Mia è la vendetta, Eka Kurniawan
(Marsilio, 2019 – trad. M. Rossari)
Ad Ajo Kawir non diventa più duro. Non è che si sia stancato delle donne o che non gli piacciano più, semplicemente il pisello non gli tira. Tutto è iniziato anni fa. Da bravo adolescente voyeur, si appostava fuori dalle case per vedere la gente scopare; aveva individuato una donna che a una certa ora, puntuale, si spogliava: in giro si diceva che fosse pazza, non per questo era meno eccitante – almeno, Ajo la trovava decisamente eccitante, e allora si appostava ogni giorno vicino alla finestra per vederla nuda, si infilava una mano nei pantaloni, guardava, nient’altro. Una volta mentre spiava sono arrivati due poliziotti. Sono entrati in casa, hanno cominciato a violentare la donna. Ajo ha continuato a guardare, immobilizzato dal terrore, i due l’hanno beccato, l’hanno tirato dentro e l’hanno costretto a fare quello che facevano loro. Da quel momento, il pisello di Ajo Kawir non si è più svegliato.
Ma tutte le storie sono storie d’amore, e il caso di Ajo Kawir, per quanto singolare, non fa eccezione. Anni dopo quell’episodio traumatico della sua adolescenza, Ajo è un giovane incazzato con il mondo, passa da una rissa all’altra, si fa pagare per uccidere un uomo che tutti chiamano la Tigre. Conosce una ragazza, Iteung, una combattente che la prima volta che si vedono lo picchia di brutto. Si innamorano. A lei non importa del suo batacchio moscio, lo invita a darsi da fare con le dita: e Ajo per amore si scopre capace di rimboccarsi le maniche, di imparare – in breve, diventa un professionista. È una vita felice, la loro. Serena. Almeno fino a quando arriva l’incidente, fino a quando, più avanti, Iteung rivela l’impossibile: è incinta. Naturalmente, non può essere stato Ajo Kawir. Lei l’ha tradito.
La storia, a questo punto, è appena iniziata. Ajo lascia Iteung, diventa un camionista. Si arrende a non avere un’erezione per il resto della vita. Non si lascia turbare dalla violenza che lo circonda, che sembra essere all’ordine del giorno tra i camionisti indonesiani: dal suo pene moscio ha imparato questo, a starsene tranquillo per i fatti suoi, preferisce rimanere un passo indietro, anche quando il suo assistente, Mono lo Sdentato, rischia di morire in un combattimento. La vita di Ajo è ferma. Non accenna a ripartire. Riparte quando conosce un’altra donna. Jelita. Una talmente brutta che “non c’era bisogno di dilungarsi su com’era esattamente il suo viso – era un vero cesso”. È lei a riaccendere le sue polluzioni notturne. Inizia ad abitare i suoi sogni: ogni volta che Ajo si addormenta la trova lì, nuda e bruttissima, lei lo guarda e il suo cazzo diventa più duro che mai.
Nei sogni, prima. Nella realtà, poi. Basta il miracolo di un pisello duro per riprenderti l’esistenza in mano. E una figlia, la figlia di Iteung, che manda dei piccoli messaggi, scritti dietro le sue foto, in cui ti chiama papà. Ajo Kawir si convince di dover tornare indietro. Per riavere Iteung, per un’ipotesi di felicità. Per riprendersi il sesso a cui ha rinunciato. Per l’amore. Ma la vita non rimane lì ad aspettarti. Le donne innamorate non sanno stare ferme – neanche Iteung. Al suo ritorno a casa, Ajo Kawir troverà un’erezione e una devastante, comica sorpresa.
Mia è la vendetta è un romanzo confezionato come un film, scena per scena, in cui i tagli sono all’apparenza irregolari, sfasati nella cronologia, eppure concepiti a pennello, in modo da tenere alta la tensione dall’inizio alla fine. Qualcuno ha scritto che ricorda i lavori di Quentin Tarantino, per la mescolanza di elementi narrativi bassi e pretese formali elevatissime: ed è abbastanza vero. È un elegante romanzo pulp che parla di violenza maschile e dell’ipotesi di rinunciarvi. Di come il timone del mondo sia il più delle volte in mano alle donne.
Non che sia un libro perfetto: ci sono parti che ho trovato inessenziali – tra cui il lungo capitolo sulle vicende amorose di Mono lo Sdentato – e personaggi la cui profondità di azione e di pensiero a volte sembra inesistente, da letteratura di serie b. Questo non toglie il valore di un libro che doveva arrivare in Italia: non tanto per se stesso, quanto per ciò che rappresenta, ovvero quel filone di narrativa picaresca, un po’ da piangere e un po’ da ridere, ricca di invenzioni e fuochi d’artificio, che nel 2019 sembra non interessare più a nessuno. Dovremmo riprendere in mano libri come questo e ricordarci che la letteratura non ha bisogno di essere seria per essere di qualità. Che non hanno valore solo le storie vere, ma anche quelle che sono del tutto inventate: perché fanno spazio nella testa, costringono ad aprire le stanze chiuse.
Pierpaolo Moscatello
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