Come si stabilisce cos’è un classico e cosa non lo è? È una domanda che mi pongo spesso, sopratutto leggendo le opere del Novecento, e ultimamente sono giunta alla provvisoria conclusione che il più grande potere di un romanzo che diventerà un classico è trascendere i limiti della propria epoca e raccontarla a prescindere dalle opinioni e dalla volontà dell’autore.
È esattamente questa la sensazione che si prova leggendo Vicolo del mortaio, una delle opere più note di Nagib Mahfouz, l’unico scrittore egiziano ad esser stato insignito del Premio Nobel per la letteratura, a lui assegnato nel 1988.
Mahfouz ha passato la sua lunga vita, che copre il Novecento quasi nella sua interezza, a narrare l’Egitto in ogni sua sfaccettatura, dando vita al filone narrativo del realismo sociale. A partire dalla seconda metà degli anni Quaranta, le sue opere sono prevalentemente ambientate nei rioni popolari del Cairo, le cui miserie e speranze vengono ritratte senza filtri se non l’amore dell’autore per la capitale egiziana.
Vicolo del mortaio rientra pienamente in questa fase creativa. Pubblicato per la prima volta nel 1947 e disponibile in Italia nel catalogo Feltrinelli nella traduzione di Paolo Branca, racconta alcuni mesi di vita degli abitanti di questa strada che un tempo ha brillato come un astro fulgente nella storia del Cairo ma dove ora tutto è diroccato, in rovina.
Mentre nel resto del mondo imperversa la Seconda Guerra Mondiale, nel vicolo l’esistenza scorre per lo più indisturbata e tutti gli abitanti fanno i conti con le loro debolezze. Incontriamo così, tra gli altri, il padrone del caffè con tendenze omosessuali malsopportate dalla moglie, il mercante sulla via della vecchiaia che rincorre l’eterna giovinezza facendosi preparare ogni giorno un misterioso piatto afrodisiaco, la vecchia vedova che vuole sposare un uomo più giovane, l’accattone che infligge false infermità a pagamento a chi vuole diventare mendicante.
Se gli adulti sono incollati in un tempo indefinito, quasi condannati a ripetere le stesse azioni per tutta la vita rimanendo inconsapevoli dei cambiamenti del mondo, i ragazzi percepiscono che il mondo offre altre opportunità e il vicolo è per loro un po’ una casa, un po’ una prigione. È il caso di Hamida, bellissima e irrequieta, che vorrebbe una vita di avventure e conflitto e non riesce ad accontentarsi della prospettiva di un matrimonio modesto; di Abbas, che di Hamida è innamorato ed è costretto a lasciare il vicolo per cercare fortuna nell’esercito britannico; e di Hussein, che sogna la quotidianità agiata degli occidentali, con l’acqua corrente e l’elettricità in casa.
Fuggire dal vicolo si rivelerà però più difficile del previsto, e in un modo o nell’altro è sempre qui che il destino dei personaggi troverà compimento.
Leggendo Vicolo del mortaio mi è sorto spontaneo pensare alla via del Corno di Pratolini in Cronache di poveri amanti: due minuscoli pezzi di strada inseriti in città molto più grandi e da esse protetti, isolati, in un periodo storico di transizione. In entrambe le storie l’umanità resiste ancorata a un passato che si sta sgretolando e una vaga forma di solidarietà, pur attraverso le maldicenze e i pettegolezzi, sembra ancora possibile.
L’analogia tra due romanzi così diversi sottolinea come entrambi siano ancorati alla tradizione intesa come modo di affrontare la vita, quasi esistesse un codice universale su come sopravvivere alla miseria e alla sofferenza tramite la coralità e la condivisione, a prescindere dalle coordinate geografiche.
Rispetto al romanzo di Pratolini, Vicolo del mortaio ha delle caratteristiche forse inusuali per il lettore occidentale, tra cui la più evidente è una struttura episodica e frammentaria in cui la trama non è un collante strettamente necessario. Il filone narrativo principale è quello di Hamida e Abbas, ma intorno ad esso si sviluppano le vicende di numerosi altri personaggi che vengono introdotti e non necessariamente confluiscono in un intreccio finale tutti insieme. Certo, alcuni tasselli vanno al loro posto, altre porte rimangono aperte, alcuni personaggi – come Zaita, il protettore di mendicanti – vengono tutto sommato descritti per puro colore, senza che la loro presenza sia fondamentale allo svolgimento della storia.
Si tratta di un modo di raccontare a cui forse non siamo abituati ma che è efficace per descrivere il corso della vita vera, che in fin dei conti non ha quasi mai una trama che funziona bene né necessariamente una catarsi finale.
Un lettore ignaro potrebbe forse aspettarsi di trovare in un romanzo arabo degli anni Quaranta una certa misoginia: ma se vi aspettate che nel Vicolo del mortaio le donne siano recluse e lontane dagli eventi, siete vittime di uno stereotipo. Chiaramente il ruolo e la percezione dei personaggi femminili è vincolata all’epoca in cui il romanzo è stato scritto e si svolge, ma questo aspetto non è più accentuato che nella letteratura europea a esso contemporanea.
Il vicolo è pieno di donne intraprendenti, di mogli che picchiano i mariti e tengono le redini delle famiglie, di mezzane che tessono intrighi e ricche vedove ansiose di godersi quel che rimane della vita. Un esempio lampante di ciò è il personaggio di Hamida, la quale incarna pienamente l’idea che un grande romanzo viva una vita propria, indipendentemente dalle idee dell’autore.
È ragionevole pensare che Mahfouz non volesse affatto rendere Hamida un’icona femminista, anzi, la determinazione della ragazza viene spesso etichettata come brutto carattere e il suo arco narrativo ne racconta la perdizione e la dissolutezza. Nonostante ciò, il personaggio è così vivo che oggi non può evitare di suscitare simpatia a lettori e lettrici. Hamida non desidera avere figli, e per questo viene guardata con sospetto dalle altre ragazze, non vorrebbe neanche sposarsi, ma sa bene che non può evitarlo, e spesso rimpiange di non aver imparato un mestiere e di non poter essere indipendente, che in fondo è il suo vero obiettivo. A prescindere dalle intenzioni dell’autore, è difficile non identificarsi in un personaggio così attuale.
Leggere Vicolo del mortaio è quindi in definitiva un ottimo modo per fare un viaggio carico di emozioni, odori e sapori in un Egitto che forse non esiste più, ma anche un’esperienza che fornisce una nuova lente con cui guardare la realtà, universale e intramontabile.
Loreta Minutilli