I divoratori, Stefano Sgambati
(Mondadori, 2020)
È una sera di pioggia a Milano, la sera in cui il lussuoso Palazzo Senso, prestigioso ristorante del celebre chef Franco Ceravolo, ha l’onore di ospitare a cena nientemeno che Daniel William King, accompagnato da sua moglie Sally Parson. Tutti gli occhi sono puntati su di loro, o meglio su di lui, semplicemente «l’uomo più bello che si sia mai visto»: e dunque flash, giornalisti, traffico in tilt, fan impazziti.
Le due celebrità hollywoodiane non sono, tutta via, gli unici protagonisti: attorno a loro, come satelliti di un gigantesco pianeta, seduti ai rispettivi tavoli gravitano gli altri clienti del locale, nell’ordine: Elena e Saverio, a cena insieme dopo essersi incontrati al funerale di una comune amica; Frida e Giordano, lei forse appena maggiorenne, lui professore universitario trent’anni più vecchio; infine una tavolata cui siede la una rumorosa, cafona, grottesca comitiva: è la famiglia del maître Carlo Di Martino, giunta in pompa magna dal sud per non lasciarsi sfuggire l’occasione di cenare vicino alla star.
Detto così, l’incipit de I divoratori (Mondadori, 2020) parrebbe più la prima scena di una pellicola cinematografica: ma in ventunesimo secolo in cui, tra le mille assurde derive, spicca quella di complimentarsi con uno scrittore dicendo che il suo libro “è bellissimo, sembra un film”, Stefano Sgambati (tornato nel territorio della fiction, seppur intrisa di un forte, molecolare, chimico realismo, dopo la parentesi autobiografica de La bambina ovunque) ci fornisce un fulgido esempio di quanto le armi della letteratura siano ancora in grado di colpire, ferire il pubblico se ben affilate e maneggiate.
Ed ecco che, grazie proprio a queste armi, il tempo si dilata, lo spazio si confonde: l’autore prende per mano il lettore e lo porta nelle menti dei personaggi, in un continuo alternarsi di presente e passato. Così, sebbene a osservarla da fuori, magari sbirciando attraverso un vetro, la situazione all’interno del ristorante appaia placida e serena, la realtà delle cose si mostra ben diversa: una fragorosa e nera tensione, un male di vivere ogni volta diverso attraversa infatti le vite dei personaggi, scorrendo poi lungo i fili dei rapporti che li legano.
Daniel William King appare sin da subito il più afflitto: è lui la portata principale della grande abbuffata, il «pasto da divorare». O meglio, non proprio lui, ma quello che gli altri vogliono, pretendono che lui sia. Personalità scissa tra l’uomo e l’attore, tra il sentimento e la carne, tra ciò che è stato e ciò che è diventato, King deve fare i conti anche con l’algida moglie Sally, bella, sì, ma «come una montagna che frana su un villaggio».
Menzione d’onore merita Carlo di Martino, il maître di sala, uno dei personaggi più riusciti. La sua storia di emigrante meridionale in cerca di riscatto, dopo la fuga da una situazione familiare e sociale del tutto priva di stimoli e prospettive, deflagra nel momento esatto in cui proprio la sua famiglia di «modelli di Botero» appare nel suo ambiente di lavoro, là dove ha costruito il suo successo.
A fare da contrappunto all’atmosfera nera e sinistra della storia (e del titolo e della copertina), c’è la voce dell’autore: una mola che smeriglia le ferraglie della vita, scintillando nel buio con similitudini e metafore mai scontate, ironia e cinismo dal sapore monicelliano che altro non sono che schietto realismo. Ciò che sorprende in tutto questo – sembrerà banale, ma anche e soprattutto questo è la letteratura – è la capacità di Sgambati di entrare nei suoi personaggi, di “essere” i suoi personaggi, la profondità con la quale esamina l’istante e legge (o meglio, scrive) le loro vite.
I punti di vista, infatti, si alternano capitolo dopo capitolo, smascherando contraddizioni, evidenziando debolezze, rivelando di tanto in tanto le rare qualità, senza che però mai una sola volta la fetida scure del moralismo possa abbattersi su di loro: il narratore non giudica, mai, si limita a raccontare, come il pittore disegna un naso adunco, una cicatrice, una deformità. Tutto questo grazie a un presupposto che aleggia all’interno del romanzo, e più in generale in tutta la visione del mondo di Sgambati, ovvero l’assoluta consapevolezza della meschinità dell’essere umano, del suo lasciarsi vincere quando da istinti e ossessioni, quando dalla miseria delle convenzioni sociali (con una evidente, empatica preferenza per i primi).
I divoratori è dunque un romanzo spiccatamente attuale: quale luogo, del resto, se non un ristorante (Gadda approverebbe), può descrivere al meglio il fortunato secolo in cui siamo? Un secolo di consumatori (e divoratori), di comparse che sognano di essere protagonisti, i quali vanno a comporre un acuto e per certi aspetti devastante affresco dell’Italia contemporanea (oltre che, se vogliamo, del mondo occidentale tutto).
Anche per questo il lettore attento non proverà rabbia o disprezzo di fronte a cotali frammenti di vite, quanto pietà, o meglio ancora vergogna, nello scorrere pagina dopo pagina il racconto di personaggi che, per quanto tutto porterebbe a crederlo, non sono affatto dei mostri, ma dei semplici, banalissimi, esseri umani, proprio come chi legge. Non si cerchi consolazione, dunque, perché alla fine della lettura la domanda sorgerà spontanea, e sarà la stessa, tragicamente retorica, pronunciata dal maître Carlo: «Come possiamo essere tutti a tal punto infelici?»
Ignazio Caruso