Celestia appoggiata sul mare

Celestia voll.1-2, Manuele Fior
(Oblomov Edizioni, 2019-2020)

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A Venezia, nel sestiere di Dorsoduro, è possibile entrare – ovviamente pagando il biglietto d’ingresso – nel palazzo Venier dei Leoni, sede della Peggy Guggenheim Collection. Una volta dentro, girovagando tra le mura bianche delle piccole sale del museo stracolme d’opere d’arte, ecco che, all’improvviso, ci troviamo di fronte a L’impero delle luci di René Magritte, nella fattispecie quello dipinto dall’artista belga a cavallo tra il 1953 e il 1954. Capolavoro del surrealismo, il quadro (come pure i suoi “fratelli” sparsi qua e là per il globo) mostra nella metà inferiore una casa immersa nel buio della notte, e nella metà superiore un cielo luminoso, colorato con le tinte celesti del giorno e popolato da una moltitudine di nuvole fluttuanti. I due ambienti sono verosimili se presi singolarmente (resi tali anche dal preciso stile pittorico dell’artista), ma quando l’occhio osserva la scena nella sua interezza si palesa il paradosso: la forza suggestiva del dipinto è formidabile, capace di smuovere sentimenti antitetici di speranza, malinconia, felicità, paura; l’artista gioca proprio su questo ossimoro per ricreare un contesto duale in cui la mente si scinde e percorre diverse vie ignote, senza più riconoscere il confine tra sogno e realtà.

Ciò avviene in maniera simile anche leggendo Celestia di Manuele Fior (o almeno a me è capitato, anche per via di ovvie analogie cromatiche) e immergendosi a capofitto nell’universo narrativo multiforme e cangiante creato dall’autore. Proprio a partire dalla Venezia concreta, il fumettista cesenate ha deciso di ricreare un’altra città, diversa eppure uguale: questa è Celestia, e rappresenta un luogo-non-luogo apparentemente svincolato da ogni logica spazio-temporale, in costante bilico tra immaginario e concreto. È un ambiente duale, ostile e dimentico del passato, ma, contemporaneamente, anche culla di una vasta cultura e di una sapienza che proviene da lontano e porta lontano.

Più che della trama in sé, infatti, per presentare l’opera è forse più efficace parlare dell’ambientazione, del contesto (che poi dà il titolo ai due volumi): ci troviamo in un futuro imprecisato, a Celestia, una città costruita sull’acqua più di mille anni fa. Qui si sono rifugiati gli uomini che scappavano dalla Grande Invasione proveniente dal sud. Per scampare alla catastrofe, si è deciso di recidere ogni collegamento con la terraferma, perciò è stato fatto esplodere il ponte che univa la città alla costa (vale a dire il Ponte della Libertà). Celestia è rimasta così isolata dal resto del mondo ed è diventata un altro mondo in miniatura, racchiuso dalle acque. L’isolamento della città sembra fare eco alle parole di Francesco Guccini (o megli, di Gian Piero Alloisio) nell’album Metropolis:

Venezia è un imbroglio che riempie la testa soltanto di fatalità:
del resto del mondo non sai più una sega, Venezia è la gente che se ne frega! [1]

Tra le calli desolate si aggirano loschi figuri, criminali che tengono sotto scacco una popolazione stravagante alla continua ricerca di oggetti e cibo, di risorse commerciabili solo attraverso il baratto. Celestia rappresenta così una realtà aspra, una “terra” di frontiera sull’orlo della barbarie, ma non solo; è anche un luogo in cui si praticano e si studiano arti e scienze antiche per sondare l’ignoto: nella desolazione del mondo esterno, alcuni uomini hanno iniziato a specchiarsi nell’acqua e a osservarsi non solo esteriormente, ma anche interiormente, esplorando i più remoti anfratti della mente umana.

Esiste infatti una setta di telepati – capeggiata dal Dottor Vivaldi – che si nasconde nelle pieghe stesse dell’architettura della città: questa congrega rappresenta un alveare di menti tutte rivolte al perfezionamento delle proprie abilità psichiche con l’obiettivo di prendere, un giorno, il controllo della stessa Celestia. Dunque, la telepatia ritorna ancora una volta a impregnare le pagine delle opere di Fior: accadeva ne L’intervista (Coconino Press, 2013) e ne I giorni della merla, fumetto che dava il nome alla raccolta pubblicata da Coconino Press nel 2016.

Proprio a partire da L’intervista è possibile iniziare un ragionamento sull’attuale Celestia: infatti, anche nel precedente fumetto del 2013 di Fior ci ritrovavamo catapultati nel futuro. L’Italia era cambiata in seguiti ai cosiddetti “Moti del 2021” (che avevano portato a una “Disunificazione”). Nonostante la collocazione storico-geografica fosse ben precisa – vale a dire Udine, anno 2048 -, il passato assumeva una connotazione nebulosa, risucchiato dalle nebbie del tempo e come sottratto al presente.

Anche in Celestia il passato indossa queste stesse vesti opache. Fior afferma che “qualcosa è successo”, vale a dire la fantomatica Grande Invasione: facendo un parallelismo letterario, Celestia sembra assumere le stesse connotazioni surreali della stazione in cui giunge il treno al termine del racconto Qualcosa era successo di Dino Buzzati

Che cosa era successo? In città non avremmo più trovato un’anima? Finché la voce di una donna, altissima e violenta come uno sparo, ci diede un brivido. «Aiuto! Aiuto!» urlava e il grido si ripercosse sotto le vitree volte con la vacua sonorità dei luoghi per sempre abbandonati. [2]

Così appare Celestia agli occhi (o agli orecchi, ma vogliate concedermi la sinestesia) dei lettori: un luogo per sempre abbandonato e infuso di una vacua sonorità. Attraverso le strette vie, ricavate tra i palazzi affacciati sull’acqua, possiamo immaginare il propagarsi di una voce muta, che racconta di violenti sconvolgimenti. Ecco che l’eco di un passato catastrofico richiama le atmosfere di film di animazione (e manga) come Nausicaä della valle del vento (1984) o Laputa – Castello nel cielo (1986) di Hayao Miyazaki – con cui il fumetto condivide anche la grazia e l’attenzione alle tinte fredde e morbide del cielo.

In Celestia, passato e futuro si diluiscono e si comprimono in un eterno presente che si fa fluido e turbolento: in questa corrente di eventi si ritrovano invischiati Pierrot e Dora, i due giovani protagonisti della storia: Pierrot (ispirato alla maschera cinquecentesca, con anche la tipica lacrima dipinta sul viso) è un ragazzo forte, introverso, curioso, mentre Dora la telepate, con la sua schiettezza e semplicità, è oramai un personaggio ben conosciuto, feticcio di Fior dai tempi de L’intervista (e presente anche ne I giorni della merla). Braccati dai criminali di Celestia, la coppia cerca la salvezza lontano dalla città: scappano da Celestia, prendendo la via del mare, fino a raggiungere la terraferma.

Ne La strada di Cormac McCarthy l’umanità era stata colpita da una devastazione sconosciuta e la terra ridotta a una lugubre landa desertica. Nel presente fumetto, invece, le visioni di una realtà post-apocalittiche sono antitetiche e declinate in una sorta di luminosa desolazione mediterranea (comunque molto diversa dalla effettiva costa veneta). È pure curioso notare come la città di Celestia, luogo di speranza e salvezza, sia spesso descritta cromaticamente con tinte fosche (o con rossi torbidi e violenti), mentre il mondo esterno, ritenuto pericoloso, appaia invece vivido, caldo, accogliente. All’interno di questa ambientazione spoglia ma vivace – che rappresenta in maniera atipica il mondo colpito dalla calamità -, Pierrot e Dora affrontano una curiosa avventura, durante la quale spiccano diversi incontri (dal fascino lynchano) con strani individui che abitando castelli, fortezze e bastioni dalle architetture moderne.

La trama è aggraziata, ricamata con leggerezza sulle tavole e composta da una sequenza  ondeggiante di eventi: impeto e calma, azioni e distensioni si susseguono in una libera progressione che alle volte ricorda il Satyricon di Federico Fellini. Proprio in fede di quanto detto precedentemente sulla commistione tra passato e futuro, Manuele Fior si dimostra estremamente abile nel saper infondere la sua opera di una ambivalenza preziosa di fantascienza e classicismo: ne deriva uno sci-fi classico (difatti, anche il viaggio oltre i confini dell’isola di Pierrot e Dora assume quasi la connotazione di un’impresa mitologica verso l’ignoto, come poteva essere il superamento delle Colonne d’Ercole).

Così, sfogliando le pagine è possibile osservare sequenze che danzano tra cinema di fantascienza e pittura, che mescolano insieme i dipinti di Rothko con le scene psichedeliche di 2001: Odissea nello spazio (come pure affermato in questa intervista dallo stesso Fior) o del Tron originale del 1982. Ma non solo; filtra dalle pagine anche una certa malinconia e un senso di smarrimento di sé che sembra richiamare i momenti più angoscianti del film Solaris del 1972 (e anche ne L’intervista una particolare sequenza ricordava molto alcune scene in automobile del capolavoro di Andrej Tarkovskij).

Fior, ancora una volta, si dimostra estremamente abile nel saper raccontare e nel saper gestire i tempi stessi del racconto; una prova lampante era già Cinquemila chilometri al secondo (Coconino Press, 2010), che poneva proprio il tempo (e il suo scorrere) al fulcro dell’attenzione. Leggendo Celestia possiamo sfogliare pagine che non sono “solamente” belle da vedere e capolavori di pennello, ma che risultano estremamente valide in virtù della potenza dello storytelling sotteso. Il ritmo della storia si riflette sul ritmo della pagina e viceversa, in un dialogo continuo ed essenziale, e così ci ritroviamo tra le mani tavole dall’ampia varietà strutturale proprio in funzione del loro significato narrativo.

Così,  tavole costellate di piccole vignette si affiancano a splash page, tavole dalle direttrici ortogonali si affiancano a tavole ricavate su strutture di rette sghembe, tavole piene di immagini si affiancano a tavole completamente vuote, in cui aleggiano solamente poche linee di testo; anche il testo non deve essere trascurato, e in questo fumetto la sceneggiatura si compone di dialoghi funzionali ed essenziali, di poche parole mai sprecate che rappresentano solamente quanto detto dai personaggi: non ci sono pensieri, non ci sono didascalie, non ci sono onomatopee.

Il flusso morbido di eventi cui facevamo riferimento viene ricavato anche attraverso i disegni: la mano di Fior descrive linee sinuose e delicate, ed emergono così personaggi fortemente espressivi per quanto riguarda sia l’emotività, sia la gestualità (ed è bellissimo vedere queste forme esili correre qua e là per le tavole, spostarsi con assoluta leggerezza). Tutte le figure sono inoltre fortemente caratterizzate dal punto di vista del design e dal punto di vista cromatico: ciascun individuo è unico.

Evocando suggestioni che lambiscono le opere di Toulouse-Lautrec, Hugo Pratt, Lorenzo Mattotti, oppure del già citato Hayao Miyazaki (e dello Studio Ghibli, sia chiaro), Manuele Fior realizza splendide vignette: infonde i suoi personaggi di vita e li guida attraverso i silenziosi paesaggi dei canali veneziani di Celestia, oppure delle vaste pianure del mondo esterno, costellate qua e là di architetture moderne (ampiamente sviscerate in questo bell’articolo su Fumettologica).

Infine, non si può non parlare di Celestia senza citare il suo taglio cromatico: i colori a guazzo danno corposità alle tavole, ma sono anche in grado di imprimere alle pagine e ai personaggi un’aura eterea, di impalpabile leggerezza. Inoltre, la palette, com’è giusto che sia, è anche elemento narrativo, specchio degli eventi, delle ambientazioni e dei sentimenti: attraverso il colore, l’autore guida il lettore nell’immedesimazione e nel coinvolgimento all’interno dell’opera. Ma qui non ci dilunghiamo oltre, dovete leggerlo e vederlo, perché le parole non bastano e scivolerebbero in complimenti melensi.

Spogliata della sua veste fittizia e sottratta al banchetto turistico, la Venezia di Manuele Fior sembra essere un tempio della mente umana. Come Venezia è un labirinto di calli e canali, così Celestia, nella sua forma più impalpabile, è un labirinto mentale di pensieri intrecciati. Un mondo duale, contemporaneamente concreto e onirico costruito all’interno del cervello stesso, che esprime in sé la forza travolgente dell’immaginazione. L’autore aveva già ampiamente dimostrato nelle sue opere precedenti il suo interesse per la psicologia: così, anche in Celestia, Fior indaga la mente umana, i pensieri, i sogni, i desideri, e lo fa con una limpida miscellanea di rigore ed estro, che si ripercuote poi sull’opera stessa, a cavallo tra razionalità e assurdo.

Abbiamo iniziato questa recensione parlando de L’impero delle luci di Magritte nella sua versione conservata alla Peggy Guggenheim Collection, ed è opportuno terminarla con una precisazione: forse, non è quello il dipinto più adatto per descrivere Celestia, bensì il suo (quasi) gemello conservato a Bruxelles, al Museo reale delle belle arti del Belgio. In questa versione del 1954, la casa, il lampione e gli alberi si riflettono in una pozza d’acqua sulla strada: ecco, questa riflessione sull’acqua può essere utile per cercare di spiegare la natura della città di Celestia. Celestia non è Venezia, ma è come se fosse il suo riflesso, il corrispettivo del capoluogo veneto in un altro mondo, in un altro universo, onirico e surreale ricreato all’interno della mente umana. È l’immaginazione (la pozzanghera) che garantisce la creazione di questo universo alternativo altrettanto vivo e che si dimostra capace di riflettere e tradurre il presente concreto in una nuova forma, quella del fumetto, senza tempo, né spazio: dopotutto, l’arte è in un certo qual modo una forma di telepatia tra individui. C‘è da esser grati a Manuele Fior per averci concesso questo contatto a distanza e garantito così un prezioso viaggio attraverso lo specchio. 

Francesco Biagioli

[1] Francesco Guccini, Metropolis, EMI italiana, 1981.

[2] Dino Buzzati, Il crollo della Baliverna, Milano, Mondadori, 1954.

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