Una persona sensibile, Jáchym Topol
(Keller editore, 2020 – Trad. Laura Angeloni)
Spesso è proprio dalla periferia che provengono le idee più fertili, come se la lontananza dai luoghi dei “grandi fatti” permettesse di leggere quello che accade con sguardo più lucido, anche rispetto a chi vive al centro degli avvenimenti; è proprio dalla periferica (seppur geograficamente centrale) Repubblica Ceca che giunge Una persona sensibile di Jáchym Topol (edito da Keller e tradotto da Laura Angeloni), divertente e raffinata rappresentazione di un’Europa nel caos attraverso le rocambolesche vicende di una famiglia di artisti itineranti sui generis: il papà Micio, poeta dissidente durante il comunismo con un passato in manicomio, la mamma Soňa, senza un occhio, alcolista e tossicodipendente, infine due figli, un ragazzo (che non parla, senza nome) e il suo fratellino (un neonato che non piange, anch’esso innominato). Insomma, una manica di disperati (quasi) senza arte né parte, che sfuggono all’intolleranza scatenatasi in un festival di Bristol e che ritornano in patria, a Poříčí, presso il fiume Sázava, facendo un giro molto lungo: Monaco, Budapest, l’Ucraina e la Slovacchia.
“Casa dolce casa”, dunque? Neanche per sogno: quando i nostri rientrano in Repubblica Ceca dal padre di Soňa, il vecchio Hrozen, scoppia il putiferio: il vecchio muore, Soňa finisce in ospedale, il papà fugge dalla polizia coi bambini (accusato forse dell’uccisione del suocero) e intende portare i figli dalla sorella Monča, rispettabile gestrice del bordello “Riccioli d’oro”, ma si ritrova in mezzo ad un clan di malavitosi: i ragazzi di Bašta, uno sfasciacarrozze, nonché strozzino e proprietario di un ospizio di morte in cui non si fa nulla per allungare la vita degli anziani ospiti.
Il fiume Sázava, affluente della Moldava, è il luogo attorno cui ruotano vorticosamente le vicende di questo romanzo corale, in cui le voci dei moltissimi personaggi non vanno mai assieme, ma producono melodie sempre diverse, come in una sinfonia di Mahler (che guarda caso era ceco ante litteram); i brillanti dialoghi del romanzo sono infatti surreali scambi di battute tra personaggi allucinati che parlano quasi da soli, sviando sempre dal discorso principale (ammesso che ce ne sia uno). La Sázava brulica di rifugiati, uomini anfibi che vivono raccogliendo i resti portati dal fiume e che abitano in palafitte, tende o capanne fatte di tronchi nelle paludi boschive tra mosche carnarie, zanzare e sanguisughe.
Eppure questa precarietà non disturba i personaggi quanto invece il progresso verso cui il Paese si sta avviando, con l’arrivo del McDonald’s e della fabbrica di Mars: ovunque si scavano fondamenta e si innalzano cancelli di metallo. Tutti preferiscono il degrado rispetto a quell’occidentalizzazione tanto odiata dal fratello del papà, Ivan, fanatico del progetto della Grande Russia di Putin e ormai “russificato” anche nella lingua («Noi barattato nostra grandezza con jeans e gomma da masticare! Viscido Occidente messo noi in ginocchio, perché noi no compatti!»).
La disperazione dei rifugiati che affastellano il romanzo viene da un rapporto problematico con la Storia, che rende la Repubblica Ceca una selva oscura, terra di mezzo tra Oriente e Occidente, stretta tra l’asfittico conformismo dell’Unione Europea e le mire imperialistiche dei russi, i quali «Sono come la natura, non li fermi.»; in entrambi i casi all’arte spetta il triste destino di essere annientata nella sua spontaneità dalla burocrazia della prima oppure dall’oppressione dei secondi. Ma è anche il passato a gravare con le sue tracce: le mine della guerra che ancora permeano il terreno, un carro armato dell’Armata Rossa recuperato dal fondo del fiume e la statua di un soldato russo invasa dalle foglie e ridicolizzata da un paio di boxer gialli in testa.
Questi monumenti del degrado raccontano la paralisi esistenziale dei personaggi, i quali trovano un surrogato del calore umano in alcolici di scarsa qualità che fanno perdere la vista. La morte è talmente integrata nella vita dei personaggi che i numerosi omicidi che avvengono nel romanzo vengono considerati con una surreale noncuranza, così come i crimini più efferati. Topol riesce a ritrarre i peggiori criminali con uno sguardo misericordioso, come se questi non avessero volontà, ma seguissero un istinto di sopravvivenza sin troppo umano. Lo scrittore ceco riesce a far emergere ciò che è profondo solo per mezzo dei dialoghi e delle atmosfere evocate, senza alcuna introspezione psicologica: l’inconscio dei personaggi non è qualcosa di angosciosamente interno ad essi, ma coincide coi luoghi che essi abitano. Ed è così che i personaggi più spietati non ci fanno paura, ma finiamo anzi col simpatizzare con essi, dal momento che è inutile giudicare moralmente chi non ha alternative alla crudeltà.
L’abilità drammaturgica di Topol rende Una persona sensibile un’opera stratificata che, sotto la superficie di un romanzo d’avventura dal ritmo delirante, nasconde elementi di mistero che le donano particolare fascino. Misteriosa è la presenza della Madonna di Poříčí, un’icona sacra che si ritrova per puro caso nella palafitta del pescatore Squama e che finisce in balia delle acque del fiume: in mezzo ai rifiuti, l’icona brilla di una luce assoluta, come segno di un Oltre in una selva così terribilmente terrena. Dotata di un’aura sacrale è anche la prospettiva del ragazzo (al quale si riferisce il titolo), che osserva il mondo in assoluto silenzio, intravedendo il ritmo eterno che sta al di là dei miseri eventi umani; pur essendo un ragazzino ha il volto da adulto, quasi fosse posseduto da una saggezza mitica, come la Zazie di Queneau, anch’essa dotata di una prospettiva che è totalmente altra rispetto a vicende senza senso.
E’ il silenzio del ragazzo a fare da vero protagonista: in un romanzo di moltissime parole esso rappresenta quel momento preliminare alla scrittura in cui si assorbe tutto quello che avviene intorno; mentre l’urgenza di scrittura del papà sta a completamento di questo processo: Micio vuole scrivere, il suo obiettivo è sottrarsi a questo viaggio assurdo per iniziare finalmente a raccontare (dice infatti: «Ormai mi sento esplodere. Devo scrivere»). Probabilmente è la medesima urgenza che ha spinto Topol a creare un romanzo che, al netto dell’irresistibile giocosità che lo permea, è un’opera politica, un tentativo di chiarire la confusione in cui versa una nazione che è nel cuore dell’Europa e che, forse, ne rappresenta il senso più caotico ed inconscio.
Giacomo De Rinaldis