La distopia prima della distopia: origini di un genere piuttosto in voga

Ormai le distopie sono ovunque, la letteratura ne è così satura che molti autori di romanzi inerenti al genere attribuiscono alle proprie opere tutt’altra definizione, quasi che l’etichetta di distopia fosse ormai denigrante. Ad esempio, in una recente intervista per illibrario.it, è stato chiesto ad Alessandro Bertante perché definisse utopia il suo ultimo romanzo ambientato in un futuro tutt’altro che positivo, e lui ha risposto, tra le altre cose: “perché l’immaginario distopico è oramai prevedibile e troppo abusato”[1]

In effetti Bertante non ha torto. Anche chi non è solito leggere questo genere sarebbe in grado, senza pensarci troppo, di citare subito il nome di qualche opera letteraria tra quelle pubblicate negli ultimi anni così come tra i grandi classici alla 1984, Fahrenheit 451, Arancia Meccanica, Il mondo nuovo, ecc. Con altrettanta facilità potrebbe citare film, serie-tv, graphic novel, che al pari del romanzo e del racconto sono stati penetrati dalla corrente distopica. Quel che invece è meno risaputo è quale sia l’origine del genere.

scansione-copertinaMolto spesso leggo e sento dire: “Ah, ma prima di Orwell c’è stato nientemeno un autore russo che già negli anni Venti ha scritto una distopia!” Il riferimento è a Zamjatin e al suo romanzo Noi (1924), che effettivamente ha influenzato Orwell e probabilmente anche Huxley [2], dando quindi un’impronta fondamentale al genere. Tuttavia sbaglia chi crede che Zamjatin abbia inventato ex abrupto la distopia. Nessun genere letterario, come fosse una specie animale, è il frutto di una volontà creazionistica; bensì è il risultato di incroci e contaminazioni di elementi preesistenti. Il distopico è un genere che con tutta evidenza nasce dalle ibridazioni, esattamente come Todorov definiva spurio il genere fantastico[3]: in particolare si sviluppa lungo il crinale della fantascienza e dell’utopia, tipicamente portando nella prima elementi della seconda ribaltati in negativo.

Un esempio lo troviamo nelle opere di H.G. Wells, esponente di spicco della distopia prima della distopia. Il caso de La macchina del tempo (1895) è lampante: si tratta di un romanzo di pura fantascienza che si serve dei topos del genere utopico (il viaggio, l’osservazione di una società ‘insolita’) per descrivere un “luogo negativo”. Il protagonista infatti viaggia nel futuro e trova l’umanità divisa tra Eloi e Morlock, due razze in perenne e violento conflitto tra loro. Ma non è l’unica opera di Wells che possiamo citare: come dimenticare il futuro de Il risveglio del dormiente (1898) o l’apocalittico scenario de La guerra dei mondi (1897).

Altro scrittore di riferimento, che non si penserebbe associato alla distopia, è Jules Verne, autore di famosissimi romanzi d’avventura come Ventimila leghe sotto i mari e Il giro del mondo in ottanta giorni. A fronte di opere famosissime, ce ne sono altre dell’autore francese meno note. Tra queste figurano I cinquecento milioni della Bégum (1879) e Parigi nel XX secolo (1863, inedito fino al 1994).

Il primo riprende e ribalta il topos utopico della città ideale all’interno di uno scenario fantascientifico: i due protagonisti dell’opera realizzano infatti ciascuno una propria città, l’una idilliaca, positiva, felice; l’altra militarizzata, alienante, opprimente.
Il secondo romanzo pone in essere uno scenario futuro che non è propriamente pericoloso e inospitale, anzi ricco di meraviglie e fantastiche invenzioni, ma in esso il protagonista, un poeta, prova il tipico disadattamento dei protagonisti di distopie: si pensi a Winston in 1984, a Guy in Fahrenheit 451, i quali non si sentono parte della società, integrati in essa, e sviluppano un malessere che in quest’opera di Verne condurrà il protagonista a un epilogo infelice. In questo, Parigi nel XX secolo si dimostra distopico nella misura in cui mostra come anche uno scenario apparentemente utopico può risultare invivibile ed estraniante.

Le_meraviglie_del_duemilaFa specie notare come quest’opera sia stata pubblicata per la prima volta solamente venticinque anni fa, dopo essere stata trovata per caso dai discendenti di Verne[4], poiché sono notevoli le somiglianze con un’opera di un altro grande dei romanzi d’avventura: il nostro Emilio Salgari, il quale nel 1907 dava alle stampe Le meraviglie del Duemila. Come l’opera di Verne, quella di Salgari racconta un futuro ricco di meraviglie, scoperte scientifiche e prodigi della tecnica, all’interno del quale, però, i protagonisti, risvegliati da un’ibernazione, si trovano disallineati rispetto alla società e vivono numerose disavventure. Di nuovo, la distopia si rivela come inversione dell’utopia, come il paradossale esito di un’utopia inospitale.

Altre due opere, insieme a Le meraviglie del Duemila, anticipano la distopia in Italia, e di nuovo si dimostrano un insieme ibrido di generi. Partiamo dalla meno illustre: si tratta de La principessa delle rose (1911) di Luigi Motta, che si muove a cavallo tra il romanzo d’avventura d’ispirazione salgariana, l’opera di fantapolitica e il romanzo fantascientifico, per raccontare un mondo futuro di continue azioni violente dei popoli d’Oriente nei confronti di quelli dell’Occidente, come in una sorta di anticipazione profetica dell’ISIS (ma forse è una deduzione un po’ iperbolica). Come ha notato Riccardo Valla, l’opera risente inoltre di una retorica di propaganda militare, tipica degli anni che precedevano la Grande Guerra. [5]

Possiamo poi parlare di Storia filosofica dei secoli futuri (1860) di Ippolito Nievo, nella quale l’autore de Le confessioni di un italiano immagina la storia d’Italia dal 1860 al 2222. L’opera si presenta come un ibrido tra la pseudo-storiografia, il trattato politico-filosofico, la fantascienza, la satira e la fantapolitica: si prevedono guerre, scoperte scientifiche e invenzioni tecnologiche. Viene anticipata l’unità di Italia e finanche una federazione europea. Anche qui, dobbiamo ripeterci, la distopia si rivela negli esiti infausti e inattesi dell’utopia. Detto in altre parole, l’opera di Nievo in particolare, ma similmente le altre che rovesciano il paradigma utopico, dimostrano che “l’umanità può distruggersi tanto rifiutando lo spirito prometeico (e quindi decadendo alla barbarie) quanto avendo troppa fiducia nel progresso tecnico-scientifico e, quindi, ignorando o non sapendo prevedere gli effetti collaterali negativi delle scoperte.”[6]

Un’altra opera di fantascienza che mostra il fallimento dell’utopia è R.U.R, opera del 1920 dello scrittore boemo Karel Čapek. Probabilmente ad alcuni il nome dell’autore suonerà del tutto nuovo, ma se dicessi che è stato lui a coniare il termine robot? Dal ceco robota: “lavoro faticoso”. In R.U.R. accade infatti che i robot umanoidi vengono geneticamente costruiti per l’utopico fine di liberare l’uomo dalla fatica e dal lavoro, senonché essi si ribellano violentemente.
Nello stesso anno in cui veniva pubblicato R.U.R, in Russia nasceva tale Isaac Asimov.

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Scena tratta da una rappresentazione di R.U.R.

Ma ci sono opere distopiche prima della distopia anche fuori dal perimetro della fantascienza.
Si può citare il caso de Il padrone del mondo (1907) di Robert Hugh Benson, che affronta il tema della fine delle religioni con l’avvento di un carismatico individuo che, nelle vesti dell’Anticristo, si pone a capo del mondo intero.
Ancor più interessante è, nello stesso anno, il caso de Il tallone di ferro di Jack London, che inscena l’instaurazione di un’oligarchia dispotica negli Stati Uniti. L’opera, ben prima di Noi di Zamjatin, rappresenta una società dominata da un potere dittatoriale e senza scrupoli, e altresì rappresenta una delle prime opere più puramente distopiche. Siamo qui nel filone della fantapolitica americana che vedrà un’importante esponente nel Premio Nobel Sinclair Lewis, il quale nel 1935 pubblicherà It can’t happen here.

e23419699ca20c18ab70d44e59288c3b_w240_h_mw_mh_cs_cx_cyDi Jack London possiamo inoltre citare anche La peste scarlatta (1912), che si muove invece lungo il crinale della distopia (post-)apocalittica. L’opera, come già L’ultimo uomo (1826), di Mary Shelley, pone in essere un futuro negativo in cui l’umanità è stata colpita da una pandemia di peste che ha risparmiato solo pochi uomini. Com’è stato notato [7] una celebre distopia contemporanea quale La strada (2006) di Cormac McCarthy presenta molte analogie con quest’opera, a dimostrazione dell’importanza spesso sottovalutata delle opere di London come modello classico per il genere.
Altri esempi di opere apocalittica, oltre al già citato La guerra dei mondi, sono La fine del mondo (1894) di Camille Flammarion e L’eterno Adamo (1910) del solito Verne.

Avviamoci adesso a una conclusione, prima premettendo che chiaramente le opere e gli autori di cui abbiamo parlato finora non rappresentano un’elencazione esaustiva e completa, ma sono solo i casi più notevoli, illustri, curiosi o semplicemente interessanti – avremmo potuto citare ancora altre opere, come Erewhon (1872) di Samuel Butler e prima ancora Le Monde tel qu’il sera (1842) di Emile Souvestre.

Come mostrato pur sommariamente, dunque, l’origine di quella distopia così in voga e abusata oggi è più antica di quanto si potrebbe immaginare a primo acchito, e si sviluppa all’intersezione di diverse tradizioni e influenze generiche. Per queste ragioni, diventa difficile capire quando e con chi ha effettivamente inizio il genere distopico: qualcuno indica già la presenza di elementi distopici ne I viaggi di Gulliver, qualcun altro potrebbe chiedersi se effettivamente anche L’Apocalisse di Giovanni non possa definirsi un esempio di distopia prima della distopia. La verità è che bisogna andare coi piedi di piombo in queste ricostruzioni: porre un’opera in un genere piuttosto che in un altro – di qualsiasi genere si parli – è un atto sempre arbitrario, e quindi soggettivo e opinabile.

Quel che è più certo sono le ragioni macrosociologiche che hanno permesso al genere di nascere, crescere, correre. La distopia si sviluppa infatti a partire dalla quella crisi dell’utopia e dell’idealismo Ottocentesco di cui scrive Mumford nella sua celebre Storia dell’utopia (1922). E la sua produzione diventa ipertrofica sempre in concomitanza di uno stato presente delle cose tutt’altro che felice. Se si vivesse in un presente utopico non si penserebbe il futuro in prospettiva distopica. Lo dimostra la folta produzione di distopie nell’epoca dei totalitarismi, o in corrispondenza delle guerre.

Anche oggi viviamo un presente più cupo del solito, e quelle caratteristiche del presente le proiettiamo, esacerbate o ribaltate, al futuro. Viviamo nell’incertezza e nella precarietà. Ecco perché di utopie non si sente più parlare: il futuro, per noi figli dell’Occidente ormai rassegnati al più pessimistico fatalismo, può solo peggiorare.
Ecco perché le distopie sono ovunque e ci stanno sommergendo.
Ma chissà, forse ancora per poco.

 

Giuseppe Rizzi

 


[1] https://www.illibraio.it/alessandro-bertante-pietra-nera-1013629/
[2] Orwell non ha mai negato che l’ispirazione per 1984 sia venuta dalla lettura di Noi. L’opera di Zamjatin presenta alcune analogie anche con Il mondo nuovo (1932). Orwell stesso, in una recensione del 1946, sostiene che è facile individuare ne Il mondo nuovo l’influenza di Noi. Tuttavia Huxley ha sempre dichiarato di aver letto Zamjatin solamente dopo la stesura del suo famoso romanzo.
[3] Todorov, La letteratura fantastica, 1970 (1988)
[4] https://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/1994/09/22/ritrovato-un-inedito-di-verne.html
[5] https://www.carmillaonline.com/2003/06/16/sf-dei-primordi-la-principessa-delle-rose/
[6] Campa R. La Storia filosofica dei secoli futuri di Ippolito Nievo come caso esemplare di letteratura dell’immaginario sociale, in AdVersuS IX, nº 23, dic. 2012, pp. 13-30
[7]Michael J. Martin, American Crossroads, London, McCarthy, and Apocalyptic Naturalism, in Studies in American Naturalism, vol. 8, n. 1 (Summer 2013), pp. 21-37

Immagine in anteprima: scena tratta dalla trasposizione cinematografica de La strada

6 Comments

  1. Articolo molto interessante e ricco di suggerimenti di lettura. Secondo me tra gli anticipatori del genere distopico si potrebbe inserire anche Flatlandia di Abott uscito nel 1884, dove nella creazione di un mondo bidimensionale è presente una forte critica della società vittoriana.

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    1. La citazione di Abbott è interessante, e qualcuno effettivamente lo include anche tra gli anticipatori del genere. Io personalmente non sono proprio d’accordo. La distopia si occupa propriamente della società umana, e di una società quasi sempre futura (altrimenti diventa ucronia). Flatlandia ha una ricostruzione di società, ma all’interno di un apologo, esattamente come La fattoria degli animali, altra opera che io personalmente faccio fatica a definire distopica. Ma appunto, come già dicevo, qui subentra sempre la soggettività. Le caratteristiche del genere sono univoche, ma non c’è sempre univocità nell’opinione di quale opera le possieda effettivamente.

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  2. Molto bello e interessante. Sì, alla lista di titoli se ne potrebbero aggiungere altri. A me è venuto in mente “Metropolis” romanzo e sceneggiatura di Thea von Harbou, moglie di Fritz Lang il quale ne fece il relativo famoso film muto nel 1927. Lei, a quanto pare, il romanzo lo aveva scritto due anni prima,

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