“Manodopera” di Eltit: il culto del supermercato

Manodopera, Diamela Eltit
(Alessandro Polidoro Editore, 2020 – Trad. L. Scarabelli)

Del capitalismo ci sembra di sapere tutto, è uno di quelli argomenti di cui si parla così tanto da essere ormai ricoperti da una coltre di luoghi comuni o, peggio, di assurdità pronunciate con sicumera da pseudo-intellettuali televisivi. Essere retorici trattando questo tema è facilissimo, risultare originali quasi impossibile. Eppure con il suo Manodopera (uscito in lingua originale nel 2002 e pubblicato quest’anno da Alessandro Polidoro Editore, con la traduzione di Laura Scarabelli) la scrittrice cilena Diamela Eltit riesce sorprendentemente a rivitalizzare l’argomento, con uno stile e una forma molto personali. Si tratta di un romanzo dalla struttura bipartita che racconta il “non-luogo” supermercato, analizzando gli effetti del capitalismo sui corpi, le menti e le relazioni umane.

Nella prima parte un inserviente del supermercato racconta in prima persona l’esperienza di un lavoro che annienta, fatto di clienti aggressivi e turni massacranti sotto gli occhi orwelliani dei “supervisori”, entità dall’aura semidivina che controllano il lavoro degli impiegati, decidendone il destino. La voce narrante è anonima: non sappiamo niente della persona che parla, e difatti ciò che essa racconta è un processo di nullificazione del sé. Il lavoro reifica il soggetto perché sfinisce il corpo e ne ottunde le potenzialità sensoriali, lo priva della sua naturale vitalità, rendendolo inerte come fosse cosa inorganica.

L’analisi del narratore ha quasi toni da Meditazioni cartesiane: egli analizza con perizia e rigore i modi in cui questo mondo assurdo determina il suo Io; ma mentre Cartesio cercava il nocciolo di sé negando le cose e dubitando della loro esistenza, l’inserviente riconosce che l’unica realtà possibile è quella delle merci che lo circondano, mentre nella sua interiorità vede un abisso. A differenza del filosofo (che si scopriva soggetto), la voce narrante è immersa ‹‹in un viaggio di sola andata›› da sé stessa, attraverso cui scopre di essere un ‹‹oggetto neutro››, una presenza indifferente che fa parte integrante dell’arredo del supermercato, identificata da un cartellino come fosse un’etichetta.

Nel supermercato non solo gli oggetti fagocitano i soggetti, ma acquistano proprietà divine: in questo tempio pagano i clienti con la loro voracità non fanno che consacrare una merce che è degna di venerazione: ‹‹Toccano i prodotti come se pregassero Dio. Li accarezzano con devozione fanatica››[1]. I loro maltrattamenti sull’inserviente sono una forma di flagellazione a cui questi si presta con la mitezza di un asceta. Egli esercita infatti una ‹‹mistica infetta›› lavorando per ventiquattr’ore consecutive e sconvolgendo così il ritmo naturale della vita, che vede persino la divinità riposarsi dopo sei giorni di fatiche. Al Dio creatore si sostituisce così un ‹‹insignificante Dio di plastica››, immerso tra i suoni delle campane elettroniche che a Natale invadono ossessivamente il supermercato.

La seconda parte del libro è molto diversa eppure speculare rispetto alla prima: ad un’analisi “interna” del lavoro Eltit fa seguire il racconto delle sue dinamiche “esterne”, cioè di come la logica capitalistica plasma le relazioni tra persone. Dall’Io narrante si passa a un generico “noi” che racconta la vita in una casa i cui inquilini sono dipendenti del supermercato: i commessi Enrique e Alberto, Isabel la promoter, l’imbustatore Gabriel, l’addetto alla sicurezza Pedro, l’impiegata alla macelleria Sonia. Questi personaggi sono espressione di una disperata condizione di precarietà: essi vivono sotto la minaccia perenne del licenziamento. Attraverso performance sempre perfette cercano a tutti i costi di non essere sostituiti dalla miriade di disoccupati che stazionano in fila davanti al supermercato alla ricerca di un posto.

Il “noi narrante” fa spesso riferimento ad un affetto che lega i componenti della casa, sentimento che però non rintracciamo mai: l’abitazione infatti non è che una succursale del supermercato, ne riproduce le medesime dinamiche di odio e di lotta per la sopravvivenza. Eltit dipinge questa atmosfera cannibalistica descrivendo gli odori putrescenti, le secrezioni del corpo, il sangue e la saliva in particolare, che appare come una bava famelica sulle labbra dei personaggi. Parliamo però di una lotta a perdere: nonostante il lavoro continuo e la dedizione assoluta, i protagonisti si ritrovano in continue ristrettezze, tanto da finire senza acqua, luce e gas. Non resta loro che il turpiloquio contro una società che gode nell’espropriare il poco che si è conquistato.

Nonostante la loro rabbia nei confronti del sistema-supermercato, i nostri personaggi non appaiono mai fuori dalla sua logica, ma ne sono anzi inglobati. Eltit mantiene sempre uno sguardo lucido e non sembra mai prendere veramente la loro parte nella narrazione. Questa cruda analiticità non depotenzia Manodopera della sua carica politica, ma rende invece il suo discorso più complesso e stratificato. La scrittrice non scade nella propaganda illusoria di cui spesso si fa promotore chi affronta questo genere di argomenti, ma con i suoi personaggi racconta una disfatta storica. La storia del Cile è infatti quella di un curioso rovesciamento: dall’essere la speranza dei lavoratori con Salvador Allende è finito per diventare il paese più liberista al mondo, nel quale tutto ha un prezzo e in cui non esiste nulla di diritto.

Questa dimensione storico-politica di Manodopera è riscontrabile nei titoli delle due sezioni (Il risveglio dei lavoratori e Puro Cile), così come in quelli dei capitoli della prima parte. Nella nota critica la traduttrice Laura Scarabelli fa presente come essi rimandano a nomi di riviste clandestine per la lotta di classe, di cui Eltit indica anche la data e il luogo di prima pubblicazione. Viene così delineandosi una sorta di “cronologia del fallimento”, quasi una rappresentazione dell’ironia della Storia. Non è un caso se ad esergo del libro è posta una citazione della poetessa argentina Sandra Cornejo, che con tono bruciante afferma: ‹‹Qualche volta, per un istante, la storia dovrebbe provare compassione e metterci in guardia››.

Giacomo De Rinaldis


[1] p. 13

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