno quando viene messa in pratica: le riscritture portano, come risultato finale, a frasi piatte e poco piacevoli.
Ricordiamo che la burocrazia e la giurisprudenza richiedono un lessico preciso, per cui sostituire un termine con un altro apparentemente simile può portare a un fraintendimento, o addirittura cambiare il senso di una frase. Allo stesso modo, un giornale o un’azienda non utilizza un linguaggio colloquiale.
In sintesi, Come non scrivere è una lettura divertente. Il libro si divora in una giornata e racchiude inoltre una riflessione sullo stato della lingua italiana, e sul modo per renderla più vicina e più efficace, ma i tentativi finali non convincono appieno.
Sonia Aggio