Bufalino e la reticenza dell’uomo invaso

Auguri Don Gesualdo! Proprio nella giornata di oggi, 15 novembre, Bufalino avrebbe compiuto cent’anni.
Concludiamo la settimana a lui dedicata con un articolo che approfondisce i meravigliosi racconti che compongono
L’uomo invaso, in cui confluiscono i temi più cari all’autore siciliano uniti alla materia mitologica, che diventa scenario privilegiato per indagare la natura umana.
Ne scrive per noi Angelo Di Liberto, collaboratore con le pagine culturali di Palermo de La Repubblica, ideatore di Modus Legendi e romanziere. Tra le sue pubblicazioni ricordiamo Il bambino Giovanni Falcone (Mondadori, 2017) da cui è stato tratto un cortometraggio coprodotto da Rai Cinema, e Confessione di un amore ambiguo (Centauria Libri, 2018).


L’urgenza contenuta nelle parole di Bufalino è un’oscura discesa verso l’abisso della lingua ritrovata. Il maestro di Comiso, imparata la lezione leopardiana, esprime l’esperienza dell’uomo non nella sua dinoccolata occorrenza quotidiana ma attraverso una serie di filtri e mediazioni che ne stimolino l’immaginario, sia pur con intertestualità speculative legate al mito, alla fiaba, alla poesia, alla musica, al cinema e al sincretismo sinfonico che da essi erompe in una nuova forma conoscitiva.

È volontà di Gesualdo Bufalino una grande impalcatura stilistica necessaria a costruire una visione del mondo. Il lirismo, l’ucronia, l’inattualità sintattica eversiva, la prosodia frastagliata e le iperboli erano gli strumenti su cui si conformava il verso bufaliniano. Non era un vezzo o un divertissement, né tantomeno la posa del vate, ma una naturale inclinazione alla cattura della bellezza, all’espatrio dalle cose del quotidiano, per un autore che credeva fermamente che la parola costruisse il pensiero. Dalla sua Comiso mai realmente lasciata, dall’alcova, dal calco della sua scienza intimistica, come per quegli stampi di frutta martorana in cui vi è impressa la forma finale – il paese natale rappresenta la cella monastica e l’unità primigenia della sua creazione –, si leva una sovrabbondanza di echi filosofici, di ornati semantici e, soprattutto, una prossemica inalienabile, commutata nei silenzi-chiave e nella lontananza controllata dal lettore.

La ritrosia e il riserbo coi quali Bufalino accostò la scoperta della sua vocazione e la successiva riservatezza con la quale custodì tenacemente i suoi scritti, sino a quando cedette alle insistenze di Elvira Sellerio, Leonardo Sciascia ed Enzo Siciliano, fanno parte di una visione totale dello scrittore che è artigiano devoto della parola. L’autore manifestò più volte il suo desiderio di pubblicazione post mortem quale migliore destino per un artista e anche nei confronti dei premi ricevuti dichiarò la sua estraneità: «i premi sono piacevoli ma la letteratura è un’altra cosa»¹. Stretto nell’esegesi di un destino votato all’autenticità della vocazione, non v’era tempo e luogo per la velleità mondana dell’odierna scena letteraria, contesa tra equilibrismi istrionici e capricci da vedette. Gesualdo Bufalino, secondo siciliano dopo Tomasi di Lampedusa a vincere lo Strega con Le menzogne della notte, si tira fuori dalla nave da crociera di una brillante frivolezza da classifica, conscio di quanto la scrittura costituisca uno spogliarello psicologico e una degradazione del silenzio.

Se a prima vista simili comportamenti possono indurre il lettore a considerare l’artista di Comiso un anacoreta incallito, vassallo della solitudine sino a sfiorare la misantropia, le esternazioni sull’arte del suo tempo, sulla politica e sulla società civile ne restituiscono una figura consapevole della propria contemporaneità e per questo ritirata a vita interiore. Ne è esempio emblematico la dichiarazione sulla Lega e sul suo segretario di allora: «Lei sa a cosa sto pensando? A questa bruttissima diatriba tra Nord e Sud. Tra la Sicilia e la Padania. O come oserei dire oggi Stupidania. A vedere queste camicie verdi, queste escandescenze di Bossi mi sembra di vivere in un’operetta di Franz Lehar dove ci sono quelle cose tipo “il regno di Monrovia” […] Quei regni inventati con nomi inventati. Come lo “Stato di Bananasdi Woody Allen. È una burletta tragica e dolorosa»².

Bufalino fa della scrittura la sua personale confessione, l’arte della memoria e la trasfigurante compromissione della morte. Innerva di uno spirito epico la sua produzione, crivellando di colpi l’accademia e l’imbolsita tendenza al neorealismo che ancora impera negli anni ’50 e ’60. Se la realtà è interessante come fenomeno etico-morale, lo scrittore decide di darne espressione estetica dinamizzando la lingua per sovrabbondanza e richiamandosi alla trascendenza metaforica di uno stile aduso al barocco, come si confà all’oralità siciliana. È nelle ricche mescolanze di figure retoriche in cui risalta la metafora e l’iperbole che si rende evidente un florilegio di adattamenti dialettali e d’incursioni di termini stranieri, spesso italianizzati, per esprimere i confini di una lingua senza confini.

Bufalino nella campagna ragusana, 1990
(Gentile concessione Fondazione Bufalino)

«Suggerisco innanzi tutto una lettura musicale delle mie cose, un’attenzione al ritmo, alle andature melodiche, alle scansioni ritmiche, ai campi metaforici, alla prosodia nascosta nei meandri del periodo. Con la riserva che i cosiddetti contenuti si riveleranno non astratti né slegati dalla melodia, ma spie di un consistente nucleo sentimentale e morale. In altri termini, se anche i miei eroi gridano e cantano più che parlare, ciò non toglie nulla alla verità della loro pena o passione»³.

È chiaro il rifiuto della paludata tendenza all’appiattimento realistico tipico di moltissima letteratura e l’esigenza di sfrangiare, articolare, sviando dalla linearità dell’enunciato. L’effetto è una sorta di straniamento linguistico, una follia controllata, un fuoriscena che diviene protagonista di una profonda inquietudine artistico-esistenziale.  
Gesualdo Bufalino è poeta della morte, del tempo e della memoria. La sua dimora ideale proviene dal mito declinato nelle varie maniere millenarie. Insisto sulla definizione di poeta perché le malìe musicali delle quali è capace la sua scrittura evocano poemi dattilici, e finanche haiku di grazia polimorfa.

Iniziando la sua carriera con la Diceria, passando per Museo d’ombre e via via gli altri scritti, nel 1986 Bufalino dà alle stampe L’uomo invaso e altre invenzioni, una raccolta di racconti che costituisce una cosmogonia completa di temi e costruzioni escheriane, suscettibili di quelle intuizioni acrobatiche linguistiche e di operose attuazioni in seno alla gestualità ieratica della storia del Mito. Si tratta di un esempio emblematico, completamente riuscito, di partiture letterarie a tutto tondo, in cui il corpo affabulatorio si presenta come narrazione assoluta, una sorta di bonsai narrativo nel quale sono riconoscibili i tratti pertinenti alla grande letteratura dei romanzi più noti. Non è comune ritrovare, in genere, negli scritti brevi, una narratività, in senso stretto, così profondamente connotata dagli archetipi del racconto originario. Iniziandone la lettura si ha l’impressione di dovere affrontare una mole novellistica poderosa e si arriva alla fine di ogni storia avendo attraversato in poche pagine interi universi escatologici.

Come in Le menzogne della notte Bufalino si era già cimentato nella forma breve dei racconti che avevano reso tollerabile la notte prima della morte ai condannati del romanzo, così ne L’uomo invaso ciascuno dei protagonisti arriverà alla propria epifania cercando di consumare un propellente ad alta combustione esistenziale, quasi come ineludibile condizione finale.
Il senso profondo della morte, dunque, è connaturato alle ventidue storie di cui si compone la raccolta, ma nell’agonizzante epopea dei personaggi, altri temi (memoria, corpo, tempo, voluttà, mito) contribuiscono all’evolversi diastolico delle vicende.

Se, in qualche modo, il mito di Orfeo è la sottotraccia della Diceria, risulta più evidente nei racconti dell’Uomo invaso, soprattutto nel secondo dal titolo Il ritorno di Euridice.
Per Joseph Campbell4 il mito è una metafora di ciò che sta dietro il mondo visibile, e se ogni mitologia tratta della saggezza della vita in relazione alle situazioni culturali e storiche del momento, Bufalino utilizza il materiale offerto per ancorarsi a una tradizione di ricerca sul sogno archetipico del mondo che rifletta condizioni esistenziali che volgano alla fine. Il mito come donatore di senso e, di conseguenza, come spogliatore ultimo di senso. Arrivati al termine, al crollo, alla rovina, non v’è occorrenza di significazione che possa sopravvivere.

Bufalino in gita con le sue allieve, 1959
(Gentile concessione Fondazione Gesualdo Bufalino)

Euridice è l’epilogo di Orfeo e il suo contrario. Quest’eroina bufaliniana ha consapevolezza del fatto che non sarebbe mai stata salvata. Orfeo l’avrebbe riconsegnata agli inferi rinsaldando la sua impotenza. Il lettore guarda al personaggio maschile attraverso l’ottica di quello femminile. È la stessa Euridice a raccontarci di Orfeo: «Quale Erinni, quale ape funesta gli aveva punto la mente, perché, perché s’era irriflessivamente voltato?»5. In questo risiede la novità e la tendenza dello scrittore a servirsi dell’amore come variante di morte. Non si è in presenza che di maschere, all’occorrenza umoristiche, chesi pongono fuori dal vivere, che esercitano la propria tendenza a percepirsi al di là della vita, come in uno spettacolo di marionette. Ciaciò e i pupi vede il suo protagonista, per l’appunto Ciaciò, rigirarsi sul suo letto, fatto di un sacco di crine, ripensare alla cena e ai racconti di Rutilio Billirè, puparo, che sta preparando a sua volta uno spettacolo e alla figlia, Ninfa, di cui è innamorato. Ciaciò è accomodato in un soppalco in casa del Billirè e sogna la ragazza: «Una chiaria di crepuscolo, simile a un livore di luna che grondasse dagli spacchi della volta, galleggiava sulla sua testa».

L’uso della lingua pone la storia fuori dal tempo cronologico e, attraverso neologismi, inversioni sintattiche, adattamenti di vocaboli dialettali, crea una dimensione fantastica in cui Ciaciò si confessa: «Pupo anch’io» e prende avvio la sua avventura con il cavallo Ippogrifo. Umano o pupo? Nel mistero del non essere l’amore irrompe quando Ninfa decide di dormire accanto al ragazzo. «È questo che chiamano amore? Due insieme, con gli aliti mischiati a farne uno solo, che è la stessa lena vagabonda del mare…». L’amore fugace, l’ombra della morte come il suo risvolto più crudele. Ninfa il mattino dopo non ci sarà più, ma «Ed era mai venuta, quassù?…».

La variante dell’amore nella morte è un topos che continua a tornare in una serie di racconti. La vendetta di Fermacalzone, in cui ‘Nzulu Incardona si suicida per il tradimento della moglie; La panchina, dove il sentimento amoroso trova una diversa declinazione nella cura e nel racconto, quasi a richiamare Sheherazade, il personaggio a cui Bufalino fa spesso riferimento. Il protagonista è un vecchio che sta seduto sulla panchina di un parco e incontra un bimbo e la sua tata. Li intrattiene raccontando storie di sua invenzione e altre mutuate dal mito. Quella di Edipo cieco, che va a braccio della figlia Antigone.
«“È una festa per solitari, la morte”. “Una festa? Non dicevi ch’era una festa vivere?”. “Un giorno capirai che di ogni verità è vero anche il contrario. Come questo spolverino che indossi, double-face”».

Bufalino fa appello ancora una volta al mito e questa volta è Edipo, accecato dalla verità, la stessa verità che porrà fine all’esistenza dei protagonisti del racconto bufaliniano.
Lo scrittore nomina molte figure, persone che non ci sono più, quasi per riportarle in vita. E in questo è coerente con la sua visione della scrittura: «Si scrive per popolare il deserto; per non essere più soli nella voluttà di essere soli; per distrarsi dalla tentazione del niente o almeno procrastinarla. […] la scrittura per me è un giocattolo che mi distrae dal pensiero della morte, mi fa credere di durare»6.

Bufalino scriveva per guarire dalla malattia del vivere, per non lasciarsi trarre nel disinganno. Come il Noè dell’ottavo racconto, dal titolo L’uscita dall’arca ovvero il disinganno, che ha avuto fede, ha aspettato che le acque si ritirassero, che ha mandato per questo la colomba e che finalmente pensa di avere raggiunto il suo obiettivo e l’obbedienza al suo Signore. Eppure la terra «sudicia di ruggini e muffe, fumosa di vulcani, pezzata da mille pozzanghere ma rutilante» gli riserva un’amara sorpresa nella catena piramidale dell’ecosistema.

Bufalino scrive per ricordare, «ognuno vive in quanto ricorda». Essere o non essere, la non vita, un simulacro di essa, un dormiveglia perenne, ma un estremo riconoscimento di ciò che ci attraversa come unico fortilizio di resistenza. Il prete di montagna de Il ladro di ricordi è una creatura che smarrisce la sua identità perché qualcuno (Cipriano) ruba i suoi ricordi e quelli degli altri malcapitati. Essere senza passato vuol dire perdere il senso di sé. Ricercarlo ergendosi a investigatore che s’interroga sul senso della vita e della morte, come il protagonista de Il pedinatore: «Investigare non significa forse cercare di vedere, di sapere di più?». Inseguire, pedinare, scandagliare e a sua volta essere inseguiti, pedinati, scandagliati.

Bufalino evoca lo spirito della Storia a testimone del niente (Due notti di Ferdinando I); rivendica legami stretti con la Filosofia (Gorgia e lo scriba sabeo) e ritorna ancora alla Letteratura, (L’ultima cavalcata di don Chisciotte e Passeggiata con lo sconosciuto), ma il suo rapporto primigenio è con la Morte, l’estasi fatale di un uomo scomparso troppo presto che, come Basilio ne Le visioni di Basilio ovvero La battaglia dei tarli e degli eroi, ha immolato il suo corpo prima a guardia degli ultimi libri dell’umanità e poi, cospargendosi dell’amaro miele, attraendo i nemici su di sé: «Poi con un balzo si spiccò da terra, spalancò la finestra e, scavalcato il davanzale, con la croce nel pugno e gridando precipitò nell’Egeo».
Non era che il tempo d’un frullo d’ali quello che a noi del Maestro di Comiso venne concesso, eppure quando lo leggiamo sentiamo che il suo destino avrebbe potuto essere il nostro.

«Sento a volte che basterebbe un niente, un filo di forza in più o un demone suggeritore… e sforzerei il muro, otterrei, io che il Non Essere indigna e l’Essere intimidisce, il miracolo del Bis, il bellissimo Riessere». 7
«SIGNORE, MI FA MALE LA VITA8

Angelo Di Liberto

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¹ S. Palumbo, intervista a Gesualdo Bufalino, in «Gazzetta del Mezzogiorno», 1985
² G. Bufalino, Io, contro Stupidania, in «Corriere della Sera», 16 giugno 1996
3 N. Zago e G. Traina (a cura di), Il miglior fabbro. Bufalino fra tradizione e sperimentazione, Euno Edizioni, 2014
4 J. Campbell, Il potere del mito, Neri Pozza, 2012
5 G. Bufalino, Il ritorno di Euridice, in L’uomo invaso e altre invenzioni, Bompiani 1995
N. Zago e G. Traina (a cura di), Il miglior fabbro. Bufalino fra tradizione e sperimentazione, cit.
7 G. Bufalino, Diceria dell’untore, Bompiani, 1992
8 G. Bufalino, Il ritorno di Euridice, cit.

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