Bufalino, il francesista dimezzato

L’incontro con la letteratura e col cinema francese ha segnato una cesura fondamentale nella vita e nell’arte di Gesualdo Bufalino, influenzando certamente la sua produzione letteraria. Nell’articolo di oggi andiamo ad approfondire il rapporto tra lo scrittore di Comiso e le opere e gli autori d’Oltralpe, da Baudelaire a Proust, da Renoir a Valéry. Lo ha scritto Marco Cicirello, nato anche lui a Comiso, che al rapporto tra Bufalino e la letteratura francese ha dedicato studi accademici e diversi contributi critici.


«Resta da dire, per concludere sulla Sicilia, qual è il mio rapporto con la provincia. Ecco, io vi sono vissuto e vivo come in un bunker. È per me una tana, trappola e trono, vi vegeto e vi trionfo, vorrei uscirne ma so che altrove sarebbe la fine.»[1]

Nonostante la sua predilezione per ossimori, paradossi e ironie, Bufalino è sincero quando parla di “claustrofilia”, lui che dalla Sicilia si spostò poco e per brevi periodi. Diverso il caso delle sue letture, che assecondando le curiosità di «un cannibale, che divora nei libri Dio, il mondo, la vita, gli uomini, se stesso»[2], attraversarono l’Europa intera:
«Questo è dunque il mio paradosso: sentirmi per cultura e lingua mentale totus europaeus e non potermi o volermi scrollare di dosso la pelle Sicilia. Di cui del resto penso di avere assorbito infiniti contagi: spirito mistificatorio e causidico, senso del teatro e del gesto, estremismo delle parole e degli abbandoni, tetraggine mortuaria».[3]

Di altri contagi parlano le sue pagine, che con le letterature straniere intrattengono taciti e capillari colloqui, in un complesso gioco di allusioni, rimandi e citazioni. Nel 1986, in un tête-à-tête letterario con Leonardo Sciascia dal titolo I nostri rapporti con la letteratura francese, Bufalino ammette che, tra le varie tradizioni, con quella d’oltralpe c’è una liaison particolare: «Ѐ un rapporto che trascina con sé molte questioni maggiori e minori: la nostra virtù, di noi siciliani, di essere regione e nazione insieme, i legami con l’Italia, la doppia risposta che diamo all’insularità e alla continentalità, il nostro senso di chiusura diffidente e la nostra disponibilità invasiva, da emigranti conquistatori, dopo tante invasioni subìte. Ѐ un modo, insomma, di avvicinarci al nucleo più segreto della nostra identità di popolo. Nello stesso tempo, sul piano privato, un modo di interrogarci a vicenda sul nostro essere uomini e scrittori».[4]

Come se gli autori francesi fossero punti cardinali nell’esplorazione della propria identità e della propria una poetica.
Nato nel 1920 a Comiso, il primo ad iniziarlo alle lettere è il padre Biagio, nella biblioteca del quale Bufalino trova i primi tre libri della sua vita: la Sacra Bibbia del Diodati, i Miserabili e Guerra e Pace. Hugo lascia una traccia indelebile: «Lo lessi non so quante volte […] stranamente – ma forse no – ero affascinato dalle divagazioni epicoliriche, dagli sproloqui a tavola di certi personaggi, dai calembours sulle barricate […]».[5]

Al Liceo Classico di Comiso Bufalino compie un altro passo:
«[…] mi avvenne di consolidare questa mia conoscenza della letteratura francese con l’aiuto di un professore […] il quale mi insegnò veramente il gusto della poesia francese. E voglio dire che a un certo punto la lettura di una poesia di un simbolista minore, che tuttavia ebbe il premio Nobel, Sully-Proudhomme, significò per me moltissimo, dirò subito perché. Era una poesia intitolata Le vase brisé. […] Ci disse il professor Militello che quella poesia parlava di un innamorato il cui cuore era stato infranto da una donna. Mi sorprese allora precocemente la scoperta del valore dell’allusione, la scoperta del potere sterminato della metafora allusiva».[6]

Folgorante è però l’incontro con Baudelaire, nonostante sia impossibile reperire l’originale delle Fleurs du mal in un angolo di Sicilia privo di librerie o biblioteche aggiornate con volumi contemporanei ed edizioni straniere.[7] Nella Comiso del 1935 Bufalino legge la traduzione di Riccardo Sonzogno:
«Allora io ricorsi a un’impresa per metà pazza per metà commovente. Approfittando del fatto che il mio Baudelaire tradotto aveva un rigo bianco fra una strofe e l’altra di ogni singola poesia […] mi trovai a tradurre Baudelaire dall’italiano in francese, per risentire in qualche modo la musica vera del testo. Così, sulla falsariga degli alessandrini autentici io congegnai i miei tanto più rozzi e scorretti, col risultato, anni dopo, quando potei finalmente avere sotto gli occhi il testo d’origine, di rimanere disingannato al punto da strappare in mille pezzi il mio quaderno di esercizi e di rovello amoroso.»[8]

L’esperienza è tuttavia di capitale importanza, perché attraverso Baudelaire Bufalino dà forma alla propria visione del mondo e apprende un’importante lezione di retorica e stilistica.
Durante gli anni ’30 continuano le letture ottocentesche: Balzac, Zola, Rimbaud, Verlaine e i simbolisti minori. Il ‘900 francese riesce a raggiungere Bufalino, se non dai libri, attraverso il cinema:
«Sentivo molto vicini quei films degli anni trenta, di Carné, Claire, Renoir e Duvivier che evidenziavano una condizione esistenziale di amarezza e solitudine prima ancora dell’esistenzialismo post-bellico. Questo cinema veniva a legarsi con le mie esperienze di lettura, e di simbolisti, crepuscolari, e in fondo di tutta la grande tradizione francese post-baudelairiana, passando per Verlaine, Mallarmé, Valéry, poeti che mi hanno formato in attesa che la guerra […] mi consentisse maggiori aperture».[9]

Bufalino a Sacile nel 1943
(Gentile concessione Fondazione Bufalino)

La Guerra, infatti, si rivela cinicamente come una vera e propria formazione:
«[…] posteriore alla pubertà fisiologica, ci fu un’altra pubertà, chiamiamola della morte».[10] Nel ’43 Bufalino viene catturato dai tedeschi a Sacile, ma riesce a fuggire e raggiungere Scandiano, in Emilia Romagna, dove inizia a insegnare. Qui scopre di avere la tubercolosi, altra esperienza significativa che fa della malattia uno «strumento di conoscenza, pratica mistica, imitazione di Cristo, degradazione carnale pura e semplice, vanità».[11]

A Bufalino, chiuso nell’ospedale, si aprono le porte della cultura del ‘900:
«Bianchieri, il (coltissimo) primario di ricca e nobile famiglia, aveva portato la sua enorme biblioteca negli scantinati per difenderla dai bombardamenti […]. Entrava una luce grigia e greve dagli oblò dello scantinato, quasi le catacombe di una città Babele di Borges, pile gigantesche di libri in disordine. Erano pareti di cento camminamenti che instancabilmente ogni giorno tessevo, visto che il male non mi impediva almeno di muovermi. Trovai tutto: Proust, Gide, L’amante di Lady Chatterly, i disegni di Van Gogh, e scoprii solo allora che c’era un pittore chiamato Picasso».[12]

La lettura della Recherche inizia molto probabilmente dalle Jeunes filles en fleurs e prosegue senza un ordine ben preciso. Nel rapporto tra tempo perduto e memoria Bufalino riconosce l’essenza della propria esperienza umana e letteraria, mentre nel carteggio con Angelo Romanò riflette sui personaggi proustiani.[13] Con l’autore francese inizia una vera e propria simbiosi, come se Proust «[…] fosse un infallibile, inalienabile ectoplasma di me; un nemico, magari, ma tanto incarnato dentro di me da non potermene più districare […]».[14]
Ottenuto il trasferimento al sanatorio di Palermo, l’inattesa guarigione lo lascia nuovamente in balia della vita e dei suoi abbagli. Bufalino rientra a Comiso e torna a insegnare. Non interrompe le letture e nemmeno le traduzioni del suo adorato Baudelaire, a cui poi si affiancheranno quelle di Giraudoux, Toulet, Madame de La Fayette e Victor Hugo.

Negli anni ’50 Bufalino inizia a lavorare alle prime bozze di Diceria dell’untore, pubblicato poi nell’81. In Diceria l’influenza proustiana è presente già nell’esordio notturno e onirico dove l’io del protagonista si ritrova tra i fantasmi dell’inconscio. La degenza al Sanatorio della Rocca viene raccontata con un duplice atteggiamento verso la memoria: di fiducia[15] e di sospetto verso i tentativi di risurrezione che mai replicano un fedele duplicato di ciò che è stato. La memoria, infatti, «[…] è una protesi che cerca di sostituire la vita; una protesi infedele, che spesso somiglia a un sogno del passato anziché alla sua videoregistrazione».[16] La vocazione alla scrittura si manifesta allora non come epica vittoria sul temps perdu, ma come analisi di un oscuro rimosso.

Bufalino con Vincenzo Consolo e Leonardo Sciascia, 1982
(Gentile concessione Fondazione Bufalino)

Lo vediamo anche in Argo il cieco, piccola Recherche bufaliniana dove il protagonista ha lo stesso nome dell’autore e la memoria ha cento occhi con cui sogna altrettanti scenari possibili.[17] Per questo, ai capitoli si alternano pagine metanarrative in cui si mettono in dubbio i procedimenti del romanzo:
«Il mio eroe ha, beninteso, letto Paul Valéry […]. Egli pensa e io penso con lui, che chiedermi se la marchesa possa o non possa uscire è un falso problema. Permetterle di uscire non significa di fatto legittimare l’intreccio nelle sue scansioni canoniche. In verità quella frase, come qualunque altro enunciato, può costituire un incipit vertiginoso. La porta che la marchesa apre è uno spiraglio sull’infinito delle più impensate virtualità».[18]

In Calende greche si raggiungono risultati ancora più sperimentali: il romanzo unisce elementi d’invenzione e biografici in vari frammenti che tentano di ricostruire la parabola di un’esistenza non riconducibile a un unico essere umano. La critica[19] ha notato l’influenza di Mallarmé e del suo Livre su questa idea di opera dilatabile all’infinito.[20] L’esito è un caleidoscopio in cui Bufalino smonta le consuetudini del romanzo e alterna la narrazione in prima, terza e seconda persona, memore della lezione del Nouveau Roman.

La memoria è “sognatrice” così come qualsiasi manifestazione della realtà nasconde qualcosa di illusorio, incomprensibile o menzognero. Impossibile trarne leggi di universale validità, inutile tentare una letteratura che del mondo restituisca una fedele istantanea: «[…] la letteratura, più che vista, è visibilio; sicché la mimesi più fedele non possa assolversi se non quando le sue evidenze si traducono nei modi di un’ordinaria allucinazione».[21]

Si tratta di una convinzione così intima nella poetica di Bufalino da caratterizzare anche la lettura e la ri-lettura dei grandi scrittori realisti:
«Mi è capitato di confrontare in Balzac la descrizione di casa Thuillier (Les petits bourgeois), della pensione Vaquer (Le père Goriot), della casa del Tourniquet-Saint-Jean (Une double famille) e mi sbalordiva il passo lento, inesorabile della prosa, l’accumularsi di una minuzia sull’altra fino al trasfigurarsi di un luogo in una visione. Allo stesso modo taluni fiamminghi tramutano una natura morta in una allucinata leggenda…».[22]

Qualsiasi tentativo enciclopedico rischia di essere una diceria: «La stessa cosa si dica per l’ambizione balzachiana di far concorrenza all’anagrafe; per quella di Stendhal di imitare lo stile del Codice Civile; […] Perfino i taccuini di Zola, nella loro smania catalogatrice, risultano, a leggerli ora, una fucina di barlumi fantastici».[23]
La distanza dal reale ha un suo riscontro anche nell’atteggiamento di Bufalino verso la letteratura engagé:
«Sartre considera Flaubert responsabile della repressione contro la Comune perché non scrisse un solo rigo per impedirla. Ma lui, Sartre, quante righe ha scritto per impedire i delitti di Stalin? E chi dubita più, oggi, chi avesse ragione e chi torto tra lui e Camus[24]

Bufalino davanti ai suoi libri, 1983
(Gentile concessione Fondazione Bufalino)

Altri sono gli scrittori cui Bufalino si identifica, leggendo diari ed epistolari[25] dove raccoglie semi di vita che diventano epifanie: «Sono intermittenze del cuore anche queste».[26] Parlare di Baudelaire, per esempio, permette a Bufalino di parlare di sé, del sentirsi esiliati dal mondo, preda dell’impotenza e dell’angoscia insite nella vita del poeta.
Altri “grandi malati” stimolano l’identificazione, come Gustave Flaubert che nel 1844 soffrì di epilessia. Nei Mémoires d’un fou e in Novembre Bufalino legge e analizza i due incubi in cui il complesso edipico si intreccia al tema della castrazione, dell’amore materno desiderato e perduto contro il quale si desidera la vendetta (nel sogno, il giovane Flaubert assiste impassibile all’annegamento della madre). I due incubi sono per Bufalino il fulcro in cui si nasconde l’identità segreta del futuro scrittore, lo stesso che gli fornirà l’atmosfera di luce e macabro sfacelo[27] che fa da sfondo soprattutto a Diceria dell’untore.

Il caso di André Gide – e di una lettera in cui la moglie scopre le sue relazioni omosessuali – ricorda a Bufalino che anche la moglie di Dostoevskij era rimasta scioccata dalla prima crisi epilettica del marito:
«Ora è difficile dire se lo scrittore francese, leggendo nell’Epistolario dell’altro il racconto di quella crisi, e rintracciandovi il primo seme di un’esemplare infelicità coniugale, abbia mai pensato a se stesso, e al frangente doloroso in cui s’era trovato a patire una mortificazione e uno scandalo uguali. Se ci ha pensato, avrà certamente tratto dal confronto un’occasione di più per riconoscersi consanguineo del russo, legato al pari di lui alle oscure radici di un’abiezione, e conteso nella stessa misura fra empietà e triste pietà di sé».

Alcuni scrittori si fagocitano l’un l’altro: come un ragno tesse la tela per intrappolare altri insetti, così Bufalino ingloba gli autori che gli permettono di evolversi e crescere nella comprensione di sé.[28] La letteratura è materia biologica per altra letteratura.
Per questo Jean Paul Toulet diventa non solo un sofisticato autore da tradurre, ma anche un poeta in cui riconoscersi, un esiliato dalla società come già era stato Baudelaire e come in altro modo fu Proust:
«Comune la reclusione coatta in una stanza, con accanto un comodino ingombro di medicine e di libri; comuni molti amici […]; comune la morte precoce, con le bozze dell’opera (irrisorio fascicolo o saga fluviale) sparse sulle lenzuola. E ancora, in entrambi, l’incontentabilità di fronte alla pagina scritta; e una permalosa squisitezza dei nervi; e il dono di saper carezzare con dita leggere le cicatrici degli anni…».[29]

Così anche l’interesse per Madame de La Fayette va oltre la semplice traduzione. Nei racconti della Contessa il parossismo dei sentimenti travolge le confessioni fino a falsarle e alterarle in modo quasi fantastico. Bufalino vi riconosce «una poetica, che, se il termine non fosse già preso in caparra per altri e diversissimi usi, verrebbe voglia di chiamare “dello sguardo”. Risiede qui, difatti, nel guardare e origliare come da un oeil de beuf, la novità dell’opera della La Fayette […] per privilegiare la registrazione rapida e occulta delle pulsazioni più proibite del cuore. A farla breve, come ogni vero scrittore, Madame de La Fayette è soprattutto un delatore […] una spia».[30]

Di se stesso, nell’86, dice:
«[…] la mia poetica, se così vogliamo chiamarla, consiste nel cercare di coniugare la verità di un’emozione con la frode della parola e in fondo io, a differenza di tanti altri scrittori, non mi sento di essere un portavoce della collettività, un profeta, un testimonio dell’universo; io credo di essere più umilmente un testimonio di me stesso e per giunta, purtroppo, un testimonio purtroppo falso, un delatore […]».[31]

Il rapporto tra Bufalino e i suoi modelli letterari consiste in un illusionistico gioco di specchi in cui sguardi diversi si incrociano da più direzioni. L’unico modo per conoscersi e farsi riconoscere è, per Bufalino, celarsi dietro altre identità. Farsi spiare. Così come si spia il mondo dal chiuso di una stanza: «Mi sento, e sono, un francesista selvaggio, dimezzato. Ma in Francia, purtroppo, non sono stato per più di quindici giorni».[32]

Marco Cicirello

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[1] G. Bufalino, Essere o riessere. Conversazione con Gesualdo Bufalino, a cura di Paola Gaglione e Luciano Tas, nota critica di Nunzio Zago, Comiso, Fondazione Gesualdo Bufalino, 2010, p. 68.
[2]  P. Citati, Bufalino, cannibale divoratore di libri, “Corriere della Sera”, 22 aprile 1988.
[3] G. Bufalino, Essere o riessere. Conversazione con Gesualdo Bufalino, cit., p. 67.
[4] G. Bufalino e L. Sciascia, I nostri rapporti con la letteratura francese, “Pagine del Sud”, a. II, n. 5, settembre-ottobre 1986, p. 9.
[5] G. Bufalino in un’intervista con L. Sciascia, Che mastro questo don Gesualdo!, “ L’Espresso”, 1 marzo 1981.
[6] G. Bufalino e L. Sciascia, I nostri rapporti con la letteratura francese, cit., p.10.
[7] Da aggiungere a questo «ritardo culturale di tutta quanta la Sicilia non metropolitana» è la chiusura della cultura italiana ai tempi del Fascismo. Rimando al volume Le letterature straniere nell’Italia dell’entre-deux-guerre. Spogli e studi, a cura di E. Esposito, Lecce, Pensa Multimedia, 2004 e all’articolo di M. Tortora, Modernismo e modernisti nelle riviste fasciste, in I modernismi delle riviste. Tra Europa e Stati Uniti, a cura di Caroline Patey e Edoardo Esposito, Milano, Ledizioni, 2017, pp. 73-93, che ricostruisce l’evoluzione degli organi di controllo del regime sulla stampa e l’editoria, con particolare attenzione alle riviste che allora erano principale terreno di divulgazione e sperimentazione letteraria.
[8] G. Bufalino e L. Sciascia, I nostri rapporti con la letteratura francese, cit., p.10.
[9] G. Bufalino in un’intervista con A. Gerardi, Conosco più morti che vivi, “Gazzetta del Sud”, 15 settembre 1981.
[10] G. Bufalino in un’intervista con L. Galluzzo, Storia di un letterato, “Il Gazzettino”, 18 aprile 1982.
[11] G. Bufalino in un’intervista con M. Onofri, Gesualdo Bufalino: autoritratto con personaggio, “Nuove Effemeridi”, n. 18/II, 1992, p. 24.
[12] G. Bufalino in un’intervista con L. Galluzzo, Bufalino esordiente scontroso, “Il Piccolo”, 13 settembre 1981.
[13] Lettera del 23 luglio 1945: «Pare, leggo, che nel proustiano Barone di Charlus sia adombrato quel Roberto di Montesquiou, che servì anche a Huysmans per Des Esseintes. Sai se si conosca altro di analogo, per quel che riguarda gli altri personaggi? A parecchi mesi dalla lettura a ripensarci, mi pare che per es. il pittore Elstir potrebbe bene essere Whistler (c’è perfino un quasi anagramma) e il salotto Guermantes quello della Baronessa di Caillavet. E naturalmente si tratta, da parte mia, d’una vanissima curiosità erudita. Comunque, dovrebbe esistere un “Repertoire” dei personaggi della “Recherche” edito dalla NRF. Se t’avviene d’andare in biblioteca, guardaci. Grazie». A. Romanò-G. Bufalino, Carteggio di gioventù (1943-1950), a cura di N. Zago, Valverde, Il Girasole Edizioni, 1994, pp. 92-93.
[14] G. Bufalino, Cere perse, Palermo, Sellerio, 1985, p. 184.
[15] «Ha ragione Blanchot: si scrive per non morire […] per essere ricordati e per ricordare, per vincere entro di sé l’amnesia, il buco grigio del tempo». Ivi, p. 16.
[16] G. Bufalino, Cur? Cui? Quis? Quomodo? Quid? Wordshow-seminario sulle maniere e le ragioni dello scrivere, Taormina 14-16 ottobre 1988, Ottobre Letterario, Catania, 1989, p. 81. È significativo, infatti, che Bufalino dia al capitolo di Cere perse dedicato alla memoria il titolo Lanterna cieca.
[17] «Così si spiega perché in tutti gli accidenti, anche mediocri, di quella notte io mi sforzassi d’inseguire una possibilità romanzesca e tuttora me li rigoda, scrivendone, con una sorta di sedentario entusiasmo, se così posso chiamare l’impasto di passione e distanza di cui si compone il mio sentimento. Che se poi s’aggiunga il piacere di muovermi in un intreccio poco o molto falsificato, in un vizio e ironia di parole, […]; il piacere, cioè, di apparire pupo e puparo insieme in una delle tante Opre di Pupi dell’odiosamabile vita…» G. Bufalino, Argo il cieco ovvero i sogni della memoria, Milano, Bompiani, 1994, pp. 30-31.
[18] G. Bufalino, Amo tutto ciò che è scritto, supplemento “Alfabeta”, Gennaio 1986.
[19] «Un’idea che ricorda l’utopia mallarméana del Livre, l’Opera per eccellenza, capace di dar senso all’universo stesso che esiste appunto per sfociare in Libro: e il Libro di Mallarmé andava strutturato proprio a fogli mobili, per consentire continui spostamenti e ri-combinazioni, che permettessero di approdare a significati sempre nuovi e sorprendenti». G. Traina, Introduzione a Calende greche, Milano, Bompiani, 2009, p. VIII.
[20] «Pensavo a un romanzo in crescita perpetua, che non toccasse mai la pienezza». G. Bufalino in un’intervista con M. Onofri: Gesualdo Bufalino, autoritratto con personaggio, cit., p. 28.
[21] G. Bufalino, Essere o riessere. Conversazione con Gesualdo Bufalino, cit., p. 31.
[22] Ivi, p. 50.
[23] Ivi, p. 29.
[24] Ivi, p. 37.
[25] «Non solo i diari, ma mi piacciono gli epistolari. L’idea di poter fiutare, palpare, pedinare, origliare il “quotidiano” di un autore che amo, di riuscire a rubargli quel segmento irripetibile di spaziotempo che è il “dove” e il “quando” di una sua giornata, tutto questo mi dà al cuore una dilatazione trionfale, come chi sorprende al telescopio l’estinzione di una stella o forza per primo l’uscio di una tomba di faraone. Le minuzie più pettegole bastano al mio stupore». G. Bufalino, Cere perse, cit., p. 25.
[26] Ivi, p. 100.
[27] «[…] la patria ideale del Flaubert […] sarà un Oriente barbarico e selvaggio, con oro, marmo e porpora, sì, ma anche con sangue e sanie, e orribili putrefazioni e miasmi». M. Praz, La carne, la morte e il diavolo nella letteratura romantica, cit., p. 157.
[28] Ho avuto la possibilità di approfondire il tema della ricezione di Proust da parte di Bufalino e del suo carattere zoologico, nel saggio L’antro nella biblioteca. Bufalino lettore di Proust, “Quaderni Proustiani” 2017, n°11, pp. 107-119.
[29] G. Bufalino, Saldi d’autunno, Milano, Bompiani, 1990, p. 138.
[30] G. Bufalino, Cere perse, cit., p. 87. Il corsivo è mio.
[31] G. Bufalino durante la cerimonia di premiazione della XIV edizione del “Premio Elba – Raffello Brignetti”, Capoliveri, 20 settembre 1986 (il corsivo è mio).
[32] G. Bufalino in un’intervista con L. Sciascia, Che mastro questo don Gesualdo!, cit.

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