Su LOT o la feroce bellezza delle periferie di Bryan Washington

LOT, Bryan Washington
(Racconti Edizioni, 2020 – Trad. Emanuele Giammarco)

Riconosciuto dalla critica internazionale e da numerosi premi come uno dei casi letterari più interessanti degli anni recenti, LOT, esordio dello scrittore statunitense classe 1993 Bryan Washington pubblicato dalla Atlantic nel 2019, dopo il clamoroso successo di pubblico ottenuto negli States, è finito in breve tempo per valicare i confini d’Oltreoceano, approdando prima in Gran Bretagna e poi in Italia, grazie alla pubblicazione in lingua italiana curata da Racconti Edizioni con la preziosa traduzione di Emanuele Giammarco.

L’originalità di questo esordio letterario sta innanzitutto nelle scelte formali relative alla strutturazione dell’opera e al linguaggio utilizzato. Il libro è composto da sei racconti brevi interrelati tematicamente, a cui si aggiungono altri sette racconti dal respiro romanzesco in quanto frammenti di una storia più grande che costituisce la spina dorsale della raccolta ed è probabilmente la più autobiografica: è la storia di Nicolás dall’adolescenza all’età adulta, costretto a crescere da omosessuale in una realtà povera e violenta e in una famiglia di spettri, falcidiata dagli abbandoni e dalle assenze. Tutte queste storie spezzate sono raccontate attraverso uno slang asciutto e caotico, che per l’immediatezza visiva ricordano gli hashtag e le storie di Instagram, un pastiche linguistico impregnato da melting pot e da street knowledge e, al contempo, da un tono elegiaco proprio di quegli spazi marginali che sono sempre le periferie.

Washington ha ereditato da James Baldwin un approccio musicale alla scrittura, con i ritmi suburbani e ribelli del rap che dettano i tempi e il senso (laddove invece per Baldwin era il jazz la musica di riferimento). Il giovane scrittore di Houston dimostra inoltre di avere già una voce ben definita e potente nelle descrizioni dei personaggi e delle scene, mentre la sua scrittura può risultare grezza e artificiale nei dialoghi, non riuscendo a raggiungere la freschezza e l’attualità della fenomenale quasi coetanea Sally Rooney.

Le ambientazioni di LOT sono i vicoli dei quartieri popolari della Houston post-uragano Harvey del 2017, una città devastata dalla calamità naturale e sospesa in un processo di ricostruzione e di rigenerazione che non è mai avvenuto e che ha anzi assunto i tratti della gentrificazione e della ghettizzazione: fanno da sfondo alle storie i profili fatiscenti e ammassati delle shotgun house, delle lavanderie a gettoni, di superstrade, di ponti e di sottopassaggi, di fogne a cielo aperto, delle taquerias, dei banchi dei pegni, degli strip club, degli sfasciacarrozze, dei ristoranti e delle fabbriche desolate.

All’ombra di questa topografia tentacolare di degrado e sotto la luce crepuscolare di un sole dissanguante, queste raccontate da Washington sono vite al limite solo in apparenza surreali, sono resistenze più che esistenze: c’è un padre che affoga il cane di famiglia perché nessuno vuole portarlo fuori; ci sono due adolescenti che scoprono e accudiscono un chupacabra, animale leggendario appartenente alla mitologia contemporanea che si narra abiti in alcune zone delle Americhe, convinti che il piccolo essere possa rappresentare per loro una svolta sociale e sentimentale; ci sono le emozioni e le gioie delle prime esperienze di sesso omosessuale che uniscono giovanissimi provenienti da diverse culture e angoli del mondo; c’è un tradimento d’amore che finisce in tragedia quando la gente del quartiere decide di svelare il segreto perché quella storia è anche la loro, l’hanno partorita, l’hanno fatta risorgere dalle ceneri; ci sono poi Rod, Poke, Emil, Google, Nacho e Knock che vivono, o meglio si lasciano morire lentamente, tutti nella stesso appartamento con una sola stanza singola e una finestra a Montrose, uniti da uno strano e tacito patto di amicizia e di sopravvivenza; c’è la Liberty Station e Julep e il Margaritas to Go e il Galleria, non-luoghi di una movida sotterranea e posticcia che pur regala intimità provvisorie necessarie ad andare avanti; e c’è infine il sesso, tenero o brutale, che unisce o divide, che aiuta a conoscersi di più in fin dei conti, a spezzare il velo di profonda incomunicabilità che aleggia sotto il cielo di Houston.

Le periferie di Bryan Washington emozionano proprio perché non sono mitizzate ma vengono raccontate con dovizia di cronaca in tutta la loro crudele realtà; in questo aspetto Washington è più simile al Baldwin tenebroso de La Stanza di Giovanni o all’Henry Miller di Tropico del Cancro che ai luminosi padri novecenteschi della letteratura nordamericana quali Salinger, Kerouac e Fitzgerald. Non c’è la romanticizzazione dello squallido, è tutto vero e misero e grigio e nebbioso e senza speranza, perché così è la vita a certe latitudini e in determinati momenti, fino a quando non si ritrova sé stessi e la propria buona strada, magari fuggendo di notte dalla città, come capita a Nicolás nel poetico finale del libro, verso una spiaggia buia, immergendosi fra le onde, la sabbia, le bottiglie di plastica, ascoltando il lieve ruggito dell’acqua, in una sorta di rito battesimale di iniziazione di una nuova vita.

Emmanuel Di Tommaso

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