Quarta Stella, Gisella Genna
(Interno Poesia, 2020)
Dire del dolore del mondo con grazia è la spontanea ambizione di Gisella Genna nel suo libro d’esordio Quarta stella, pubblicato da Interno Poesia: una raccolta poetica di assoluto valore che permette all’autrice milanese di collocarsi di diritto fra i poeti e le poetesse più interessanti fra quelli nati e nate negli anni ‘70, una generazione segnata dall’ardua ricerca di un equilibrio fra qualità delle cose (Pasolini) e qualità delle parole (Sanguineti), e dalla divisione fra poesia lirica e sperimentale, categorie d’analisi ancora tutt’oggi in voga nonostante la dispersione testuale e autoriale caratterizzante l’universo della poesia contemporanea italiana. Come le migliori autrici di poesia, Genna si colloca nel mezzo, senza aderire totalmente a nessuno dei due schemi, e rifuggendo al contempo agli Scilla e Cariddi della retorica e del poetese.
«Dovresti considerare il mondo solo come un sogno»: questa epigrafe di Ramana Maharsi anticipa nel migliore dei modi l’aura raggelante e straniante da diario di bordo onirico à la Sylvia Plath che ritroveremo nell’opera. Fin dai primi versi l’io è posto di fronte a una realtà che scorre come un fiume verticale di dolore e di angoisse di rimbaudiana memoria:
«Ho portato il nulla al nostro altare
spinto la notte
difeso il dolore
acceso il presente
aperto lo spazio
di una flessa verità»
Non sembrano esserci appigli a un simile sprofondamento, perfino «il tempo non è stato vero», tutt’al più perché si è inesorabilmente soli in questo cadere, anche se a prevalere è una sensazione di ebbrezza più che di paura. E si resta così, talmente affranti dalla solitudine da arrivare ad evocare i morti:
«Dite ai miei morti di apparirmi
poiché mi sento sola come loro
e non ho più uno specchio
dove guardare altrove»
Ma la perduta gente, che in quanto trapassata si pensa depositaria di una qualche facoltà conoscitiva, è in realtà, così come l’io-autrice, all’oscuro di ciò che è vero:
«Io non so niente e ancora cerco
tra le volte e il fogliame
un segno, un filo
un’anticipazione»
Proprio quando il crollo sembra l’unico destino possibile, nella seconda sezione dal titolo Non siamo che queste parti uguali giunge biblicamente in soccorso la quarta stella, astro più simbolico che fisico, emanante una «luce che rimanda al corpo bianco». Come fa notare Giovanna Rosadini nell’ottima prefazione al testo, la quarta stella è un rimando ai chakra della tradizione tantrico-buddhista, ossia quei centri che stanno a indicare gli elementi del corpo sottile nei quali è ritenuta risiedere latente l’energia divina. In particolare, il riferimento è qui al quarto chakra dal nome sanscrito di Anahata, o chakra del cuore, avente appunto la forma di una stella a sei punte e rappresentante il centro del perdono, il punto cardinale che consente di dissolvere le illusioni e di diventare consapevoli di ciò che è reale: «avevo compreso la vita / ero pronta al perdono», scrive Genna in uno dei momenti chiave della raccolta che segna il passaggio dall’io al noi, dalle fauci implacabili dell’oblio alla trasparenza del tempo presente. Non a caso l’io-autrice si rivolge in questa fase alla Madre, simbolo genitivo di verità:
«Madre, sorridi ancora
ignora
ciò che non tornerà del tempo
insieme; più del passato
è vero il cielo, il suo cobalto»
Delle gocce nel silenzio lo stillare è il titolo della terza parte, incentrata su un vorticoso rapporto umano-natura in quanto spazio di condivisione di sentimenti e di riflessioni profonde. Assistiamo a una sorta di fusione fra corpo umano ed elementi naturali: qui ogni gesto è nuovo, tutto è in movimento, «tutto è così vicino improvvisamente», eppure in fuga, «verso l’equatore del corpo», «nella pianura del sentire», si è lontanissimi, si è qui, dentro «un esistere impreciso», dove il noi lascia spazio a un “tu” che in quanto amoroso è universale: «Chiedimi dove va il fuoco / in questo corpo che pare persona».
I «corpi amati, destinati» a cui si fa riferimento nella terza parte saranno poi i protagonisti della quarta e ultima sezione consistente in un dialogo nella forma di prose poetiche. Si tratta di una scelta formale che appare essere dettata dal desiderio di conformarsi a una certo stile in voga nella poesia contemporanea più che a un’effettiva necessità espressiva: il ritmo, scorrevole e intrigante nelle prime sezioni in quanto scandito da una fitta rete di assonanze, consonanze, rime interne, enjambement, anastrofe e sinestesie, qui tende a incagliarsi su sé stesso. Anche a livello di lessico e visioni affiora a tratti il banale e manca l’empatia e il perturbamento altrove presenti.
Al di là di ogni limite e potenzialità, la poesia di Gisella Genna riesce come poche altre a captare e a trasmettere il senso di spaesamento e di dispersione della nostra epoca attraverso una lirica dell’esperienza profondamente consapevole del proprio tempo.
«Mi parli dell’appartenenza ai luoghi che ognuno di noi fa suoi. So che vorrei conoscere le lune e i mondi che mi racconti. Ma non so dove sei, non so dove sono.»
Emmanuel Di Tommaso