Un’esistenza fulminante, quella di Katherine Mansfield, nata nella Nuova Zelanda coloniale e trasferita in Inghilterra all’età di diciannove anni; la sua produzione non riesce a coprire che la seconda parte del primo ventennio del Novecento poiché lo stesso fece la sua vita, stroncata da una tubercolosi sfociata in pleurite. Frequentatrice di personaggi del calibro di Virginia Woolf (e come la Woolf sentimentalmente priva di confini), amò uomini e donne, restò incinta di un amico di famiglia e nel 1909 fu spedita dalla madre in una località termale bavarese, dove ebbe un aborto spontaneo nel tentativo di tirarsi giù da sola una valigia da un armadio.
Da questa esperienza nel sud della Germania nacque il suo primo libro di racconti, In una pensione tedesca (1911), una raccolta che lei stessa non esiterà a definire “immatura” eppure ancora oggi irresistibile, intrisa di una satira tagliente che rivela come dovevano apparire i bavaresi dell’immediato anteguerra agli occhi di una giovane intellettuale forgiata dall’Inghilterra delle suffragette (movimento di cui la Mansfield non fu mai un’attiva sostenitrice, ma tant’è). Scenario della narrazione, mai nominato ma evinto dalla biografia dell’autrice, è Bad Wörishofen, patria natale del metodo Kneipp che fu ideato attorno alla metà dell’Ottocento dal teologo e abate Sebastian Kneipp in qualità di disciplina (auto-)curativa per la tisi.
In questi racconti, narrati per lo più in prima persona da un’ospite della pensione, i personaggi cercano di relazionarsi tra loro attraverso quel tipo di pratica oggi globalmente definita small talk, la conversazione fine a sé stessa con cui le persone comuni sono solite intrattenersi, per esempio, nelle sale d’attesa, ma che si trova anche alla base dei convenevoli tra amici e conoscenti. Proprio durante gli anni Venti del Novecento il fenomeno è stato oggetto di studio da parte di antropologi europei e viene oggi annoverato fra le abilità sociali. Alla luce di questa premessa, i protagonisti dei racconti della Mansfield sono da considerarsi un vero e proprio disastro sociale.
In una pensione tedesca è infatti un libro sui fallimenti della comunicazione, la quale è già di per sé delicata all’interno della medesima etnia e che nell’interazione tra lingue e culture diverse può arrivare ad assumere connotati tragici e offensivi. Dalla pensione del titolo si trovano a transitare studenti, poeti, ufficiali, musicisti ed esponenti delle antiche nobiltà locali (e quale trepidazione si scatena per l’arrivo della figlia del Barone!).
I personaggi hanno nomi eloquenti: si va dal giovane Fuchs (Volpe) alla signora Brechenmacher (alla lettera: che causa fratture, o induce il vomito) fino alla magnifica signora Oberregierungsrat (Consiglio superiore del governo); gli argomenti da essi scelti per intavolare una conversazione sono il cibo, l’importanza della famiglia e del ruolo delle mogli e, alla luce dell’ambiente che li unisce, i loro mali. La signora «moderna» inglese ascolta e riporta ogni scena attraverso la sua interpretazione critica e sconvolge a più riprese l’auditorio con le sue rivelazioni: quando si dichiara vegetariana (abitudine giudicata inadatta alla generazione di una prole sana), quando nubile e decisa a non avere figli – finanche con le sue omissioni: tra le altre cose, non rivela mai né ai suoi interlocutori né ai lettori per quale ragione si trovi in un luogo di cura.
«Ah questo è strano, di voi inglesi. Sembra che non vi piaccia parlare delle attività del corpo. È come parlare di un treno e rifiutarsi di nominare il motore.»
Ma si parla anche di guerra e in questo campo si rivela tutta la spacconeria della Germania antecedente alla disfatta, che ama vantare la propria supremazia militare – ma «voi inglesi», dice il signor Rat all’ospite britannica, non avete nulla di che temere, giacché «se avessimo voluto l’Inghilterra ce la saremmo presa molto tempo fa.» Denigrare l’esercito inglese non sembra bastare per rimarcare la superiorità materiale e morale dei tedeschi, dal momento che nel corso dei colloqui si susseguono interventi sdegnosi nei confronti di qualsiasi altra cosa che il pregiudizio del tempo ami associare alle società d’oltremare: dal costume alimentare smodato all’indecenza delle donne, che tendono a ripetere gli «scandali parigini», mentre le fanciulle dell’aristocrazia locale sono ancora oggetto di poesie, come giovani alberi i cui rami non siano «mai stati toccati dalla rude mano dell’uomo» e la massima dimostrazione di modernità della signora Doktor è riconoscere che una proposta di matrimonio può avvenire anche in un bosco, ovvero al di fuori della convenienza di un salotto, purché si tratti di un bosco privato.
Rinomati ancora oggi per il loro essere diversi dal resto dei tedeschi, e spesso considerati non-tedeschi perfino da essi stessi, i bavaresi non risparmiano neppure i loro connazionali del nord: ed ecco che i viaggiatori berlinesi vengono additati nei racconti come scandalosi, con le loro frequentazioni di alberghi privi di tovaglioli e l’abitudine di discutere di amore libero con le cameriere – atteggiamento che nel tempo ha attirato e racchiuso tra i confini bavaresi la fama di una regione-ghetto popolata da personaggi arroganti e hochnäsig (con la puzza sotto il naso).
Non va dimenticato che a causa della sua posizione al centro dell’Europa la Baviera si è trovata più di una volta nel corso dei secoli sul percorso degli eserciti invasori ed è stata frequentemente occupata da potenze straniere: da qui ha derivato il sospetto nei confronti degli estranei e il conseguente attaccamento ai valori tradizionali e popolari, che persiste ancora oggi nel largo uso dell’abito tradizionale, finanche nello spirito della squadra di calcio che rappresenta la città di Monaco nel mondo.
Nel 1909, quando la Mansfield si recò in Germania, Monaco aveva visto il susseguirsi di due sovrani visionari (a cui la Baviera di oggi deve quasi tutto, ma che quella di allora non era disposta a tollerare – Ludwig I venne deposto per via di uno scandalo sentimentale, mentre il nipote Ludwig II per la sua presunta follia) e prosperava sotto la guida del Principe Reggente Luitpold. Ancora oggi a lui è intitolata la strada che attraverso l’Isar conduce al cuore della capitale bavarese, dominata dall’Angelo della Pace voluto dallo stesso Luitpold per contrapporsi alla Colonna della Vittoria berlinese, dove la Nike rappresenta la vittoria militare mentre quella monacense, con un ramo di ulivo nella mano destra e nell’altra una statua di Atena, sancisce la vera vittoria, quella che deriva dalla pace e dalla conoscenza.
Cosa è cambiato da allora? Tanto per cominciare c’è stata la guerra – anzi, ce ne sono state due, e una più rovinosa dell’altra. Da allora il nome di Monaco nel mondo si associa ineluttabilmente a quello di Hauptstadt der Bewegung, la capitale del movimento nazionalsocialista, un passato inglorioso che i bavaresi di oggi non riuscirebbero a scordare neppure se lo desiderassero. Un retaggio ingombrante e doloroso e che, grazie alla memoria perpetrata da chi allora non c’era (la maggior parte dei reali testimoni della guerra è oggi infatti ridotta a un eterno silenzio), ha creato un bel fenomeno di odio razziale, che identifica nella generalità del popolo tedesco i cattivi da additare e condannare.
Ben lungi dalla spacconeria marziale dei propri antenati di un secolo fa, i bavaresi scontano il proprio passato in silenzio, ogni giorno, nelle scuole e davanti ai numerosi monumenti, e sanno di non avere difese, giacché non c’è difesa contro tali atrocità. Abbassano il capo davanti agli insulti e si impegnano a riabilitarsi in altri campi, pro-muovendo l’arte e l’economia e aggrappandosi ai propri comuni valori: ancora una volta, il cibo, la birra, la famiglia. Le studentesse inglesi si scandalizzano al pensiero di entrare nude in una sauna insieme a degli sconosciuti e i professori locali sorridono del loro pudore dinanzi a qualcosa che per loro è perfettamente normale. In ogni angolo d’Europa ci si riunisce ancora a tavola ogni sera, troppo assorti nella magnificazione di sé stessi per prendersi la briga di capire quello che è diverso, e da tutta la storia del mondo emerge un unico vero perdente: la comunicazione, che ha fallito su ogni versante.
Sara Mazzini