Topeka School, Ben Lerner
(Sellerio, 2020 – trad. di M. Testa)
Alcuni anni fa mi sono imbattuto in un libro che in quel momento era al centro di una tempesta di commenti, e mentre leggevo, steso sul letto di camera mia, attento a maneggiare il volume con cura per non rovinare la carta vergata degli spigoli, non lo sapevo. Mi approcciavo alla narrativa, e cerco di farlo ancora, con la maggiore purezza possibile: solo nella mia bolla, leggevo e basta, estraneo a quello che si diceva. Il libro si chiamava Nel mondo a venire, l’aveva scritto Ben Lerner, un americano; pochi mesi dopo l’avevo già dimenticato.
Successivamente sono venuto a sapere che avevano definito quel romanzo come la strada che la letteratura avrebbe potuto prendere nel futuro – potuto o dovuto?, era un suggerimento o un ordine?, chi è che l’aveva deciso? Io non capivo, e in buona parte non capisco ancora adesso; a volte penso di essere un reazionario: troppo attaccato ai meccanismi drammaturgici, agli aspetti puramente finzionali della narrativa, e quel romanzo, che della trama non aveva neanche l’ombra, mi era sembrato manchevole sotto parecchi punti di vista. Anche se – e questa cosa mi inquietava perché faticavo a comprenderla – l’avevo divorato in due giorni.
Poi Ben Lerner, l’americano, pubblica un altro romanzo: Topeka School. Nella quarta di copertina si parla di una famiglia americana, e siccome queste due parole – chi fa editoria probabilmente ne è consapevole – agiscono come un campanello pavloviano, richiamano il ricordo di meravigliose letture passate, ho deciso di dargli una possibilità. Sempre la stessa attenzione nel maneggiare quella carta delicata, il timore di rovinare gli spigoli con il sudore delle mani. Sempre gli stessi tratti tipici dell’autore, che subito mi hanno riportato alla prosa di Nel mondo a venire: riferimenti colti all’arte, alla musica, alla politica, personaggi nevrotici in cerca di qualcosa che neanche loro saprebbero definire con esattezza. È tutto uguale, ma è tutto così diverso.
La storia – se così si può chiamare – intanto è molto più complessa: ci sono tre voci, di un ragazzo e dei suoi genitori, che si alternano aggiungendo ogni volta un pezzo, non necessariamente contiguo a quello precedente sebbene essenziale per comprenderlo a pieno. Il ragazzo, Adam, è una specie di enfant prodige: è all’ultimo anno del college e gareggia in queste competizioni nazionali di retorica, in cui bisogna argomentare una tesi sui temi più disparati cercando di asfaltare l’avversario. La sua arma sono le parole: che pronuncia alla velocità della luce e che si accumulano nella sua mente ancora più rapide, permettendogli di sovrapporre pensieri, di inventare un testo rap e parlare con la nonna nello stesso momento. I genitori, Jonathan e Jane, sono psichiatri, collaborano con una importante clinica, la Fondazione, e naturalmente si trovano a fare i conti con l’ipotesi di una infedeltà coniugale.
Non è importante ricordare esattamente quello che succede: è un romanzo, questo, che non va attraversato con l’idea dell’orizzontalità classica a cui siamo sempre stati abituati: assomiglia più a una forma solida, qualcosa di tridimensionale, una strada esplosa in ogni direzione. Non so se Ben Lerner sia migliorato rispetto al libro precedente o se, più probabilmente, con il tempo sono maturato io, ma stavolta questo romanzo mi è sembrato evidentemente frutto di una struttura solidissima, benché non convenzionale: a dispetto dell’apparente dispersività riuscivo a intravedere i lacci che tenevano tutto insieme; ogni singolo punto, per quanto isolato e indipendente rispetto al meccanismo della trama principale, mi è sembrato indispensabile e traboccante di ricchezza.
A sostenere i fatti che accadono dentro a questo romanzo c’è infatti un’unica, grande, anima: il maschio occidentale, la storia della violenza: è qualcosa che vive in modi diversi in tutti i personaggi del libro, trovando a ogni pagina una specifica formulazione, una sfumatura distinta. Adesso non è rilevante discutere su come la tematica è stata sviscerata – anche perché sono tra quelli che ritengono che l’arte sia essenzialmente una questione di forma – quello che conta è confermare che nonostante il timore (o il piacere) della novità che questo romanzo può incutere, il suo modo di essere diverso è incredibilmente tradizionale: in certe occasioni ho sentito i brividi, mi sono emozionato esattamente come quando leggo Furore o Grandi speranze, e alla fine di tutto il viaggio i personaggi hanno cominciato a mancarmi.
Infine per qualcuno potrebbe essere rilevante sapere – per me non lo è affatto – che questo romanzo, non meno del precedente, attinge a piene mani dalla vita dell’autore. Ben Lerner è davvero nato a Topeka, ha scritto poesie, sua madre è davvero un’autrice femminista di fama mondiale, nonché psichiatra. È probabile che Adam sia uno pseudonimo per parlare in realtà di Ben, e che con questo romanzo l’autore sia riuscito a riappropriarsi di una parte della propria adolescenza, o più in generale della propria vita (la terza persona di Adam che diventa prima persona nel capitolo finale), di fare i conti con un drago interiore. Se tutto questo è vero, gli va solo il merito di essere riuscito a raccontare la propria esistenza non con la posa di chi pretende di scrivere un memoir, ma con il controllo della pagina, con la fascinazione che hanno solo i grandi romanzieri.
Difficilmente leggerete qualcosa di simile a questo libro: assolutamente refrattario a qualsiasi genere di moda, unico e originale, per niente seducente, ma toccante e intelligentissimo, stimolante e allo stesso tempo difficile. Queste sono opere che non possono andare via con il transito da una stagione editoriale all’altra, non possono essere lette e messe da parte dopo una foto alla copertina da pubblicare su Instagram – si spogliano un poco alla volta, necessitano di essere riaperte per svelarne il mistero. Sono come i film di Fellini o i quadri di Bosch, devi uscire e rientrarci più volte: cambiano insieme a te, ogni volta ci trovi dentro qualcosa di diverso, ogni volta ti sembra di averli afferrati interamente e invece un pezzo ancora ti manca.
Pierpaolo Moscatello
(La foto in copertina è stata presa da qui. Non sono state apportate modifiche.)
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