Fermarsi e ascoltare il sussurro del mondo

Il sussurro del mondo, Richard Powers
(La Nave di Teseo, 2019 – Trad. di L. Vighi)

Schermata-2019-05-21-alle-11.06.36A diciassette anni ho letto i primi libri adulti. Tornavo a casa da scuola, mi chiudevo in camera e mi dividevo tra Cent’anni di solitudine e Erri de Luca, tra Camus e Il gabbiano Jonathan Livingston. Senza fare troppe distinzioni. Era l’inizio: quella fase in cui cominci a essere un lettore forte, in cui ti abbuffi senza criterio e poni le basi del lettore futuro. Da allora il sapore di un paio di storie che hai amato, anche senza averle capite, lo cercherai in tutte le altre storie, trovandolo quasi mai. È stato in quel periodo che mi sono imbattuto per la prima volta in Cecità di José Saramago. Che non sarà al centro di questa recensione: tranquilli, non siete nel posto sbagliato.

Ciò che mi ha colpito in Cecità era la forza impetuosa della voce, il massimalismo della lingua, il minimalismo delle figure. Soprattutto, la corporeità: c’era, in quel libro – e, avrei scoperto, in tutti i libri di Saramago – una incredibile e inimitata attenzione all’uomo, alla vita materiale. Alle puzze, alle esigenze basse del corpo, al mangiare, al sesso. Idee, ideologie: poche. Tanti corpi. Nel mio cervello di diciassettenne brufoloso si è mosso qualcosa: da quel momento, mi ricordo, ho deciso con una certa solennità di definirmi materialista, convinto che fosse un concetto positivo, che avesse a che fare essenzialmente con la centralità dell’uomo, comunque la si dovesse intendere (la mia filosofia era approssimativa: aveva il limite della mia età). Nasceva in me una specie di umanesimo.

Anni dopo ho imparato a differenziare. Adesso leggo con più ordine, un libro per volta, sottolineo con la matita: il lettore che sono diventato. A un certo punto della mia età adulta apro Il sussurro del mondo, motivato solo dalla vittoria del Pulitzer. Leggo le prime duecento pagine e inizio a trascurare gli esami dell’università. Faccio le notti. Ogni volta che lo chiudo e lo metto da parte provo una sensazione che non riesco a identificare. Continuo a leggere. Finisco il libro in una settimana. Solo alla fine, capisco. Eccolo, il sapore: è Saramago che mi chiama dal mio passato di aspirante libromane, che mi mette in guardia. Non ho bisogno di ragionarci troppo: ho appena finito di amare il primo libro non-umanista della mia vita.

Se ha qualche valore la pratica di mettere etichette ai libri che leggiamo, allora su Il sussurro del mondo possiamo mettere questa: che è un libro post-umanista, o forse pre-umanista, e comunque senza alcun dubbio non-umanista. Nel senso che è uno di quei pochi libri in cui le vicende degli uomini contano poco e niente, si intrecciano intorno a un cuore estraneo, un nucleo fatto di corteccia, foglie, rami, radici. Qui l’attenzione non è centrata sull’esperienza degli uomini, che pure compare, rappresentata con rara sensibilità – lo sguardo è più ampio, si sofferma sulla natura intera; raccoglie l’uomo in via incidentale, solo perché ne fa parte.

Segnato come sono dall’esperienza di Saramago, non avevo immaginato che una letteratura di questo tipo fosse possibile. Che ce ne frega degli alberi? Certo, sono importanti, ma siamo più importanti noi. È più urgente una storia di dolore umano, di quella di una foresta. Richard Powers arriva dopo anni di incuria, con il suo sguardo severo mi fa notare che oltre il novanta percento delle foreste vergini in America è stato abbattuto. Che gli alberi hanno i loro modi per comunicare, che sono degli esseri viventi e forse meritano dei diritti. Che, soprattutto, abbiamo dimenticato cosa si prova a camminare in mezzo ai boschi, facendo attenzione per una volta alla voce del mondo, alle sue mille articolazioni; abbiamo dimenticato che nel pianeta in cui viviamo ci sono infinite cose da conoscere, a parte noi.

Persino la struttura, in questo libro, è organizzata prendendo a modello un albero. Quattro parti: Radici, Tronco, Chioma, Semi, di cui la più interessante è certamente la prima – nove storie separate, nove vite che si susseguono come in una raccolta di racconti, senza incontrarsi per le prime duecento pagine. Come delle radici, appunto. Ognuna di queste storie ha qualcosa a che vedere con gli alberi: dai personaggi che decidono di studiarli da vicino a quelli che semplicemente una volta vi inciampano. È questo il filo rosso che li lega, almeno per un po’, e che poi nella parte di mezzo e più verso la fine sfocia in una vera e propria guerra ecologista che coinvolge una buona parte di loro, e in certi casi li conduce alla morte.

È un libro amplissimo, pieno di sfumature, con il ritmo di una serie tv. Ho amato la cura delle ricerche e soprattutto la capacità di Richard Powers di giocare con il tempo, di andare avanti e indietro, di velocizzare e rallentare quando gli pare. Mi è parso che in questo romanzo, al di là del contenuto morale, ci fosse un notevole compendio di ciò che di meglio la narrativa letteraria, fino al 2019, è stata in grado di fare. L’unico aspetto negativo è una specie di sospensione che si trova nel mezzo: una parte un po’ noiosa, che si fa leggere con il pilota automatico. Una ragione della noia è questa: che le nove linee narrative non sempre sono impeccabili dal punto di vista drammaturgico (ma gliene puoi fare una colpa?).

L’altra ragione me l’ha suggerita Saramago. Il fatto è che tutto il libro è trascinato in avanti da un motore ideologico: ciò che spinge i personaggi a fare quello che fanno è questa passione ecologista. Per dirla con un esempio, se un ultimo saluto a una madre morta è una scena potente, un ultimo saluto a un albero tagliato è una scena potente neanche la metà. Non siamo abituati a empatizzare con gli alberi, questo è il punto; non riusciamo a farci coinvolgere. Per me è stato così, e pensandoci mi sento in colpa. Da chi dipende? Da noi, ça va sans dire. Dovremmo cercare di de-umanizzarci, anche se fa strano dirlo di questi tempi. Dovremmo scansarci dal centro del mondo. È complicato. Forse un giorno impareremo.

Pierpaolo Moscatello

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