Complotti, fascismo e terrore: intervista a Raffaele Alberto Ventura

Dopo il grande successo del 2017 di Teoria della classe disagiata (minimum fax), torna in libreria Raffaele Alberto Ventura con La guerra di tutti. Populismo, terrore e crisi della società liberale (minimum fax). Un libro capace di affrontare tutta la complessità della nostra contemporaneità attraverso un discorso universalmente comprensibile, che mantiene il rigore tipico del saggio ma lo coniuga con una narrazione leggibile come un romanzo. I temi affrontati sono molteplici: cospirazionismo, populismo, terrorismo, il fascismo in Italia e molto altro.

L’originalità dell’approccio di Ventura sta soprattutto in due elementi: nel saper spaziare attraverso le discipline – dalla filosofia all’antropologia, dall’economia al diritto, dalla sociologia alla scienza politica, passando per la semiotica e la comunicazione, al punto da dare un’infinità di spunti di riflessione – e nell’affrontare queste discipline non con la rigidità accademica, bensì in una chiave che potremmo definire, con il dovuto riguardo, “pop”. Per intenderci: ai riferimenti ad Aristotele si affiancano quelli a Civil War della Marvel; alle teorie di Foucault la musica rap o Rihanna; Tom e Gerry sono letti attraverso una prospettiva hobbesiana; V per vendetta e zio Paperone spiegano il grillismo. Se state storcendo il naso, vi dico solo: fidatevi.

Ho incontrato Ventura e abbiamo conversato sui tanti temi del suo ultimo libro. Ne è emersa una lunga e dettagliata intervista. Come vedrete è divisa in quattro capitoli tematici, seguiti da due epiloghi, cosicché, all’occorrenza, possiate scorrerla in ordine sparso per leggere l’argomento che più vi interessa.

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CAPITOLO 1.
COMPLOTTISTI E PARANOICI
narrazioni alternative, fake news e droghe concettuali

 

Uno dei problemi più impellenti della nostra contemporaneità è la proliferazione di eterodossie della verità: cospirazionismo, fake news, narrazioni alternative, crisi di legittimazione dei saperi esperti. I cittadini delle società occidentali si stanno arruolando in “eserciti di paranoici”, come li definisci tu, che sospettano di tutto e sono pronti a combattere “una guerra ermeneutica”. Cosa produce e alimenta questa paranoia?

Il problema nasce da un vuoto: un’incapacità dei saperi legittimi a garantire dei risultati soddisfacenti rispetto alle stesse promesse che avevano fatto. Economia, politica, ma anche saperi universitari come la fisica e la filosofia: per legittimarsi avevano dovuto promettere quasi un paradiso in terra. L’economia, ad esempio, che tutti avrebbero partecipato alla società del benessere. Ogni élite associata a un sapere vive dei cicli di legittimazione per cui per arrivare al potere deve promettere più di quel che riesce a garantire. Adesso siamo in una fase critica perché si chiede alla società del benessere di essere all’altezza della leggenda creata su se stessa.

In questo vuoto proliferano saperi alternativi ed eterodossi, che le tecnologie sono in grado di diffondere e ampliare. Ma proliferano in maniera paradossale in quanto sono essi stessi in contrasto tra di loro, frammentati. Per cui questi saperi alternativi non riescono ad aggregare, anzi separano l’individuo, lo rendono inoperativo. Le frange più estreme vanno incontro a un processo che io nel testo chiamo di dissimilazione permanente, un processo di isolamento dalla comunità nazionale o universale. In questa fase abbiamo una guerra ermeneutica che però non arriva davvero a una vera capacità egemonica.

Dunque perché si dubita?

Si dubita nella convinzione di poter sostituire un sapere che non funziona più con uno nuovo. E così ti rivolgi anche a dei ciarlatani per riempire quel vuoto. Solo che nel momento in cui entri in quella spirale, è difficile uscirne e trovare un sapere o una adesione politica soddisfacente. Di fatto questi paradigmi sono incompleti, insoddisfacenti. Se ci fosse un paradigma solido, alternativo, oggi si saprebbe. Come quando è arrivato il marxismo. Quel sistema aveva potere di aggregazione perché solido, anzi qualcuno potrebbe dire troppo solido: è la critica di Popper al marxismo.
Oggi anche le idee sovraniste, che più delle altre hanno stabilità, si dimostrano frammentate. Non sono a prova di bomba o di governo, non sono in grado di fare egemonia nemmeno nel proprio campo. Allora in questo vuoto anche di proposte alternative, ecco che l’alternativa all’alternativa sono i margini totali, che però sono profondamente fragili, come il cospirazionismo. Nel momento in cui pensi che tutti ti mentono, allora tutto crolla. Ma tu stesso non sei rassicurato. Entrare nella spirale del cospirazionismo è come una droga che dà assuefazione, una droga concettuale profondamente destabilizzante e psicologicamente usurante.

Quindi vedi queste eterodossie comunque come qualcosa di fragile e destinato a crollare da solo o concordi nel ritenerle un pericolo sociale degno d’allarme?

Secondo me sono pericolose proprio perché fragili. Trascinare centinaia di migliaia di individui in questa situazione mentale di paranoia è pericoloso, non perché potranno realizzare quello che vogliono realizzare, dato che sono oggi inoperativi, ma perché chi dubita di tutto è spesso il più manipolabile, dato che può essere manipolato attraverso il suo stesso dubbio.
Il secondo problema sono le radicalizzazioni che possono avvenire. Nel mondo islamico per esempio il terrorismo passa da un processo di desocializzazione degli individui che si ritrovano marginalizzati: anche questa è una forma di manipolazione. La società è un meccanismo basato sulla fiducia: queste persone invece non si fidano di nulla. Si distrugge il nesso sociale, e questo vuoto è pericoloso, per le reazioni violente ma anche per le reazioni non violente: masse di persone escluse, che sono così alla deriva. Dunque è una bomba sociale pericolosa.

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CAPITOLO 2.
SOCIETÀ DEL BENESSERE E SOCIETÀ DEL TERRORE
risentimento, infelicità, lotta di classe e jihad

 

 

Nelle prime pagine del libro scrivi che viviamo in una società che deve fare i conti con il risentimento che deriva dalle promesse di benessere non mantenute. Mi veniva in mente Robert Merton che già a metà de ‘900 poneva come causa della devianza una discrasia tra le mete che la società impone o rende appetibili a tutti i cittadini e i mezzi effettivi per raggiungerle che sono resi disponibili solo ad alcuni.

Tu giustamente fai riferimento alla sociologia degli anni ’50. Io ho avuto molte rivelazioni andando a rileggere quello che si scriveva nel dopoguerra in Merton, Baudrillard, Packard. A loro bastano pochi anni per capire che quella società del benessere porta a certi problemi nuovi. Poi è bastato il ’68 a nascondere questi problemi: ci si è illusi che (anche lì come nel cospirazionismo) la distruzione di certe forme istituzionali che facevano da gabbia alla società avrebbe risolto la causa della frustrazione.
Avevano ragione in parte: molti sessantottini, si pensi a Ivan Illich e ai fondatori della decrescita, avevano intuito che c’era una gabbia ideologica, sovrastrutturale, che produceva lo scarto tra le aspettative indotte e i mezzi per raggiungerle, come diceva Merton. Quella critica del capitalismo, che venne fraintesa in gran parte, era proprio una critica alle sovrastrutture che facevano dell’homo oeconomicus un consumatore permanente. E che oggi col senno di poi ha colpito chi di quelle strutture avrebbe forse più bisogno, come gli immigrati.

Ecco, dato che ogni classe ha un diverso capitale sociale, culturale, economico, di conseguenze le classi che non sono fornite dei mezzi per raggiungere le mete agognate sviluppano un risentimento che nella società di oggi è forse più visibile che mai: il benessere oggi è tanto spettacolarizzato quanto sperequato, tanto promesso quanto negato. È questa la chiave per comprendere quei migranti di seconda generazione che abbracciano le cause jihadiste nelle periferie europee?

Nell’Islam hai un conflitto di fondo tra le strutture regolative tradizionali e i vari modi in cui sono state distrutte dalla modernizzazione e dall’assimilazione forzata. Per cui hai un contrasto tra l’islam dei padri che ha sempre meno presa e la reislamizzazione artificiale molto moderna che è quella nei casi più estremi del terrorismo, nei casi più intermedi dell’islam politico. Questi ragazzi a cui fai riferimento si trovano da una parte una società che gli promette integrazione, lavoro e benessere ma che non è in grado di garantirglieli e dall’altra un Islam dei padri che sembra troppo antico per rispondere ai loro bisogni. Per cui hanno la tentazione – comunque marginale – di una terza via, come la jihad.

Un analogo problema è quello del riconoscimento. Questi frammenti di società esperiscono più di altri un bisogno di essere riconosciuti. Tu dici che “la lotta per il riconoscimento è planetaria, e chi si percepisce perdente in questa lotta cova un profondo risentimento”.

Sì, perché viviamo in una società che basa tutto sul riconoscimento: l’accesso al mondo del lavoro, alla socialità, alla sessualità, tutto passa dal riconoscimento. È una società che funziona secondo meccanismi borghesi, per questo io nella Teoria della classe disagiata facevo costanti analogie alla società di corte, perché le dinamiche sono le stesse: lo scambio di capitale simbolico, la reputazione come mezzo di accesso al lavoro, ecc. Quindi funzioniamo secondo dinamiche borghesi che scavano ancor più in profondità gli scarti tra chi può accedere al riconoscimento e chi no, e creano un’insoddisfazione non solo perenne, ma strutturale, logicamente legata alle condizioni stesse di produzione. Se una soluzione esiste non passa dall’economia. L’unica soluzione è sempre quella culturale, ed è per questo che il ragazzo islamico si rivolge alla sua cultura, perché sa che è lì che si trova una risposta: nel disattivare certi meccanismi sociali tipici della società borghese.

Ecco, tu parlavi di insoddisfazione perenne e strutturale. Il tema dell’infelicità si ricollega ad altri due elementi: da una parte le ambizioni,  che tu suggerisci direttamente correlati all’infelicità; dall’altra l’avvento di nuovi bisogni sociali, quelli che Inglehart direbbe postmaterialistici e che tu chiami posizionali, perché, affinché uno ne goda, gli altri ne devono essere privati, al punto che questo provoca un’infelicità costante.
Stando dunque le cause dell’insoddisfazione a un livello così strutturale, ne discende allora che l’infelicità è un elemento inalienabile dalla nostra società?

Sì, diciamo che sicuramente c’è questo aspetto. Girard ad esempio dice che il desiderio mimetico è strutturale alla società umana. È quindi vero che c’è un dato antropologico di base fondamentale, il quale però può essere accelerato o rallentato, tenuto sotto controllo di più o di meno. Ad esempio le religioni e i miti secondo Girard tengono sotto controllo questa tendenza all’infelicità, al bisogno di riconoscimento. Di contro la nostra società ha capito che c’era una miniera di insoddisfazione nell’uomo da cui estrarre domanda per il mercato e l’ha alimentata sempre di più. Questa è una tesi fondamentale di Teoria della classe disagiata.
Credo che effettivamente oggi la questione sia chiedersi in che modo e in che misura siano esistite ed esistano dispositivi culturali in grado di tenere sotto controllo il desiderio di status, di riconoscimento. E si tratta di ricostruire questi meccanismi e capire come farli di nuovo funzionare. Certo è che c’è un conflitto di fondo tra ciò che il capitalismo chiede alla società per funzionare, alle persone per trovare lavoro o per trovare un partner e quello che l’individuo sente sempre di più come uno stato di equilibrio, vale a dire il rifiuto del consumo.

Quanto effettivamente il miraggio di una decrescita felice può rappresentare una soluzione concreta a questo stato?

La gente è pronta ad andare in piazza, a dire vogliamo più ecologia, vogliamo tornare ai valori tradizionali. Poi però i comportamenti vanno in senso opposto, e quando anche le risposte politiche vanno nella direzione della decrescita, la gente non pensa più: stiamo andando verso un mondo più verde; ma: mi stanno togliendo delle cose. Quindi la domanda politica va in un’altra direzione rispetto alla decrescita. Un secondo problema è che viviamo insieme ad altre comunità, che rappresentano delle minacce. Se un paese dovesse tornare a uno stato primitivo – cosa che comunque non ritengo possibile – si ritroverebbe un altro paese che lo bombarda perché interessato alle sue materie prime.

Queste sono le due ragioni per cui non ci sono oggi le condizioni per una decrescita. Detto questo credo siamo arrivati a un punto talmente alto di disfunzionalità e di difetto economico delle nostre società per cui ci sarebbero mille situazioni intermedie più accettabili. Ci sarebbero riflessioni da fare piuttosto su una spending-review culturale e non civilizzazionale, rispetto a quanto ci facciamo del male per niente. Certo è che restano delle contraddizioni insanabili nella società industriale, che in ultima analisi sono legate alla divisione del lavoro e al risentimento e poi la violenza che essa produce. Magari, però, riflettendo riflettendo, tra poco un nuovo Marx arriva. Non sarò io, ma non dispero.

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Murales di Banksy

 


CAPITOLO 3.

POPULISMO E FASCISMO, OVVERO LINGUAGGIO E COMUNICAZIONE
dalle responsabilità di Salvini a quelle degli intellettuali

 

 

Sollevi il tema della capacità dei segni e delle parole di indurre all’azione. Quando parliamo di comunicazione e azione, inevitabilmente finiamo a parlare di populismo.  Affrontare il tema del populismo è anzitutto affrontare il tema del linguaggio.
A un certo punto tu parli della vicenda di Traini e di come nessuno avesse capito quello che stava per compiere nonostante lui lo avesse pubblicamente annunciato. E scrivi: «forse perché a forza d’iperboli, di paradossi e d’ironie il linguaggio di molti militanti leghisti normali era diventato indistinguibile da quello di uno che tiene una calibro .9 nel cruscotto della macchina ed è pronto a impugnarla per davvero.
»

Di fronte a casi di questo tipo, il politico dice, anche legittimamente, che non può conoscere tutti i propri iscritti, che ha il diritto di esprimere le proprie idee sull’immigrazione e che se poi qualcuno passa all’atto pratico non è una sua responsabilità. Effettivamente dice queste cose a milioni di persone e solo uno ha compiuto un gesto così, quindi effettivamente non c’è un rapporto di causa-effetto credibile. Però un partito che alimenta questo tipo di dibattito sta comunque giocando col fuoco. Se tu fai tutte queste cose, problematizzi certe paure e consideri legittimo nella dialettica politica dare voce a un certo malessere, e sei il capo di un partito, allora sei responsabile, non nel senso di causa, ma nel senso che dovrai occupartene.

In questo senso Salvini deve essere responsabile di quello che succede nel partito e in relazione a quello che dice, perché nella percezione che tutti noi ci facciamo della società e che struttura le relazioni, i suoi segni e le sue parole verranno visti da qualcuno come collegati a certe azioni. Così facendo si trasformano in bersagli coloro che vengono considerati causa di una certa violenza, a prescindere se la causa ci sia o non ci sia. C’è un’igiene simbolica da mantenere per ricondurre tutto il dibattito pubblico a una dimensione non incontrollabile. L’ultimo esempio è quello dell’uomo che ha dirottato il pullman con i bambini a Milano. Lui ha dichiarato di averlo fatto ‘perché voi avete fatto morire i miei fratelli nel Mediterraneo’. Qualcuno che fa del male lo fa perché ha individuato un rapporto causa-effetto. Vuole dire che il male nasce sempre da proiezioni simboliche. Per questo i segni sono fondamentali.

Il problema del linguaggio ci porta a parlare del ritorno del fascismo.
C’è un passaggio molto interessante del libro a questo proposito, in cui punti l’indice nei confronti degli intellettuali impegnati in una sorta di caccia alle streghe nere. Scrivi infatti: «quando finalmente l’intellettuale impegnato ha dimostrato indubitabilmente che sono tutti fascisti, proprio allora i fascisti possono definitivamente mimetizzarsi nella folla».

C’è un’inflazione del linguaggio a tutti i livelli: linguaggio della violenza, della xenofobia, della denuncia politica. Il problema per me molto centrale è quello delle tante zone grigie che vanno dall’estremista al moderato. Ti faccio un esempio: sai che c’è il dibattito in seno alle femministe sulla questione dell’utero in affitto, tra chi è favorevole e chi contraria. Nel dibattito, penso alla polemica contro ArciLesbica, le femministe contrarie all’utero in affitto sono state accusate da alcuni di fascismo. Questo crea una zona grigia del fascismo che va dal dottor Mengele alla lesbica contraria all’utero in affitto.

Nel momento in cui assimili queste due cose, a un certo livello di semplificazione o malafede, ottieni un campo politico totalmente illeggibile in cui il fascismo finisce per prevalere. Questo perché il fascista viene relativizzato con la formula “ah sono tutti fascisti”, al punto che è stato totalmente svuotato il linguaggio. Il termine fascista è stato così tanto inflazionato da produrre una confusione tale per cui se tu oggi indichi il vero fascismo e ad esempio dici “ah ho visto uno con la celtica tatuata, che picchiava un immigrato e gridava viva Mussolini, era un fascista”, trovi qualcuno che ti dice “ah ma tu sei ossessionato dai fascisti, sei un perbenista di sinistra”.

Uno dei pilastri del populismo è attribuire a un out-group un pericolo da debellare. Quando però i populisti passano dall’opposizione al governo, diventano i garanti della sicurezza pubblica. Allora se un Ministro degli Interni continua a propagandare un pericolo non ancora arginato, sta ammettendo che non è capace di assolvere al suo ruolo. Eppure più dimostra inefficienza, più ottiene la fiducia dal popolo. È effettivamente un paradosso in seno ai partiti populisti oppure una condizione che li condannerà a un’inevitabile crisi di legittimità?

La cosa interessante con cui confrontare quello che sta succedendo è il periodo di Berlusconi, che ha governato per vent’anni sventolando dei nemici, in particolare la magistratura. In realtà è riuscito a rialimentare continuamente il suo potere anche perché aveva costruito una specie di dialettica per cui giustizialismo e berlusconismo si alimentavano a vicenda. Io credo che sulla carta, in un modello statico, si arriverà al punto in cui ci si accorge che il populista non riesce a mantenere ciò che promette e per questo dovrebbe essere espulso dal sistema. Mentre in un modello dinamico il populista riesce sempre a rialimentare le cause della propria esistenza, a maggior ragione se non risolve il problema, scaricando la causa del problema su qualcos’altro.

Detto in altri termini, quindi, dopo vent’anni di berlusconismo avremo vent’anni di salvinismo?

Nel momento in cui esiste sempre un ostacolo, un nemico presente, si può continuamente ricostituire quel gioco delle parti. Le condizioni perché Salvini resti anche vent’anni ci sono. Se se la gioca bene può sempre spostare il problema e rilegittimarsi.
La dialettica oggi è Salvini contro il potere esterno, l’Europa. Per fortuna o purtroppo l’Italia ha delle vere scadenze che non dipendono dalla politica e la situazione può degenerare in qualche modo, come per il rischio di una sbandata fuori dall’euro. Io credo che con l’euro il governo stia cercando di fare una curva a velocità altissima e se gli va bene avrà fatto la curva velocissimo, se gli va male finirà fuori strada giù dal dirupo.

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CAPITOLO 4.
IL TEATRO DELLA RIVOLTA
violenza, dissenso mediatico e rivoluzione simulata

 

Nella società che abbiamo descritto finora, una rivolta resta possibile? Il dissenso si è sposato da una piazza fisica a un’agorà mediatica, e la rivoluzione, tu dici, va in contro a una gamefication: la rivoluzione intesa come una simulazione da videogiochi.

Io ho l’impressione che i margini sono molto limitati un po’ perché c’è un ripiego in questa dimensione di puro gioco, un po’ perché mancano le istanze, le idee efficaci. Per me il punto centrale è che la dissoluzione dell’ordine capitalista-imperialista occidentale è più o meno definitiva. Per cui non c’è un margine da recuperare, se non, per chi se lo può permettere – non credo l’Italia, magari gli USA –, ricorrere a una enorme dose di violenza e riconquistare quel benessere al costo di un conflitto armato. Quindi da questo punto di vista non vedo nessuna possibilità di una vera rivoluzione che possa risolvere il problema. Ci sono sicuramente dei modi di affrontarle il problema in maniera meno distruttiva, però le soluzioni al ribasso non hanno appeal ideologico, e in assenza di appeal non saranno mai egemoniche. Di contro c’è lo spazio per la costruzione di un cantiere di riforma culturale per ripensare una società all’altezza delle trasformazioni politiche economiche che vengono. Un cantiere che però resta marginale. Mi sembra infatti che stiamo andando verso una direzione opposta.

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EPILOGHI
UNO PESSIMISTA, L’ALTRO PIÙ OTTIMISTA

 

E allora per concludere: verso quale futuro sta dunque andando la società liberale?

Io credo che le cose che propongo nel libro come pars construens siano inesorabili. Quindi in qualche modo si arriverà a delle soluzioni intermedie.
O ci condanniamo a una tensione interetnica e in generale intersociale insostenibile per l’ordine sociale, quindi a una crescita della violenza sempre maggiore e a una limitazione sempre maggiore delle libertà di movimento, di espressione, ecc.
Oppure in qualche modo riusciamo ad arrenderci al fatto che quella violenza dev’essere in qualche modo neutralizzata, e quindi forse in quest’ottica più ottimistica a medio-lungo termine riusciremo a ripensare la convivenza evacuando una parte di questa violenza che sta diventando insostenibile.

Intervista di Giuseppe Rizzi


NOTE
– La foto di Ventura è pubblicata con il consenso dell’autore
– Con l’eccezione dell’opera di Banksy, le altre immagini presenti nell’articolo provengono dal portale di royalty-free-images Pixabay

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