Il Novecento è stato un secolo ricchissimo per la letteratura italiana, e se spesso lo si associa alla poesia tuttavia ha avuto, in particolare dal secondo dopoguerra in poi, una straordinaria fioritura di narrativa quale il nostro Paese forse non ha mai conosciuto prima.
Avere una idea definita del romanzo del ‘900 non è cosa facile, sia per il breve tempo trascorso, che rende difficile il distacco critico, sia per la mole di libri prodotti dal sistema editoriale e letterario, che nella seconda metà del secolo è andato massificandosi.
Poiché viene a mancare, in questa fitta boscaglia di libri, un canone ben definito di classici, il lettore si ritroverà certo spaesato ma anche, tutto sommato, più libero di cogliere gli imprevisti lungo il sentiero. Uno di questi imprevisti, almeno per me, è stato Pier Vittorio Tondelli.
Tondelli è sicuramente un autore poco noto e ancor meno canonico, per una serie di ragioni. Anzitutto per la sua vita davvero troppo breve, stroncata a trentasei anni (nel 1991) dall’AIDS. In secondo luogo perché la sua identificazione come simbolo di un segmento molto preciso della società e della storia italiana, la “gioventù bruciata” degli anni ’80; morto Tondelli, non sono stati in molti a rileggerlo negli anni successivi: si trattava forse di un autore così strettamente connesso con la sua generazione anti-ideologica da esser recepito come “ideologico”. In terzo luogo, perché autore urticante: il suo primo libro, Altri libertini, gli costò un processo per oscenità.
Dunque, un Tondelli «scrittore giovane»[1] di quei giovani degli anni ’80 immersi nella droga, nell’alcol, nella più assoluta libertà sessuale; se poi si aggiunge che l’omosessualità è una condizione rivendicata con forza da moltissimi dei suoi personaggi, si comprendono facilmente le ragioni della sua fortuna quantomeno tiepida.
Oggi, ormai a quasi trent’anni di distanza dalla sua morte, forse è diventato possibile leggere i suoi libri con occhio non inquinato dai pregiudizi tipici della più ribollente attualità: lungi da essere soltanto il cantore di un decennio, Tondelli è un autore che ha davvero qualcosa da dire.
Questo pezzo non vuole essere un contributo critico alla rivalutazione di Tondelli, quanto un più modesto invito alla lettura; diamo dunque un “assaggio” al suo primo libro, Altri libertini, e in particolare al racconto Autobahn. Uscita nel 1980, è una raccolta molto coesa di sei racconti: i personaggi hanno tutti tra i venti e i trent’anni, vivono sulla loro pelle passioni brucianti, girano il mondo, fumano, si drogano, fanno all’amore. Autobahn è l’ultimo di questi racconti e ha una trama che può essere riassunta in pochissime parole: il protagonista sente una profonda inquietudine; per liberarsene si mette in viaggio sull’autostrada che da Carpi porta fino al Brennero e potenzialmente fino a Amsterdam. Un’autostrada, non a caso indicata in tedesco nel titolo (Autobahn), che è dunque una via di fuga dai limiti geografici ed esistenziali della realtà di provincia in cui il protagonista è cresciuto.
A Tondelli piacevano trame così scarne; lanciando un progetto per la promozione di giovani scrittori (Progetto Under 25) dava consigli ai partecipanti su come scrivere e cosa scrivere:
Scrivete non di ogni cosa che volete, ma di quello che fate. Astenetevi dai giudizi sul mondo in generale […] piuttosto raccontate storie che si possano riassumere oralmente in cinque minuti. Raccontate i vostri viaggi, le persone che avete incontrato all’estero, descrivete di chi vi siete innamorati […]. Raccontate di voi, dei vostri amici, delle vostre stanze, degli zaini, dell’università [2]
A dispetto della semplicità della storia, Autobahn, come tutti i racconti di Altri libertini, ha un piglio narrativo fortissimo e trascinante; ecco l’inizio del racconto:
Lacrime lacrime non ce n’è mai abbastanza quando vien su la scoglionatura, inutile dire cuore mio spaccati a mezzo come un uovo e manda via il vischioso male, quando ti prende lei la bestia non c’è da fare proprio nulla solo stare ad aspettare un giorno appresso all’altro. E quando viene comincia ad attaccarti la bassa pancia, quindi sale su allo stomaco […] e dopo diventa ansia che è come un sospiro trattenuto che dice vengo su eppoi non viene mai. […] Si porta appresso nevralgie d’ossa, brufoletti sulle labbra o nel fondoschiena ma i più gravi mali, quelli della vocina; cioè chi sei? cosa fai? qual è il tuo posto nel Gran Trojaio?[3]
Dante e Petrarca la chiamano “accidia”, Baudeleire “spleen”, Montale “male di vivere”, Gadda “male oscuro”; Tondelli non ci gira intorno: quando ti prende la “scoglionatura” c’è poco da scherzare. Ad un certo punto, però, ecco un’ancora di salvezza: nel bel mezzo della pianura padana, vicino Carpi, il protagonista sente nell’aria un odore, anche se non sono i montaliani limoni:
Ma ci sono notti o pomeriggi o albe e anco tramonti […] che succede il Gran Miracolo, cioè arriva […] l’odore del Mare del Nord che spazza le strade e la campagna e quando arriva senti proprio dentro la salsedine delle burrasche e dell’oceano e persino il rauco gridolino dei gabbiani e lo sferragliare dei docks e dei cantieri e il puzzo sottile delle alghe[4].
L’odore del Mare del Nord è un odore di libertà, ed è ciò che mette in moto il viaggio in autostrada e dunque il racconto; alla fine della storia, il narratore vuol dare la sua morale al lettore: che ciascuno trovi il suo “odore”, non importa «se sarà di sabbia del deserto o di montagne rocciose, […] delle bettole di Marrakesh o delle fumerie di Istanbul», quel che importa è che sia capace di imprimere un movimento, di spingere al viaggio e all’avventura.
Già le poche citazioni qui riportate mostrano un modo di scrivere piuttosto inconsueto; in Tondelli lo stile è questione centrale, ed è ciò che lo rende non un semplice cantore della propria epoca ma un autore degno di essere ricordato. Prendiamo un esempio significativo, e piuttosto divertente, che mostra bene come scrive Tondelli. Il protagonista durante una sosta in autogrill ha la visione di una bella bambina che lo invita a tornare a casa, a non continuare il viaggio verso nord: lui la lascia lì e riparte, ma la «vocina» della sua coscienza non è tanto d’accordo:
Però mentre corro di nuovo sulla strada la vocina dentro dice facevi bene a fermarti con la bellina, dove vai? chi sei? Piantala piantala vocina del cazzo, coscienza inquieta dei miei stivalacci sdruciti, fanculo te che se non taci ti porto dritta dritta da uno junghiano e poi me la racconti se parli lunga e distesa sul sofà. Tante minacce, la vocina tace e s’assopisce nella cuccia [5]
La prima cosa che salta all’occhio sono le parolacce, ed infatti per l’altissima frequenza di scurrilità e bestemmie in Altri libertini Tondelli fu processato per oscenità (e poi assolto); ma la caratteristica più importante è il fatto che qui sembra di essere davanti a una sorta di monologo teatrale: il narratore è come un attore su un palco che dice non solo le sue battute del copione, ma anche quelle degli altri, senza preoccuparsi di distinguere le une dalle altre. È poi interessante come vengono costruiti i periodi: possono essere anche molto lunghi, ma con pochissime frasi subordinate: si tratta di una costruzione per accumulo di molte coordinante una dietro l’altra, come faremmo nel linguaggio parlato. Ogni parola che leggiamo di questo libro infatti sembra essere stata appena pronunciata o recitata.
Se questo modo di scrivere assomiglia molto al linguaggio parlato, tuttavia non è il linguaggio parlato, è una sua reinvenzione letteraria, raggiunta con l’applicazione di una tecnica precisa: Tondelli lo chiama «il sound del linguaggio parlato» cioè un ritmo, una musica. Provate a fare un confronto con delle vere, e noiosissime, trascrizioni di linguaggio parlato, la differenza è abissale.
Ma perché scrivere così? Ecco dunque che raggiungiamo il “midollo del leone”, il punto centrale della poetica di Tondelli: l’emotività, vale a dire la ricerca di un fortissimo coinvolgimento psicologico del lettore:
La mia letteratura è emotiva, le mie storie sono emotive; l’unico spazio che ha il testo per durare è quello emozionale. […] Dopo due righe, il lettore deve essere schiavizzato, incapace di liberarsi dalla pagina; deve trovarsi coinvolto fino al parossismo, deve sudare e prendere a cazzotti, e ridere, e guaire, e provare estremo godimento. Questa è letteratura.[6]
In Altri libertini tutto tende a questo obbiettivo: le forti passioni dei personaggi, che non a caso sono tutti giovani; un uso mimetico ed espressionistico del linguaggio che prevede bestemmie, scurrilità, ma anche parole colte e usi dialettali; un narratore ingombrante che dice sempre “io” e che si rivolge spesso al lettore.
Queste caratteristiche rendono Tondelli una lettura appassionante, divertente e di grande soddisfazione: ciò che più colpisce è una raffinatissima ricerca stilistica e formale in senso espressionistico e plurilinguistico, che tuttavia non scalfisce minimamente, anzi rafforza, il piacere e il gusto del testo. Nella nostra contemporaneità assistiamo ogni giorno a un uso subdolo della lingua, a livello politico e giornalistico, che fa leva sulla pancia delle persone; in un simile contesto, leggere un autore che fa dell’emotività il suo obbiettivo conclamato può essere una notevole lezione di consapevolezza per chi legge e di onestà per chi scrive.
Adriano Cecconi
[1] R. Carnero, Lo scrittore giovane. Pier Vittorio Tondelli e la nuova narrativa degli anni italiana, Firenze, Giunti, 2017.
[2] P.V. Tondelli, Un weekend postmoderno. Cronache dagli anni 80, Milano, Bompiani, 1993, p. 328.
[3] P. V. Tondelli, Autobahn, in Altri libertini, Milano, Feltrinelli, 2018, p. 177-178.
[4] Ivi, p. 181.
[5] Ivi, p. 186
[6] P. V. Tondelli, L’abbandono. Racconti dagli anni Ottanta, a c. di F. Panzeri, Milano, Bompiani, 1993, p. 7.
Autore interessante… grazie per la recensione che me lo ha fatto conoscere un po’ meglio
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