Emilio Gordillo, Chroma
(Edizioni Arcoiris, 2018; tr. L. Mari, E. Santangelo)
Santiago torna in Cile, dopo anni di volontario esilio, a prendersi cura di un padre malandato che sta per morire e che probabilmente gli lascerà in eredità soltanto i brandelli di ciò che ha posseduto e di ciò che è stato. Santiago comincia così a girare per la città, a osservare lo sfacelo politico e sociale di un paese che prometteva apertura e libertà, ottenendo invece l’ennesima dittatura.
Il lettore scopre presto come lo sfacelo politico e sociale sia il riflesso macroscopico della solitudine e delle rovine personali del protagonista. La mancanza di parole, lo svuotamento culturale dell’arte, del cinema e della letteratura – le feste borghesi cui il protagonista ogni tanto partecipa sono l’archetipo del vuoto interiore – si riflettono nella mancanza di parole del protagonista. A questa mancanza di parole, di segni, segue inevitabilmente l’incapacità di poter significare la realtà che circonda Santiago, prigioniero in una gabbia di parole e segni casuali, promesse politiche e sociali che non hanno più alcun senso. Bisogna ricostruire un linguaggio interiore, quello di Santiago, e ridare senso alle parole e alle dinamiche sociali, quelle del Cile.
Santiago non si riesce a riadattare a quella vita che ha rifuggito per tanto tempo e che adesso, per necessità, si ritrova a dover accettare. Il vuoto si percepisce palpabile in ogni pagina del romanzo, tanto che si ha quasi l’impressione che – quello di Emilio Gordillo – sia un romanzo entro il quale non accade nulla o quasi nulla. In realtà la vera potenza della narrazione consiste proprio nella descrizione di una quotidianità vuota, fatta principalmente di lunghe passeggiate e introspezione: le domande che Santiago si pone sono tutte universali, con lo sfondo di una città allo sfacelo (che è sì Santiago del Cile, ma potrebbe essere qualsiasi città).
Anche se il carattere della narrazione è marcatamente distopico – un romanzo dalle tinte fantascientifiche che richiamano, neanche tanto velatamente, quelle dell’ultimo Roberto Bolaño – ci si può accorgere presto che, sotto i pretesti allegorici e metaforici, si nasconde il presto per parlare della nostra letteratura e della nostra società reale: la vuotezza del protagonista è universale ora più che mai, così come la mancanza di significati da attribuire alle parole.
L’apparente schizofrenia della narrazione non è niente altro che l’ennesima metafora letteraria lanciata al lettore, insieme alla malattia – la schizofrenia, appunto – del padre di Santiago: la sincope che pervade il romanzo si sposa perfettamente con i singhiozzi intellettuali che fa il protagonista, passando da una domanda all’altra sull’esistenza, non sempre riuscendo a trovare risposte soddisfacenti.
Emilio Gordillo ha scritto un romanzo sudamericano per eccellenza, e lo si comprende dalle prime righe: il ritorno dello scrittore in patria è un topos tipico di questo filone letterario, come se il Sud America avesse in qualche modo fatto proprio il detto: nemo propheta in patria.
Emilio Gordillo non si è solo limitato a scrivere un romanzo perfettamente in linea con uno stile e una visione letteraria: è anche riuscito a dare una visione globale del Cile, dell’essere umano, della letteratura e di che cosa vuol dire scrivere.
Clelia Attanasio