Dopo gli scandali sessuali che hanno sconvolto l’Accademia di Svezia, giovedì torna il Premio Nobel per la Letteratura. L’anno scorso non è stato assegnato (quest’anno doppia assegnazione), eppure la gente non ha smesso di leggere, gli autori di pubblicare, i critici di commentare e i libri esistono ancora. Insomma, pare che la letteratura sia sopravvissuta. Incredibile, no?
La domanda che mi sorge allora è: serve davvero a qualcosa? Il Nobel per la Letteratura è ancora necessario? (sempre che mai lo sia stato)
Già due anni fa, nel commentare la vittoria di Ishiguro, fui molto aspro e parlai di un Premio che svelava tutti i suoi limiti. Ad oggi sono ancora della stessa opinione. Per farla breve, ero critico nei confronti di una visione miope da parte del Premio, che per la quarta volta in diciassette anni andava a pescare dal contenitore degli scrittori britannici[1], e per la settima volta in altrettanti anni mostrava la sua sudditanza verso la letteratura di lingua inglese[2]. E quando non premiano gli anglo-americani, gli svedesi vanno a fare acquisti in Francia (quindici autori francesi tra i vincitori, record assoluto, gli ultimi nel 2008 e 2013). Verrebbe da dire: facciamo una colletta e compriamo un planisfero per questi poveri scandinavi, così da mostrargli l’esistenza di altri paesi nel mondo (magari con una bandierina sull’Italia, per ricordargli che esistiamo anche noi)
Unitamente a questa tendenza, si associa una gestione davvero incomprensibile negli ultimi anni, che mostra un’assenza totale di logica, un procedere allo sbaraglio, come in un tentativo goffo di stupire, di piacere, di riscuotere consenso: prima una giornalista, poi un cantautore, poi ancora uno scrittore che si potrebbe quasi definire mainstream (oserei: rispetto al quale ci sarebbe una caterva di romanzieri decisamente migliori). Di contro a queste scelte discutibili, c’è ancora chi è pronto a far barricate per vendicare il mancato riconoscimento a Philip Roth (io sarei disposto a farlo per Umberto Eco, ad esempio).
Fortunatamente negli ultimi anni alcune piacevoli eccezioni ci sono state: penso a Mo Yan (vincitore nel 2012), che ho conosciuto proprio attraverso il Nobel e che ho subito stimato e apprezzato molto.
Ecco, secondo il mio parere l’esempio di Mo Yan dovrebbe rappresentare la via da seguire per il Nobel, se volesse tornare davvero ad avere un senso di esistere. Il caso dell’autore cinese è emblematico per vari motivi: è un romanziere di altissima qualità letteraria, che ha basato la sua opera sulla storia e la tradizione del suo paese, rendendola tuttavia universale, comprensibile e apprezzabile ovunque. Ed è un autore che probabilmente non sarebbe stato altrimenti noto.
Il Nobel dovrebbe fare questo: scoprire le eccellenze nascoste ad ogni latitudine del mappamondo letterario e permettere che siano conosciute ovunque come meritano. E parallelamente, se davvero è un Premio che va a onorare gli scrittori più eccellenti, non dovrebbe snobbare costoro al solo fine di mostrarsi in controtendenza, come un ragazzino ribelle che vuole a tutti i costi fare il contrario di ciò è prescritto.
Ma andiamo al vero nocciolo della questione: un gruppo di pochi eletti può bastare a sorreggere tutta l’autorevolezza di un Premio come il Nobel? Questa dozzina o poco più di accademici svedesi è davvero all’altezza di decidere chi merita il Premio Nobel? Un premio è un premio, si dirà, ed è giusto così. Ma il Premio Nobel è di più. Lo scrittore che lo vince guadagnerà un prestigio imperituro, eterna memoria, diventerà un canone e un classico, e non da meno guadagnerà una caterva di milioni per i diritti di traduzione che venderà per il mondo, per i suoi romanzi che arriveranno in ogni libreria del globo.
Ecco, non è solo un Premio: il Nobel è l’equivalente della santità per un cattolico. Non sarebbe ora di rivedere l’organizzazione e il metodo di votazione? Perché far decidere una cosa così importante in una sala chiusa a pochi eletti intorno a un tavolo? Mi viene in mente Gino Paoli che canta: “Eravamo quattro amici al bar.” Ok, svedesi, certo Alfredo Nobel era un vostro connazionale. Ma non credete che sia più credibile allargare la giuria a un’ampia commissione di esperti provenienti da tutto il mondo? Magari voi scegliete una short list: dieci, otto, cinque nomi. Poi cento, duecento, trecento letterati tra i più autorevoli al mondo votano.
Quest’anno, a seguito dello scandalo, si dice che le cose siano cambiate, che ci siano nuovi criteri, ma dubito che basterà. Anche la composizione dei membri dell’Accademia è cambiata. Si resta pur sempre quattro amici al bar, ma almeno si è dichiarato di voler essere “meno eurocentrici” (volevate dire anglo—francocentrici suppongo, perché in Europa ci sono anche l’Italia, l’Austria, la Polonia, l’Ungheria, ecc., paesi che mai avete preso in considerazione di recente e che vantano autori eccellenti) e di andare in una direzione diversa rispetto agli altri anni.
Ma allora – la domanda che si fanno tutti, anch’io che sono così critico – chi vincerà? E ci si sfrega le mani al pensiero che saranno due i vincitori.
Sicuramente c’è una donna. Sicuramente c’è un vincitore che proverrà da qualche paese, per così dire, più insolito. Sicuramente non ci sarà l’Italia: avevo chiamato la vittoria di Magris nel 2017, ma ormai ho perso le speranze. Da una parte è giusto così: il nostro paese non ha più una abbondanza di eccellenze come in passato; dall’altra no che non è giusto: se vince Le Clezio, se vince Modiano, se vincono Dylan e Ishiguro, perché non Magris? (Dico Magris perché è il più autorevole di cui possiamo fregiarci; si fa da sempre il nome della Maraini, ma mi rende perplesso; e per la romanziera che il mondo ci invidia, la Ferrante, forse i tempi non sono ancora maturi)
Ecco il profilo dei vincitori, allora:
- mi aspetto che non sia (non deve esserlo!) francese: quindi adieu, Annie Ernaux.
- mi aspetto che non sia britannico o americano o canadese (vista l’abbondanza recente): sorry Mrs Atwood, Mrs Robinson, Mrs Carson.
- mi aspetto che non sia dell’Estremo Oriente (vedi Mo Yan, vedi Ishiguro premiati di recente): quindi direi niente da fare per i quotatissimi Murakami, Can Xue, Yu Hua, Yoko Tawada, Yang Lian, Ko Un, Ma Jian, Yan Lianke (anche se quest’ultimo lo abbiamo intervistato e se vincesse sarebbe un colpaccio per noi).
- temo che non sia europeo (dato che il Segretario ha detto esplicitamente che saranno meno “eurocentrici”, ma non è chiaro cosa intenda): se così fosse, poche speranze per Magris, Cartarescu, Nádas, Fosse, Kadaré, Krasznahorkai, Handke, Marías oltre a Ulitskaya e Tokarczuk (tra le favorite secondo i bookies).
- mi aspetto che possa essere finalmente africano, in tal caso iniziate a fare conoscenza con questi nomi: Scholastique Mukasonga e Antjie Krog (favorite perché anche donne, una donna ci sarà sicuramente), oltre al solito Thiong’o. Da non sottovalutare il somalo Naruddin Farah, che ha molte probabilità. Potrebbe sorprendere anche Tahar Ben Jelloun.
- potrebbe essere australiano: in pole ci sarebbe Gerald Murnane, ma occhio anche a Flanagan e Malouf.
- la vera sorpresa potrebbe arrivare da qualche paese dell’America Centrale e Caraibica o del Medio Oriente. Tra costoro c’è la mia personale favorita alla vittoria: Maryse Condé (scrittrice di Guadalupe), ma anche la messicana Elena Poniatowska, il siriano Adonis, il nicaguarense Ernesto Cardena. Ma occhio anche al colombiano Juan Gabriel Vásquez e all’immarciscibile Yehoshua.
O forse vincerà qualcuno che nessuno è riuscito a pronosticare, qualcuno di cui quattro amici (svedesi) al bar scriveranno il nome sui libri di storia letteraria.
Giuseppe Rizzi
[1] Naipaul, Pinter, Lessing, Ishiguro
[2] Naipaul, Coetzee, Pinter, Lessing, Munro, Dylan, Ishiguro