Claudia Petrucci è nata a Milano nel 1990, ma da tre anni vive a Perth, in Australia. Il 30 gennaio di quest’anno ha esordito con L’esercizio, romanzo che in queste settimane sta raccogliendo numerose recensioni positive su quotidiani, riviste e lit-blog. La sua casa editrice, La Nave di Teseo, lo presenta come «caso editoriale» e ne annuncia la prossima traduzione in Francia e Germania.
L’esercizio è la storia di Filippo e Giorgia, una coppia che, alla soglia dei trent’anni, si ritrova a dover convivere con ambizioni e sogni lasciati nel cassetto. Un giorno, però, Giorgia incontra Mauro, il suo ex insegnante di teatro. Non è l’inizio di un tradimento, ma di un lungo calvario dovuto alla patologia mentale di Giorgia, tornata a galla insieme alla sua passione per il palco. La protagonista femminile diventa così tabula rasa, pagina bianca tutta da riscrivere: è questo l’esercizio che Filippo, guidato da Mauro, si ritrova ad affrontare, in un tortuoso gioco tra realtà e finzione, volti e maschere, persone e personaggi, destinato a svelare ambiguità e contraddizioni dell’individuo e della società contemporanea.
I. Caruso: Filippo e Giorgia rappresentano una giovane coppia come tante: lui reduce dalla facoltà di Lettere, ma costretto a lavorare nel bar di famiglia; lei ex aspirante attrice teatrale, ora commessa in un supermercato. La loro situazione ricorda quella di molti trentenni di oggi, la generazione descritta da Raffaele Alberto Ventura in Teoria della classe disagiata, per intenderci: «Troppo ricchi per rinunciare alle nostre aspirazioni, troppo poveri per realizzarle». Possiamo inserire i tuoi protagonisti all’interno di questo quadro?
C. Petrucci: Sì, assolutamente. Secondo me, la nostra generazione, e mi riferisco a quelli nati intorno al 1990, è una generazione dissociata; siamo stati cresciuti con un’idea di identità che ci è stata imposta e propinata con il messaggio che avremmo potuto fare qualsiasi cosa, scegliere qualsiasi carriera, ma poi, dalla crisi del 2008 in poi in special modo, ci siamo confrontati con una realtà che è diametralmente opposta rispetto a quella che ci era stata raccontata e costruita addosso. Il problema è che quando arrivi a vent’anni con un’idea di te abbastanza precisa, è poi difficile ritrattarla.
È innegabile: la generazione dei trentenni è rovinata. Ma questo non ci giustifica.
La fase più brutale di questo scontro arriva però dopo l’università, quando ci si confronta con il mondo del lavoro: è vero, la nostra generazione si adatta a fare qualsiasi tipo di professione, ma questo non significa che la nostra idea rispetto a noi stessi cambi. Pensiamo ancora in larga parte di poter fare qualsiasi cosa, ma ci riteniamo costretti dalle contingenze a dover fare altro, qualcosa che, nella maggior parte dei casi, non ci soddisfa. Questa dissociazione produce dei mostri nelle relazioni umane e anche una buona dose di masochismo verso sé stessi. In realtà non è colpa di nessuno, poiché nessuno poteva prevedere su che scala quella crisi avrebbe influenzato la nostra vita. È innegabile: la generazione dei trentenni è rovinata. Ma questo non ci giustifica.
IC. Il personaggio di Filippo, però, naviga controcorrente rispetto a questo punto di vista: sembra quasi riuscire ad accontentarsi del lavoro ereditato dai genitori perché, tutto sommato, se per alcuni gestire un bar può sembrare una condanna, per altri potrebbe essere un punto d’arrivo. Eppure, il profilo tracciato nel romanzo pare quello di un perdente.
CP. In realtà è molto difficile esprimere un giudizio rispetto ai personaggi di cui scrivi. Io non ho nessun giudizio da esprimere su nessuno dei tre protagonisti; semplicemente, mi sono limitata a ritrarre quella che secondo me poteva essere una realtà, inserendo delle cause e degli effetti e limitandomi a guardare come avrebbero reagito i personaggi. A parte questo, no: non c’è ovviamente niente di male a fare la cassiera al supermercato. Io vengo da un’esperienza lavorativa molto variegata, ho fatto qualsiasi tipo di lavoro, dalla cameriera nei ristoranti alla commessa, mi sono poi occupata di contenuti culturali e attualmente lavoro in un ufficio e faccio contabilità.
Secondo me, una trasversalità delle professioni non è una cosa negativa, ma dipende da come una persona la vive. Giudicare come il singolo vive il suo impiego al supermercato, per dire, è già più problematico. Nel romanzo, Filippo è contento della sua vita, ma vuole imporre la sua idea a qualcuno che magari ha un’ambizione completamente diversa: è lì che si innesca il problema.
IC. Restando sulla questione generazionale: ritieni che i trentenni siano sufficientemente rappresentati e raccontati nel panorama letterario contemporaneo?
CP. Sì, credo che, soprattutto negli ultimi tempi, ci sia stato dato modo di raccontarci come generazione. Non credo affatto di riempire un vuoto o un’esigenza di tipo letterario in questo senso e nemmeno mi sono posta questo obiettivo quando ho cominciato a scrivere il romanzo.
IC. Veniamo quindi al tuo “esercizio”. Mi ha un po’ sorpreso il fatto che, nelle recensioni che ho avuto modo di leggere in questi giorni, nessuno abbia citato Pirandello.
CP. Ha sorpreso anche a me, in tutta sincerità. Trovo che questo sia un romanzo profondamente pirandelliano. Ho studiato teatro per tanti anni e i primi testi a cui uno si approccia durante le prime esperienze sono proprio quelli di Pirandello, non perché siano i più semplici ma semplicemente perché è un classico fondamentale.
IC. La contiguità tematica tra il tuo romanzo e la sua poetica è innegabile. In che modo pensi di portare avanti il suo discorso, a distanza di un secolo?
CP. I miei riferimenti, alcuni dei quali sono esplicitamente citati nel romanzo, sono ampi, differenti tra loro, connessi al mondo della cinematografia e della drammaturgia. Pirandello ha fatto parte della mia cultura non soltanto durante le scuole superiori, ma anche all’università. Certamente mi sono ispirata ai motivi pirandelliani e dico di più: penso proprio che, se avesse avuto modo di vivere nella nostra società, Pirandello si sarebbe divertito tantissimo. Lo avrebbe interessato più di tutto la maniacalizzazione del nostro giocare sul personaggio, anche in modo inconsapevole: penso ai social media e a come noi operiamo sulla nostra identità, a come la costruiamo, la selezioniamo. Una che abbiamo sempre fatto, certo, perché Pirandello parlava anche di questo, ma che sicuramente oggi è ancora più agghiacciante.
Se avesse avuto modo di vivere nella nostra società, Pirandello si sarebbe divertito tantissimo. Lo avrebbe interessato più di tutto la maniacalizzazione del nostro giocare sul personaggio, anche in modo inconsapevole.
IC. Frammentazione dell’io, impossibilità di raccontare un’unica versione di sé: sono certo caratteristiche insite dell’uomo, ma quanto pensi si stiano accentuando oggigiorno?
CP. È un fenomeno inquietante, ma allo stesso tempo inevitabile. Scegliamo le foto, le inquadrature, i filtri, scegliamo soprattutto una trama della nostra vita che coloro che presumiamo ci stiano guardando possono ricostruire: della nostra vita, oggi, fanno parte certi tipi di ristoranti, certi tipi di attività ludico-ricreative, certi tipi di modi di raccontare il nostro lavoro o la nostra banale quotidianità, o di non raccontarla proprio.
Siamo stati allenati allo storytelling ma senza rendercene conto: noi facciamo storytelling delle nostre vite quotidiane, a volte anche con risultati più o meno soddisfacenti, e nel romanzo questo discorso torna perché ci sono diversi modi di vedere il personaggio e le trame, alcuni più funzionanti e vincenti, altri meno. Quindi: sì, ci siamo impelagati in questa impresa di raccontarci; se la vediamo come puro intrattenimento è certamente più divertente, se ci convinciamo di essere veramente le persone che raccontiamo di essere, allora diventa pericoloso.
IC. Un’altra tematica pirandelliana, che nel tuo romanzo riveste un ruolo narrativamente portante, è la pazzia. Giorgia si ritrova presto a frequentare un ospedale psichiatrico: dalla descrizione della vicenda, emerge una conoscenza piuttosto consapevole dell’argomento. Come ci sei arrivata?
CP. Per raccontare la schizofrenia paranoide, che è la patologia di cui soffre Giorgia, ho ricevuto l’aiuto di un medico, con il quale mi sono confrontata per arrivare a un racconto che potesse essere il più possibile veritiero e clinicamente attendibile. In più, uno dei testi fondamentali per la stesura del romanzo è stato il saggio di Oliver Sacks L’uomo che scambiò sua moglie per un cappello, in cui vengono riportate principalmente esperienze di pazienti con danneggiamenti al lobo frontale del cervello.
E poi c’è la mia vita personale: ho avuto esperienza di persone a me care che si sono ritrovate a dover frequentare ospedali psichiatrici, e durante l’adolescenza ho avuto degli incontri molti particolari: ricordo tutt’ora una ragazza convinta di essere Bin Laden. Perché la schizofrenia è la perdita dell’identità, il malato schizofrenico non si riconosce più. Questo è quello che succede a Giorgia e amplifica la crudeltà del gesto dei due protagonisti maschili che non sono disposti a fermarsi nemmeno di fronte a una debolezza così grande.
La schizofrenia è la perdita dell’identità, il malato schizofrenico non si riconosce più. Questo è quello che succede a Giorgia e amplifica la crudeltà del gesto dei due protagonisti maschili.
IC. A proposito di questo: possiamo leggere un intento politico nella vicenda dei due personaggi maschili che giocano, sfruttano a loro vantaggio la debolezza di una protagonista femminile?
CP. No, non la leggerei in questo modo. Trovo che, se si va un po’ più a fondo, sia Filippo che Mauro sono a loro volta vittime dello stesso meccanismo. Anche a loro vengono imposte delle identità dalle rispettive famiglie: Filippo riceve un’imposizione d’identità da parte di sua madre e lo stesso accade in qualche modo a Mauro. Penso sia più un farsi del male reciproco, a parte Giorgia che non può fare del male perché semplicemente è innocua poiché malata, ma tutti gli altri personaggi sono giocatori e allo stesso tempo vittime del gioco.
IC. Nel corso della stesura hai mai avvertito il timore che l’esercizio svolto da Filippo e Mauro potesse diventare davvero troppo un “esercizio” e troppo poco un romanzo? Mi spiego meglio: hai mai pensato che il ragionamento e l’approfondimento metaletterario potessero sopraffare quelli che sono gli altri aspetti del libro?
CP. Il rischio di perdere la presa sulla parte più umana del racconto c’era, ed è diventato molto pericoloso quando ho cominciato a trattare, appunto, la parte metaletteraria del testo, quando cioè si comincia a parlare della costruzione del personaggio, di come lo si dovrebbe scrivere o meno. Ho cercato di evitarlo dandomi un limite massimo di giorni, mesi, in cui avrei dovuto completare la stesura: così facendo, sono rimasta il più possibile dentro la dimensione narrativa, mi sono concentrata maggiormente sul piano emotivo della storia, sulle vicende dei personaggi, senza perdere la presa umana sui protagonisti.
IC. Mi chiedevo, a tal proposito, se ti fosse mai venuto il dubbio di scrivere un libro non proprio adatto a quel tipo di lettore, ormai raro, che legge per il piacere di leggere, senza coltivare alcuna velleità di scrittore.
CP. Esatto. Tra l’altro, da questo punto di vista è stato per me un esercizio molto divertente.
IC. Per quanto riguarda la visione dell’amore che emerge dal romanzo: nella fase iniziale il sentimento di Filippo verso Giorgia è quasi commovente, è praticamente impossibile non entrare in empatica con lui poiché si tratta, in fondo, di un povero giovane ragazzo che vede la sua povera giovane ragazza svanire dentro alla malattia. Con il proseguire della storia, però, si ha come l’impressione che la lezione del romanzo sia un’altra, ovvero che il sentimento amoroso non sia altro che la più dolce e impetuosa forma di manipolazione tra esseri umani. Pensi che questa definizione possa calzare?
CP. Sì, secondo me sì. Può anche essere questo. Ed è molto più facile che sia questo rispetto al sentimento puro che noi ci raccontiamo. Il punto è: quando scegliamo la trama della nostra vita, inserendoci le persone che ci circondano, come reagiamo quando poi queste persone non rispondono ai canoni che noi gli abbiamo imposto, e che abbiamo imposto a noi stessi? È molto, direi, tricky, ma è un anglicismo orribile.
Mi piaceva insomma questo fatto, che il protagonista fosse un perdente con il quale fosse facile empatizzare, che fosse facile compatirlo e che, malgrado tutto questo, attuasse un comportamento ingiustificabile: perché il fatto che Filippo abbia una vita orribile, che abbia dovuto rinunciare ai suoi sogni o che comunque sia apparentemente molto innamorato di Giorgia non lo giustifica, né giustifica noi stessi quando manipoliamo gli altri. Eppure, non possiamo farne a meno e spesso lo facciamo in modo inconsapevole.
Mi piaceva questo fatto, che il protagonista fosse un perdente con il quale fosse facile empatizzare, che fosse facile compatirlo e che, malgrado tutto questo, attuasse un comportamento ingiustificabile.
IC. Molto spesso, in interviste, manuali, saggi, conversazioni, molti scrittori sostengono di avere un rapporto conflittuale con i propri personaggi, i quali, a un certo punto, cominciano ad agire da soli. È un po’ quello che succede a livello metaletterario nella “riscrittura” di Giorgia operata da Filippo. Senti di accodarti a questa teoria, ovvero che quando un personaggio è ben delineato e definito, allora comincia a “vivere da solo”, o è invece una cosa che si racconta con il subdolo scopo di occultare i reali meccanismi della narrazione e ammaliare lettori e pubblico?
CP. Credo sia verissimo. Scrivendo racconti mi è capitato di avere a che fare con personaggi che da un certo punto in poi si muovono da soli e vanno esclusivamente assecondati. In questo romanzo, però, ho dovuto essere più prepotente, non ho permesso ai personaggi di avere molta libertà di manovra: l’argomento era troppo rischioso e preciso, i livelli di lettura erano forse troppo numerosi, quindi non c’è stata l’occasione di poter far muovere i personaggi liberamente come di solito ero abituata a fare nei racconti o in altri progetti. Sono stata tirannica perché mi premeva isolare e affrontare al meglio certe tematiche.
IC. Da qualche anno vivi in Australia. Cambiare luogo è un po’ come ricominciare una nuova vita, ci permette in qualche modo liberarci dell’identità che ci eravamo costruiti, o che ci avevano costruito intorno, nel nostro luogo d’origine. Non so se e quanto nella tua vita sia stata abituata a ricominciare, a dover di volta in volta ricostruire e ricostruirti, ma ti chiedo se gli spostamenti, la decisione di vivere dall’altra parte del mondo soprattutto, ti abbiano in qualche modo influenzato e portato a fare delle riflessioni sul tema dell’identità individuale in rapporto agli altri, se ti sia mai sentita libera di poter essere un’altra, se, insomma, tutto questo abbia contribuito all’elaborazione di quella che è una delle tematiche principali del romanzo.
CP. Fin da piccola sono stata abituata a sradicarmi e a radicarmi in luoghi diversi. I miei genitori sono nati e cresciuti a Milano, ma dopo la mia nascita si sono trasferiti in Salento. Io sono cresciuta lì, per poi spostarmi nuovamente a Milano, quindi a Torino. Se questo procedere fino ai 26 anni è stato interessante, divertente, stimolante, il trasferimento dall’Italia all’Australia è stato invece traumatico: avevo un’altra età e in Italia lasciavo un contesto strutturato sia in famiglia che nelle amicizie.
Trasferirsi in un posto dove non sei in grado, almeno non immediatamente, di esprimere chi sei, quello che pensi, per ovvie limitazioni linguistiche è stato davvero difficile, perché finché si tratta di parlare italiano con un accento diverso è un conto, ma quando non puoi parlare la tua lingua e a volte neanche proprio parlare, è lì che il concetto di identità scricchiola. Così ho capito che larga parte di chi ero e cos’ero quand’ero in Italia apparteneva alle persone che io avevo intorno, io mi specchiavo in loro e loro mi restituivano un’idea di chi io fossi: tutto era molto chiaro, preciso, stabile; ma quando tutto questo è venuto meno, ho dovuto affrontare un percorso sì interessante, ma anche difficile, logorante, doloroso.
IC. Pensi che vivere in un contesto straniero, anglofono, abbia influenzato lo stile della tua lingua letteraria?
CP. Certamente sì. Quando mi sono trasferita, la mia scrittura era sicuramente meno matura, ma la mia lingua era più pulita. In Australia ho iniziato a lavorare e quindi a parlare e scrivere in inglese, e quando tornavo a casa, la sera, e mi mettevo a scrivere in italiano, il risultato era per forza di cose influenzato dalla quotidianità. Nel testo, tra l’altro, sono presenti alcuni anglicismi che abbiamo deciso di lasciare perché ormai fanno parte della mia lingua. Quest’ultima è però il risultato di un lavoro di disciplina che ho dovuto fare data la complessità, la stratificazione della narrazione. Ho cercato di lavorare sulla mia lingua in modo che potesse lasciar spazio alla storia.
Ho cercato di lavorare sulla mia lingua in modo che potesse lasciar spazio alla storia.
IC. I tuoi personaggi sembrano avere un rapporto conflittuale con il passato. Filippo, durante l’esercizio, vive e rivive i propri ricordi senza che questi lo possano mai abbandonare.
CP. Il ruolo del passato all’interno della storia è puramente narrativo. Filippo ricostruisce una sua idea di passato e quando va a fare una selezione dei ricordi da cui deve trarre spunto per ricostruire Giorgia, sceglie sulla base di quello che gli interessa di più, che ritiene economico al suo scopo, più interessante al livello di costruzione della nuova personalità della persona che ama. Ovviamente, fa tutto questo in modo non cosciente, confuso, come del resto facciamo tutti quando ci raccontiamo la storia della nostra vita: scegliamo solo gli eventi che ci piace raccontare. Mauro tende invece a vivere nel presente, non perché non sia in grado di ricostruire il suo passato, quanto perché gli risulta più utile per guidare, controllare e manipolare le persone che ha vicino.
IC. Su Il rifugio dell’Ircocervo parliamo spesso di esordi. Ti andrebbe di raccontarci il percorso che ti ha portato alla pubblicazione de L’esercizio?
CP. Nel 2016, prima di lasciare l’Italia, sono stata a un incontro del Premio Calvino, organizzato a Torino, dal titolo “Esordienti nella rete”. Tra i relatori c’era Vanni Santoni, che ha spiegato un po’ il suo vademecum per l’aspirante scrittore, riportato tra l’altro in vari articoli, ossia: aprire un blog o un sito web; scrivere per le riviste letterarie; inviare i propri testi ai premi. Io ho fatto esattamente quello che Vanni Santoni ha detto: quando sono arrivata in Australia, pur non avendo tantissimo tempo, scrivevo racconti di notte e li inviavo alle riviste, e allo stesso tempo scrivevo sul mio blog; nel 2019 ho cominciato a inviare il romanzo a vari premi letterari e ho attirato l’attenzione di un’agenzia letteraria, The Italian Literary Agency, che ha cominciato a rappresentarmi. E poi, eccoci qua.
Intervista di Ignazio Caruso
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