Cala, Calafiore!

Calafiore, Arturo Belluardo
(Nutrimenti, 2019)

Ci sono romanzi altamente digeribili, e ci sono romanzi che, a fine lettura, possono suscitare un disagio fisico così profondo da rendere indispensabile bere un bel bicchiere colmo d’acqua, limone e bicarbonato per mandare giù tutto quello che si è appena ingerito con gli occhi. Questo è il caso di Calafiore, l’ultimo romanzo di Arturo Belluardo pubblicato da pochi mesi per Nutrimenti, un libro di duecento pagine da ingurgitare in mezzo pomeriggio, sempre stando ben attenti a potenziali indigestioni.

Pino Calafiore – da tutti chiamato solo Calafiore o, in alternativa dispregiativa, Culoafiore – è un quarantanovenne di origine sicule trapiantato a Roma ormai da decenni, e di mestiere fa l’archivista bancario. Vive con la compagna Serena e sua figlia, la piccola Giada, legata a lui come se fosse il suo vero padre. Una famiglia neanche troppo disfunzionale, se non fosse per un piccolo problema: Calafiore è obeso, e la sua è una fame incontenibile, atavica – ancestrale.

«Mi chiamo Calafiore e ho fame.
Io ho fame, ho sempre fame. Ho sempre avuto fame. Come Galactus, che divorava pianeti a pranzo e lune a colazione; gli anelli di Saturno se li mangiava per aperitivo, come fossero anelli di calamaro o di cipolla fritti, di quelli che fanno al Burger King, che ti ci vogliono due giorni per digerirli e hai un alito che ti riconoscono a cinque metri di distanza.» (pag. 13)

La storia di Calafiore comincia col suo risveglio in un magazzino vuoto: l’hanno rapito, e a rapirlo sono stati due ragazzi siciliani come lui, Marta e Federico, di professione: cannibali. Dopo aver visto Calafiore divorarsi decine di tramezzini a una speciale trasmissione del Guinness World Record, la coppia decide che è necessario mangiarlo poiché rappresenta «la quintessenza del sistema», «la metafora della grande abbuffata del potere. L’obesus maximus che mangia fino a scoppiare, incontenibile come un pescecane, incurante di quanto il suo stomaco possa contenere». Mangiare Calafiore equivarrebbe a distruggere il simbolo che incarna, e allo stesso tempo acquisire il superpotere di cui è sano portatore, e che possiede anche il personaggio dei fumetti Galactus: quello del mangiare fine a se stesso – l’antroprofagia messa in atto come rituale di assimilazione.

Da qui, il ricordo di quel film altrettanto disturbante diretto da Marco Ferreri (La grande abbuffata, 1973) torna giocoforza alla mente, sebbene il tema del “mangiare fino a scoppiare” fosse trattato in modo molto diverso; e se nella pellicola del regista italiano il finale veniva esplicitato fin dall’inizio, nel romanzo di Belluardo il lettore deve star bene attento a non dare niente per scontato, perché di colpi di scena ce ne sono parecchi, e l’ultimo è quello più azzeccato di tutti, grazie al quale si vedrà come, finalmente, le potenzialità di Calafiore potranno esprimersi in tutta la loro pienezza.

Calafiore è un romanzo viscerale, che con astrazioni e intellettualismi ha veramente poco a che fare: qua si parla alla pancia del lettore attraverso l’analisi di una psicologia malata di cibo, con il quale Calafiore tenta disperatamente di colmare vuoti interiori lasciati a espandersi sin dai tempi dell’infanzia, e che col tempo sono diventati talmente vasti che neanche «il demone del tardi» – ossia, il cibarsi compulsivo di dolci a tarda notte – rischia di poter più contenere. La malattia è talmente pervasiva che impedisce a Calafiore di stabilire quali sono le sue vere priorità: Giada e Serena. Quest’ultima, dopo plurimi tentativi di dimagrimento falliti del suo compagno, decide di sparire definitivamente insieme alla figlia, lasciando Calafiore solo come un cane, svestito quasi completamente della sua dignità: andare al Guinness World Record sarà una prova di riconquista tutt’altro che efficace.

La narrazione in prima persona di Calafiore si intercambia a quella dei due ragazzi, chiamati a raccontare anch’essi la propria storia. Il percorso analogico che avvicina il mondo dei supereroi a Calafiore («Io sono Pino Calafiore, il super-errore!») funziona allo stesso modo per la coppia di antropofagi, i quali però non hanno ottenuto il potere col morso di un ragno o l’esposizione a radiazioni solari, ma mangiando carne umana.

Per i giovani siciliani il processo-rituale giunge a compimento attraverso l’uccisione di due uomini: è nutrendosi della loro carne che Marta e Federico acquisiscono dapprima consapevolezza e poi comprensione delle regole non scritte che governano il mondo; come dice Federico rivolto a Marta: «Siamo diventati diversi dagli altri uomini, siamo uno con il mondo, siamo coscienti e consapevoli. Siamo Adamo ed Eva che hanno mangiato il frutto proibito, sappiamo cosa è il bene e cosa è il male»: sarà questo il motivo che porterà la coppia a lottare per non essere fagocitati da un sistema marcio e corroso, e a farsi infine carico della necessaria seppur amorale e non-deontologica responsabilità di mangiare per non essere mangiati.

Non è facile in un romanzo parlare di obesità e cannibalismo, eppure negli ultimi tempi la letteratura italiana ha accolto ben due testi che hanno saputo raccontare l’argomento in modo del tutto inedito e stimolante: Chilografia di Domitilla Pirro (Effequ) e Calafiore di Arturo Belluardo. Due lavori che è possibile porre in rapporto di complementarietà, anzi di consequenzialità, e quindi al primo far seguire la lettura del secondo. Entrambi i romanzi non solo trattano del rapporto tra essere umano e malattia, ma anche del legame che intercorre tra obesità e percezione sociale, indagando il profondo senso di inadeguatezza e infelicità che il giudizio degli altri provoca in coloro che non hanno avuto la fortuna di crescere con un corpo socialmente accettabile, seppur alla sofferenza sociale i grassi rispondono con un elevato grado di intelligenza emotiva nei confronti del mondo: poiché essere scoperti significa saper scoprire e, in questo, Chilografia e Calafiore fanno scuola.

«E, soprattutto, la corazza a noi serve, ci serve per nasconderci, per non far capire che, in fondo, siamo senza pelle. Noi, che le emozioni le viviamo più degli altri, che se un vecchietto ci guarda di traverso per strada pensiamo che ce l’abbia con noi, senza accorgersi che il suo sguardo è gelato dalla cataratta. Che se due persone litigano, crediamo che sia sempre per colpa nostra, così d’istinto, senza motivo. […] Noi siamo così. Noi siamo i grassi.»

Angela Marino

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