La città dei vivi, Nicola Lagioia
(Einaudi, 2020)
Sono passati ormai più di quattro anni dal marzo del 2016 quando, in un anonimo appartamento di via Igino Giordani, periferia romana, due ragazzi benestanti, Manuel Foffo e Marco Prato, seviziarono per ore un più giovane e molto meno benestante ragazzo, Luca Varani, portandolo a una morte tanto lenta quanto atroce. Di questo (certamente, non solo di questo), scrive Nicola Lagioia nel suo ultimo romanzo, La città dei vivi.
Come racconta lo stesso Lagioia, tutto ha inizio quando, a pochi giorni dalla notizia dell’omicidio, l’autore riceve la proposta di scrivere un reportage sul caso per il “Venerdì”: «La domenica precedente, quando avevo sentito la notizia, ero rimasto ipnotizzato davanti alla tv. Nonostante gli elementi del racconto fossero ancora confusi, mi era sembrato di cogliere subito qualcosa di famigliare. La sensazione era stata simile a quando, per strada, riconosci in un passante i tratti di una persona che non vedi da anni. Mi detestai per aver visto il servizio fino alla fine e spensi il televisore.»
Superate le riluttanze iniziali, la proposta è stata ovviamente accettata, e il reportage è diventato un libro. Viste le premesse, è utile sgombrare subito il campo dai dubbi: La città dei vivi è sì la ricostruzione di uno dei più efferati episodi di cronaca nera avvenuti in Italia negli ultimi decenni, ma è anche molto di più.
Ne è testimone l’articolata struttura del romanzo: nelle sei parti che lo compongono, infatti, Lagioia mette in campo tutta la sua abilità di narratore, andando avanti e indietro nel tempo e mescolando generi, stili e punti di vista. Ne La città dei vivi la voce narrante esterna (anch’essa diversa, più asciutta rispetto a La Ferocia) si alterna a quella in prima persona dell’autore, ma non solo: troviamo messaggi di whatsapp, battute televisive, lettere, post di Facebook e documenti di ogni tipo tra cui spiccano i verbali degli interrogatori.
Nella parte terza, per esempio, intitolata appunto Il coro, gli aficionados di Roberto Bolaño (tra cui spicca proprio Lagioia) potranno in qualche modo rivedere ciò che accade nel romanzo Detective selvaggi, in cui le vicende di Ulises Lima e Arturo Belano vengono raccontate dalle testimonianze di ben 54 personaggi. Il prima e il dopo l’omicidio Varani, ma anche il durante, assumono così una luce diversa come diversi sono i testimoni della vicenda. Le personalità dei protagonisti, vittime e carnefici, certo, ma anche le persone coinvolte loro malgrado nella vicenda, vengono così ricostruite con precisione e completezza: l’enorme mole di dichiarazioni raccolte e selezionate offre all’autore la possibilità di lasciare al lettore la sensazione che la storia si racconti da sé (il che, quando si parla di letteratura, è più il frutto di un abile artificio che di una genesi reale).
E tra i protagonisti del romanzo spicca sicuramente la città di Roma: le descrizioni che intervallano e in qualche modo suggellano l’avanzare del racconto non hanno, come ovvio, il solo proposito di raccontare l’ambientazione del delitto; spesso, infatti, Roma è il delitto stesso: una meravigliosa città governata dal caos e dalla cocaina, tanto che si è portati a pensare che un fattaccio del genere sarebbe potuto accedere, in queste modalità, solo ed esclusivamente nella capitale, come se l’omicidio Varani non fosse altro che il prodotto di quest’ultima: «Quella sera però, al decimo piano di via Igino Giordani, sembrava che tutta la disperazione, il livore, l’arroganza, la brutalità, il senso di fallimento di cui era piena la città, si fossero concentrati in un unico punto.» Di Roma, il barese Lagioia restituisce un’aura oscura e magmatica: la città dei vivi si fonde e confonde con quella dei morti: «È la teoria del Mondo di Mezzo, cumpa’, – aveva detto uno degli intercettati, – ci stanno i vivi sopra e i morti sotto. Noi siamo nel mezzo perché c’è un mondo, un Mondo di Mezzo, in cui tutti si incontrano tra loro.» È lo stesso autore a esplicitarne l’essenza, perché «La città di sotto si stava mangiando quella di sopra, i morti divoravano i vivi, l’informe guadagnava terreno.»
Anche la scelta del tempo della narrazione merita una riflessione: parrebbe infatti un’opzione scontata per la gran parte dei romanzi, ma leggere di fatti avvenuti in sostanza l’altro ieri raccontati nel bianco nero del passato remoto, sortisce il duplice effetto di stordire il lettore e allo stesso tempo fornirgli l’occasione di valutare la vicenda con lucidità dalla giusta, remota appunto, distanza. Ne La città dei vivi, Lagioia assume così il duplice ruolo di guida e viaggiatore, è Dante e Virgilio insieme: attraverso un’indagine che assume sempre di più i tratti di una catabasi contemporanea, guida il lettore dalle vie di Roma fin dentro l’anima dei protagonisti, ma compie allo stesso tempo un viaggio all’interno di sé.
Particolare rilievo assumono per questo le motivazioni che hanno portato Lagioia ha occuparsi del caso in maniera così viscerale. L’autore svela solo nel cuore del romanzo il perché di un tale interesse (e per questo non pare il caso di anticiparlo qui); eppure, le ragioni dell’autore paiono coincidere con quelle che spingono e coinvolgono il lettore all’interno della storia: «Ecco perché», scrive Lagioia, «quando ascoltai la prima volta la notizia dell’omicidio Varani, sentii all’istante qualcosa di famigliare. Una scossa elettrica. Naturalmente, la famigliarità era meno che parziale.» Ed è proprio quel «qualcosa di famigliare», che ogni essere umano può individuare nel suo rapporto con il male, a fungere da gancio lungo tutta l’esperienza narrativa.
Del resto da Virgilio a Truman Capote, passando per Dante, indagare il male è per l’uomo indagare se stesso: anche per questo la porta dell’appartamento in via Igino Giordani somiglia così tanto alla porta dell’Inferno; e infatti Lagioia descrive così gli attimi successivi alla visione: «Come avere immerso una mano nello Stige e sentirla ancora gonfia d’ombra, pensai dopo essere tornato a casa. Esiste una malvagità dei luoghi?, mi chiedevo, si può parlare di persistenza fisica del male dopo che è stato consumato? O è solo suggestione?»
È anche grazie a passaggi come questi che lo scarto tra la mera cronaca giornalistica e la letteratura appare ancora più evidente: dal voyeurismo di certe trasmissioni televisive, fino all’odio gratuito dei social network, tutto si condensa nel racconto e viene sublimato dalla letteratura: perché se è vero che «assolvere è comunque giudicare», è l’atto dello scrivere che riesce ad avvicinare il “mostro” all’umano, descrivendo come il muro che separa il proclama urlato dal giovane Nicola («Uccidiamo Umberto Eco!»), dalla rivelazione di Manuel Foffo al padre («Abbiamo ucciso una persona»), sia più sottile e labile di quanto ci piaccia pensare.
Ignazio Caruso