Almarina – Valeria Parrella
(Einaudi 2019)

C’è una specie di stortura quando ci si ritrova a leggere di qualcosa di estremamente lontano da noi: qualcosa che sappiamo esistere ma che non riconosciamo perché è sempre stata nascosta, invisibile alla nostra esperienza quotidiana. Poi questa cosa ci viene spiattellata in faccia – in un romanzo, in tal caso – e la stortura si percepisce forte. Perché ne sentiamo parlare, o anche, perché ne sentiamo parlare solo adesso, e per di più in modo così delicato e naturale, come fosse una cosa sempre esistita? La risposta è semplice: perché è sempre esistita.
Sentir parlare di detenzione minorile, su di me, ha fatto questo effetto. Nisida è a poco più di un’ora di macchina da casa mia (vivo nella stessa città che è stata anche la città della gioventù della Parrella), eppure il mio pensiero non vola mai verso quella parte del mare. Vado a Napoli e quello che vedo è la maestosità della città e della sua capacità di essere una donna bella e deturpata, ma non penso mai a Nisida. Non credo ci sia qualcuno che, pensando a Napoli, pensi a Nisida in prima istanza. Forse solo chi ha lasciato un pezzo di sè lì dentro, o chi ha ancora qualcosa a che spartire con quel luogo non-luogo.
La Parrella ci mette davanti all’evidenza che, però, Nisida è un posto dove vivono ragazzi, dove ci sono esseri umani in divenire e che – come tutti – respirano e pensano. Elisabetta Maiorano è la testimone che ci mette davanti alle vite di questi altri: quei ragazzi che non vengono mai in mente, ma che ci sono: delinquono fuori dal carcere e poi scompaiono, non sappiamo che fine fanno. Vanno a Nisida, o qualsiasi altra Nisida nel mondo.
Elisabetta Maiorano è una donna con una tragedia alle spalle che non sembra aver ancora del tutto perdonato, non ha abbandonato quel cordone ombelicale che la lega al passato. E così, cercando di sopravvivere allo sbalzo emotivo enorme che le causa il suo lavoro di maestra, cerca di fare della sua quotidianità un simbolo di ciò che è stato.
In questo romanzo, il quotidiano è la chiave interpretativa di una vita intera: attraverso gesti ricorrenti, degli orecchini in oro, un letto a due piazze e le porte del bagno sempre aperte, Elisabetta Maiorano ripercorre il suo dolore e gli conferisce dignità, grazie alla ricorsività degli eventi e alla sua incapacità di lasciare andare il dolore e far restare solo l’amore.
Almarina è una degli “altri”, una di quelle ragazze distrutte ancor prima di poter diventare donne: ha sofferto, e probabilmente soffrirà per sempre. Ma nella sua sofferenza, Elisabetta trova una somiglianza con quella ragazza interrotta, e se ne fa carico. La sua voglia di maternità, anch’essa interrotta ancor che fosse tempo, rifiorisce in questo legame così estemporaneo e forte.
Questo romanzo porta con sè non solo una bellezza estetica della parola scritta, ma anche un carico emotivo quasi palpabile: sembra di poter sentire il dolore e la speranza, di poter toccare il desiderio di maternità di Elisabetta e la purezza di Almarina. Il romanzo riesce a far capire come la maternità non si identifichi con una gravidanza e neanche con l’età anagrafica, nè con i legami di sangue: una mamma è mamma perchè sceglie l’amore, così come un padre è tale perchè sceglie l’amore.
Più di tutto, penso che questo romanzo mi abbia fatto sentire fortunata. Ripercorrendo il romanzo, ho avuto come l’istinto di fare un bilancio generale dei miei legami, delle mie fortune e delle mie sfortune. E sono arrivata alla conclusione che, probabilmente, affacciare lo sguardo verso Nisida non solo mi ha fatto ricordare che ci sono “altri” oltre le persone che vedo e che amo, ma che – dopotutto – nell’esistenza è importante solo l’amore, il resto è un accessorio di lusso.
Clelia Attanasio
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