Come imparare la tempesta: intervista a Emanuela Canepa

canepa_copIl secondo romanzo di Emanuela Canepa, vincitrice della XXX edizione del Premio Calvino con L’animale femmina, è in libreria per Einaudi Stile Libero. Si intitola Insegnami la tempesta e i suoi personaggi principali sono tre donne: Emma, Matilde e Irene; una madre, una figlia e una suora di clausura. Le relazioni burrascose tra queste tre donne danno origine a una trama che tocca i temi della maternità e della libertà e indaga come queste due parole possono conciliarsi.

L.Minutilli: La prima cosa del romanzo che mi ha attratta è stato il titolo: è perentorio ed evocativo e impone subito di cominciare la lettura. A quale “tempesta” si riferisce e chi la insegna?

E.Canepa: L’ho sentita come una sorta di invocazione di Emma a Matilde, la madre alla figlia. Nel romanzo ho cercato di essere equanime nel rappresentarle, senza parteggiare per nessuna delle due. Tuttavia sento di assomigliare molto più alla figlia che alla madre, e più in generale credo che la fermezza di Matilde, la sua determinazione a decidere per sé anche contro la logica e il buon senso, abbia possibilità più concrete di renderla felice di quanto ne abbia avute invece l’acquiescenza della madre. Matilde è una portatrice di tempesta con la stessa forza con cui Emma rifugge dal conflitto. Questo però non ha reso Emma felice. Mi piaceva immaginare che in un futuro non compreso dallo spazio circoscritto del romanzo, potesse rendersene conto, e avesse la forza di rivolgere alla figlia questa precisa richiesta: insegnami a praticare la tua tempesta.

LM: Al centro di Insegnami la tempesta c’è il concetto di conflitto: quello tra la protagonista Emma e sua figlia Matilde, ma anche tra Emma e Irene, l’amica della sua giovinezza. Anche il tuo processo di scrittura è nato da un conflitto?

EC: Immagino si possa dire che, al di là dei testi di puro intrattenimento, la scrittura ha sempre a che fare con qualche forma di conflitto, non fosse altro perché il conflittto è la dinamica con cui più comunemente ci confrontiamo. La vita è conflitto, per tutti, anche per quelli come noi che hanno la fortuna di vivere nella parte più quieta del mondo. Il conflitto tra concretezza e aspirazioni, desiderio di intimità e terrore del contatto, ambizioni e frustrazioni, oltre al più bruciante di tutti, la distanza fra ciò che siamo e l’immagine ideale a cui tendiamo sapendo di essere destinati a non realizzarla mai. Immagino che la scrittura sia una delle tante vie che ci consente di tentare una conciliazione con questa realtà frammentata e sostanzialmente irriducibile all’unità.

LM: Il desiderio di Emma di far parte della vita di Matilde è descritto in maniera quasi morbosa e molto interessante. Ho sempre pensato che l’istinto materno fosse del tutto disinteressato e proiettato sul bene dei figli, tu invece ne mostri un lato più ombroso, egoista e struggente, e probabilmente anche più vero. Cosa ti ha portata a costruire il personaggio di Emma in questo modo?

EC: Sono contenta che tu legga Emma in questi termini, perché c’è chi invece mi dice l’opposto, si identifica con lei e non comprende le ragioni di Matilde. Credo che per uno scrittore ci siano poche cose più gratificanti di questa. Significa che i personaggi non sono stilizzati, che hanno tridimensionalità, e per conseguenza ognuno si sente attratto dallo specchio che gli rimanda l’immagine che sente più affine, che è poi la stessa dinamica con cui scegliamo le persone care della nostra vita. Come dicevo prima, però, ho fatto ogni sforzo per non schierarmi, e per mostrare di Emma e di Matilde zone di luce e aree d’ombra. Mi interessava tentare una riflessione sulla maternità che conciliasse gli estremi che spesso l’accompagnano, quella parabola manichea in cui le due polarità sono rappresentate da Medea e dalla Madonna. Le madri sono esseri umani come tutti, che affrontano una sfida trasformativa radicale. Aspettarsi che debbano farlo dagli altari della santità incorrotta o dagli inferi della perversione è irrealistico e infantile. Si può amare moltissimo e sbagliare gravemente, questo non attenua né l’amore né l’errore. Emma è un essere umano. Non mi interessava assolverla, meno che mai condannarla. Mi interessava rappresentarla nella sua verità. Che, come tutto ciò che attiene alla natura umana, è profondamente contraddittoria.

LM: « [..] le ho chiesto cos’è secondo lei una donna, rispetto ai figli che decide di avere, oppure che rinuncia ad avere. È una cosa che comunque ti definisce, vuota o piena che sia» [p. 229]. Le donne, dunque, non possono evitare di fare i conti con l’idea di maternità, ma la prospettiva di dover crescere un figlio è sempre meno conciliabile con l’immagine di donna moderna e in carriera che tutte vogliamo diventare: Emma stessa ha dovuto rinunciare agli studi per crescere Matilde. Che ne è, nel frattempo, degli uomini e della paternità?

EC: Faccio molta fatica a rispondere a questa domanda perché non ho basi teoriche per tentare un’analisi e neppure mi aiuta l’esperienza diretta. Non ho figli, e quindi non ho avuto l’opportunità di confrontarmi con un padre. Certo, c’è il mio, ma lì parliamo di un’altra generazione mentre tu mi chiedevi della situazione attuale. È vero che questo avrebbe dovuto rendermi altrettanto complesso riflettere sulla maternità di Emma (e di Matilde) ma lì probabilmente è intervenuto un fattore di identificazione sessuale. Come nel passo che hai citato, credo – non da molto in effetti, è una cosa che non avrei detto anche solo due o tre anni fa – che la maternità sia appunto una dimensione con cui devi confrontarti, anche quando, come nel mio caso, scegli consapevolmente di non accoglierla. È un potenziale che ti appartiene, fermo restando il tuo pieno e inalienabile diritto a sperimentarla o meno. Ma non è solo un ruolo, è anche una funzione, peraltro della natura umana, praticabile quindi dalle donne come dagli uomini. La vita ti mette comunque ripetutamente nelle condizioni di esercitarla in qualche modo, se non biologicamente, almeno a livello psicologico, emotivo. Ci sono infinite declinazioni di maternità. Per la paternità invece i miei termini di confronto sono molto meno presenti, ed è per questo che non riesco a risponderti.

LM: Il romanzo tocca alcuni temi importanti, come le difficoltà incontrate nel pianificare un’interruzione di gravidanza e la solitudine e la disinformazione che possono affliggere una donna durante il parto. Entrambe le situazioni sono descritte con molta delicatezza, Emma non subisce ingiustizie tremende né incontra mostri senza cuore nel suo percorso, ma emerge comunque l’esistenza di un problema nel modo in cui ci si approccia alle madri, specie se giovani e sole. Come hai deciso come raccontare la gravidanza e il parto di Emma? Pensi che sia cambiato qualcosa per le giovani madri negli ultimi vent’anni?

EC: Di nuovo sono molto felice della tua lettura. Avevo la precisa volontà di non traumatizzare apertamente Emma durante il parto, perché, in un certo senso, sarebbe stato un atto narrativo assolutorio. Come sempre accade quando crei un fronte in cui opponi Buoni e Cattivi, per il lettore diventa facile schierarsi. Aiuta la catarsi, ma non è molto funzionale a capire la vita, che è più complessa di così. Diventare madri comporta farsi carico, volenti o nolenti, di un immaginario che può essere schiacciante. Quanto pesi questo giudizio, quanta prescrittività ci sia intorno al comportamento atteso delle madri, te lo dice il fatto che quando ho cominciato a scrivere il romanzo c’è stato chi mi ha manifestato profondo disaccordo perché, appunto, io non ho figli. Come se anche solo raccontarlo fosse un atto moralmente discutibile. Se avessi scritto un romanzo su un personaggio storico vissuto ottocento anni fa, o su un alieno a tre teste, nessuno avrebbe avuto da ridire, e non credo si possa mettere in dubbio che anche in quel caso la mia esperienza personale sarebbe stato lacunosa. Ma quando si mette in mezzo la maternità, anche solo narrativamente, entrano in gioco diktat che pesano come tavole della legge, e per una madre prendere le distanze da tutto questo – le aspettative che si vengono ad accumulare intorno a lei – e riuscire a trovare la propria via nel rispetto della sua vocazione, può essere difficile e doloroso. In particolare, il capitolo del parto di Emma è il mio personale tributo a un problema che sento molto e di cui si parla in fondo davvero poco, quello della violenza ostetrica. Una donna su quattro durante il parto passa attraverso esperienze di grande difficoltà e di mancato supporto. A volte occorrono anni per dimenticare il modo in cui vengono trattate in condizione di massima vulnerabilità.

LM: La vocazione di Irene, ricordata da Emma come uno spirito libero e indomabile, è tra gli aspetti della storia che mi hanno più intrigata. Cosa ti ha spinto a scrivere di una suora e cosa, secondo te, potrebbe portare una ragazza dei giorni nostri a scegliere la clausura?

EC: Mi rendo conto che può suonare come un paradosso ma io condivido ogni parola che Irene pronuncia sulla massima libertà consentita dalla clausura e dal silenzio. Il paradosso è conseguenza del fatto che la mia ammissione non è a base confessionale. Non sono cattolica, quindi il fascino che esercita la clausura su di me non si basa sulla fede. Eppure la percepisco come la più alta forma di libertà possibile. È stato sempre così, ma rispetto alla vita che tutti facciamo oggi è ancora più manifesto. La realtà del mondo digitalizzato vincola ininterrottamente la nostra attenzione a qualcosa che è al di fuori di noi, senza alcun rispetto per la verità e i tempi del mondo interiore. La vita strepita senza sosta, e in questo caos inesausto nessuna attivazione di un occhio interiore è possibile, a meno di non fare sforzi enormi per ritagliarsi spazi di senso. La clausura formalizza in modo empirico il distacco da tutto, lo rende infrangibile e inattaccabile. Sono certa che doni in cambio una pienezza assoluta.

LM: Dopo il successo de L’animale femmina, Insegnami la tempesta è il tuo secondo romanzo. Com’è stato questo tuo primo anno da scrittrice e qual è il tuo consiglio per un aspirante esordiente?

EC: È stato agitato, decisamente. Sempre su un treno. Ma bellissimo, non rimpiango nulla. E i consigli per gli esordienti sono gli stessi che mi sentirai di dare a chiunque, in qualsiasi ambito: fate le cose che vi divertono. E se smettono di divertivi, passate ad altro.

 

a cura di Loreta Minutilli

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