“Il gioco di Santa Oca”, un romanzo a tasselli

Il gioco di Santa Oca, Laura Pariani
(La nave di Teseo, 2019)

 

coverLo scorso 31 maggio, Il gioco di Santa Oca è diventato il primo dei cinque finalisti della 57° edizione del Premio Campiello. Colpiscono subito i colori densi e compatti, il taglio moderno della copertina rispetto al contenuto, che s’indovina subito diverso.
Fin dalla sinossi si intuisce il doppio sviluppo della trama: una linea segue, nell’autunno del 1652, l’avventura di un gruppo di ribelli – briganti, disperati – guidati dal rivoluzionario Bonaventura Mangiaterra; un’altra segue, vent’anni dopo, le peregrinazioni della calcante Pùlvara per quelle stesse terre.
Il romanzo procede dunque lungo due vie, alternando i capitoli su Bonaventura e su Pùlvara, distinti anche stilisticamente.

I primi, che seguono quasi giorno per giorno l’evoluzione della banda di Mangiaterra e il suo declino, sono composti da una pluralità di voci che compongono un dossier di testimonianze – l’impressione è rafforzata dall’indicazione precisa della data, del nome del testimone e della sua professione.
Questa scelta fa sì che la trama si delinei un pezzetto alla volta, tramite scarti nel passato e nel futuro. Il lettore deve dunque unire i pezzi per conto suo.

Filo conduttore di questa narrazione è il personaggio di Giosafatte Vulpe, incaricato di trovare e disperdere i ribelli, la cui indagine lo porta a interrogare contadini, ostesse, amici d’infanzia del mitico Bonaventura. Si forma così il ritratto di un capobanda leggendario, ma si assiste, allo stesso tempo, al funzionamento di una società ancora profondamente iniqua, alla vita di un territorio piagato dalle carestie, dalle paludi, ma anche dalle pestilenze, dalle scorribande dei soldati – imperiali, spagnoli, francesi.

I capitoli dedicati a Pùlvara, invece, sono lineari. La donna, ormai vecchia, attraversa la brughiera lombarda per chiudere i conti con il passato. Le tappe del suo viaggio sono scandite dalle tessere del gioco di Santa Oca – in cui riconosciamo, ovviamente, il nostro gioco dell’oca. Ci sono invece estranee le implicazioni cosmologiche e profetiche del gioco, le simbologie che vi stanno dietro. Se l’avventura di Mangiaterra ha un sapore a metà tra l’avventura e il thriller, il viaggio stanco di Pùlvara rappresenta un’esegesi, una spiegazione sulle forze che governano l’universo e le vite umane.
Nonostante si svolga vent’anni dopo la fine di Bonaventura, la storia di Pùlvara non ne svela – non subito – il finale, offuscato, mascherato dalle reticenze, dai rimorsi della protagonista.

Il tratto più caratteristico de Il gioco di Santa Oca è senza dubbio la lingua. I dialoghi sono spesso in dialetto, ma i lombardismi punteggiano anche la narrazione. L’impressione iniziale è di avere di fronte una cronaca dell’epoca; solo più tardi ci si rende conto dell’inequivocabile modernità della lingua. In questo modo la lettura è forse più lenta, ma la lingua non arriva al punto di ostacolare la comprensione del testo.
La scelta dell’autrice è senza dubbio felice: nei capitoli dedicati a Bonaventura, il dialetto delinea meglio i rapporti tra i personaggi – chi parla italiano, chi non conosce altro che il dialetto orale – e rende la narrazione più ricca e colorita; nei capitoli dedicati a Pùlvara abbiamo una commistione tra italiano e dialetto e tra terza e prima persona che ci portano ad aderire meglio alla mentalità della protagonista.

In conclusione, Il gioco di Santa Oca è un romanzo breve, ma decisamente gradevole, originale nell’impianto e nella trama che vira dal sociale al sovrannaturale – che si impone senza chiasso, appare e scompare come le creature della palude spesso nominate nel libro.
È stato un piacere leggere un romanzo capace di coniugare due dimensioni, al punto da non poter dire con certezza se si tratti di una storia totalmente realistica, se le apparizioni e le maledizioni e i presagi siano veri o semplice suggestione.

Sonia Aggio

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