L’Australia interiore di Gerald Murnane

Le pianure – Gerald Murnane
(Safarà, 2019 – trad. di R. Serrai)

downloadGerald Murnane ha le guance rosse da vecchio di buon cuore. Vive a Goroke, un paese di circa seicento abitanti, in Australia, e non ha mai preso un aereo in tutta la sua vita. Soffre di anosmia, l’incapacità di percepire gli odori, e gli piacciono le corse di cavalli. Lavora in un bar, per arrotondare tiene corsi di scrittura nel golf club locale. Pochissimi dalle nostre parti hanno sentito parlare di lui, quasi nessuno. Ma Gerald Murnane è uno che ha scritto tredici romanzi: secondo chi li ha letti sarebbero talmente eccezionali da renderlo meritevole del premio Nobel.

Non è che siano proprio romanzi. Questa asserzione, per quanto incerta, già lascia intendere il motivo per cui non sono riusciti finora a entrare nel mercato editoriale d’occidente: non sono proprio romanzi, sono oggetti strani, bisogna dedicarci attenzione per capire di che si tratta, e allora non vanno bene. Più nello specifico: sono opere che respingono qualsiasi principio della drammaturgia tradizionale, qualsiasi principio di verosimiglianza, prive di empatia e ricche di pensiero; si collocano quasi esattamente sul confine tra la narrativa e la saggistica. Ma in un modo strano, facendo molto ricorso all’allegoria, al simbolismo. Ora si capisce meglio: quale collana di narrativa ha spazio per qualcosa del genere?

Quasi nessuna. O meglio, nessuna di quelle commerciali. Il 7 novembre però l’editore Safarà ha portato in Italia Le pianure, che sarebbe il terzo romanzo dell’autore, risalente ormai al 1982. Un libro esilissimo, poco più di cento pagine, che a quanto pare sarebbe l’opera in cui Murnane ha consolidato una volta per tutte questo suo stile strano. Lo sfoglio rapidamente; a vista d’occhio non c’è neanche una battuta di dialogo. Comincia così: Venti anni or sono, quando vidi le pianure per la prima volta, lo feci con gli occhi bene aperti. Cercavo, in quel paesaggio, qualcosa che sembrasse accennare a un significato complesso, oltre le apparenze.

La trama: un artista senza nome vuole girare un film il cui soggetto sarebbero le pianure australiane. Riceve il sostegno di una specie di mecenate, un latifondista appartenente all’aristocrazia del posto, e passa il suo tempo a capire come fare questo benedetto film. Niente a che vedere con 8 e ½, se per caso ci avete fatto un pensiero: qui è tutto ancora più astratto – i luoghi sono combinazioni di luce, niente di più, le persone che circondano il protagonista sono fantasmi, figure che a volte sembrano voler incarnare delle idee, e ancora più volte sono solo parte del paesaggio naturale.

Come si muova la storia del libro non è troppo significativo. Non lo è neanche mentre leggiamo: sin dall’inizio si capisce che il gioco che l’autore sta facendo è diverso. L’attenzione del narratore è asimmetrica: si concentra per pagine su un aneddoto apparentemente inutile che gli ha raccontato qualcuno, ma poi liquida in poche righe l’apparizione di una donna che potrebbe trasformare il suo soggiorno nelle pianure in una soffusa storia d’amore. Questa cosa è frustrante, alla lunga, perché siamo abituati a fidarci del narratore, a dare per scontato che si concentrerà sugli elementi importanti per la narrazione: io, per esempio, quasi subito stavo scagliando il libro contro il muro.

Bisogna capire però che la mancanza di struttura qui è una cosa premeditata. Non c’è, come nelle storie più classiche, il tentativo di andare dal punto A al punto B (pure con tutte le peregrinazioni del caso), qui invece partiamo dal punto A diretti al punto B, e poi ci perdiamo, facciamo un sacco di giri, camminando a passo lento, e arriviamo (arriviamo?) da tutt’altra parte. Come nelle pianure: dove la promessa di un orizzonte piatto ci spinge a camminare, camminare, camminare, e chissà poi dove arriveremo, o se arriveremo in un posto diverso da quello da cui siamo partiti.

Il paradosso è che questo viaggio nel nulla viene raccontato con un linguaggio cristallino, estremamente scorrevole. Non si fa per niente fatica a leggere, anzi: la tessitura del racconto scivola addosso come un abito impalpabile – molte volte mi è sembrato piacevole lasciarmi trascinare dall’eleganza delle frasi, anche se non capivo esattamente cosa volessero significare. Non a caso Ben Lerner nella prefazione parla di poema in prosa, facendo riferimento a frasi come questa: Nessuno fra gli studiosi che potrei citare è in grado anche solo di indovinare quante successive invasioni degli angoli ombrosi delle biblioteche da parte del sole del pomeriggio ci saranno volute per schiarire l’inchiostro traslucido dei libri che, finalmente, aprono.

Le pianure è proprio questo: un romanzo facile da leggere e difficile da capire. In cui è facile entrare ma è difficile orientarsi. Se dovessi esporre una mia personale teoria, direi che si tratta del ritratto di un paesaggio interiore; il racconto di un viaggio che il protagonista compie all’interno di se stesso, cercando di capirci qualcosa, e poi capendoci quasi niente. Il rapporto tra l’interno e i suoi confini – quando il buio è l’unica cosa che riusciamo a vedere oltre noi stessi. Ma non ne sono sicuro. Non ne sarò sicuro prima di aver letto il romanzo altre cento volte.

Pierpaolo Moscatello

1 Comment

  1. “Le pianure” è un libro di bellezza elusiva e straniante dove l’eco di Kafka si sovrappone all’eco di Borges (il cineasta che non realizzerà mai il suo film finendo per trascorrere dieci silenziosi anni in casa del latifondista suo mecenate pare un lontano parente dell’agrimensore K. che langue nell’attesa della chiamata del Castello e la biblioteca labirintica e malinconica ospitata nella residenza isolata condivide qualcosa con la biblioteca di Babele, solo per citare due esempi).
    Si dice che questo libro fondi la metafisica delle pianure australiane, di certo le pianure australiane forgiano il carattere dei loro abitanti “impegnati a dare a giorni monotoni su un panorama piatto forma e sostanza di mito”. Gli abitanti delle pianure australiane sono raramente conquistati dalla logica (che li distrae con la “nitidezza del suo funzionamento”), essi sono sedotti dalla difesa dell’evanescente, da una filosofia della perdita che afferma che non si deve cedere all’intensità delle delusioni perché la perdurante assenza di un appagamento serve a definirlo con maggior chiarezza, l’invisibile è solo ciò che è troppo illuminato e la realtà è irrilevante (se non disprezzabile) in quanto riduzione ed estinzione del possibile.
    A tal proposito, segnalo come interessante lettura comparata il racconto ’“Condizioni di luce sulla via Emilia” di G. Celati (contenuto nella raccolta “Quattro novelle sulle apparenze”) in cui si descrive la luce bluastra o perlacea, a seconda delle stagioni, sospesa quasi in permanenza sulla Pianura Padana (“la nube in cui si vive da queste parti … una tra le pianure meno ventilate della terra che non presenta mai orizzonti troppo lontani”), una luce che avvolge tutto in una miriade di abbagli e riverberi e rende le cose vacillanti, incerte, traballanti, sfocate, provocando instabilità, inquietudine, disordine dei pensieri e delle azioni degli uomini, uno stato d’ubriachezza a cui è arduo sottrarsi e che fa muovere e correre, tutti, incessantemente, “nell’affaccendamento di ogni giorno” e un’ombra ferma e tranquilla è disgraziata per il sentimento d’immobilità che mette dentro quando invece bisogna darsi da fare.
    La luce che tocca e avvolge le cose qua da noi, la nostra permanente aria stagnante, sembrerebbe molto lontana dalla luce che cade sulle pianure australiane (a conferma del fatto che ogni pianura possiede la sua irriducibile metafisica) se non fosse che entrambi gli autori concordano su un particolare: come nella Pianura Padana “la luce confonde le cose più che illuminarle“, così nelle pianure australiane “l’invisibile è solo ciò che è troppo illuminato”.

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