Non è semplice scrivere di una poetessa premio Nobel. Altrettanto difficile è analizzare in breve una poetica, quella di Louise Glück, che copre un arco di circa cinquant’anni di attività (1968-2014, se si considera l’ultima pubblicazione, ovvero Faithful and Virtuous Night – Farrar, Strauss and Giroux, 2014). In questa analisi mi soffermerò su due raccolte in particolare: L’iris selvatico e Averno, pubblicate a fine 2020 per Il Saggiatore nella traduzione di M. Bacigalupo.
Bisogna fare presente, innanzitutto, che The Wild Iris, pubblicato per la prima volta nel 1992, è stato il libro che ha permesso al panorama internazionale di conoscere Louise Glück, poiché proprio grazie a quest’opera vinse il Premio Pulitzer del 1993.
L’iris selvatico è una raccolta che comprende cinquantaquattro liriche. L’inizio è estemporaneo e catapulta il lettore in un ambiente ricco ma chiuso. Di primo acchito sembrerebbe quasi un luogo felice, l’unico rimasto sulla Terra. In particolare, nella lettura scopriamo che si tratta di un giardino che alcune volte appare essere un recinto.
In realtà è un luogo del Vermont , negli Stati Uniti. Qui vivono un uomo e una donna. Sono solitari. La donna, che è colei che parla in prima persona in alcune delle poesie, nei momenti in cui si trova sola ed esente dal lavoro di giardinaggio giornaliero, comunica con Dio. È proprio questo il punto focale del libro.
Si è detto molto della presenza di Glück stessa nel personaggio della donna, poiché a volte il marito e un figlio (che appare e scompare) vengono citati con i loro nomi reali. Ciò che mi è sembrato più interessante però, piuttosto che la ricerca di un lirismo che sicuramente esiste, è la presenza di un’altra voce che si alterna in forma quasi teatrale a quella della donna. È la voce di un dio di matrice cristiana, creatore e fin troppo umano, si potrebbe dire.
Durante tutte le poesie che compongono la raccolta, la donna chiede a Dio che fine abbia fatto; perché non è più così presente come lo era stato durante la sua infanzia. E lo rivede nel giardino stesso, nel marito che se ne prende cura o nei fiori e nelle piante che costituiscono il paesaggio. A questa domanda si alterna quella del significato della vita e in particolare della conoscenza della morte. Il dio che risponde, però, è distaccato, non ha in simpatia gli esseri umani – non più almeno -, a cui dice di aver donato tanto senza avere ottenuto ciò che si aspettava, ovvero la consapevolezza, da parte loro, di essere caduchi, e l’umiltà di non chiedere altro. Li osserva quindi inermi, sconcertati e ancora alla ricerca di un significato e della vita eterna.
«Quando vi ho fatti, vi amavo. Ora vi compatisco.
Vi ho dato quanto vi serviva:
letto di terra, lenzuolo di aria blu —
Mentre mi allontano da voi
vi vedo più chiaramente.
A quest’ora le vostre anime avrebbero dovuto essere immense, non quel che sono,
piccole cose vocianti —
[…]»
La donna accusa Dio di voler essere inconcepibile, troppo lontano e contemporaneamente in ogni cosa per essere amato come vorrebbe. Lei vorrebbe che Dio fosse riconoscibile, a sé stante, visibile nella sua essenza. Ma l’unico linguaggio che ha per definirlo e per cercarlo, è proprio il linguaggio derivato dalla sua vita nel giardino (il quale sicuramente va associato all’idea di Eden). Ad esempio, in una delle poesie chiamate Mattutino:
«[…] Sei come il biancospino,
sempre la stessa cosa nello stesso luogo,
o sei piuttosto la digitale, imprevedibile, prima apparsa
come stecco rosa sul pendio dietro le margherite,
e l’anno dopo, violacea nel roseto? […]»
L’iris selvatico è un libro complesso e denso che, seppure segue una direzione piuttosto chiara e prevedibile, illumina su una situazione umana, quella del castigo. Il castigatore però non è Dio, bensì la scelta dell’uomo – derivata forse dalla propria natura – di non accettare la situazione in cui si trova. In qualche modo, anche se l’uomo ha la capacità di porsi le domande e di conoscere le risposte, non vuole e non può accettare di avere una destinazione definita, limitata in uno spazio e in un tempo. E questo è un tema ricorrente nella poesia di Glück.
Ciò che tuttavia glorifica l’uomo rispetto al dio, è proprio la presenza dell’anima – il personaggio donna la chiama così – che in qualche modo “disfa” l’uomo della sua interezza e gli permette di credere che l’esistenza sia molteplice; che essa muti continuamente, così come il cielo e la terra (quella che compone il giardino stesso).
Oltre al piano contenutistico, è da considerare la scelta – che sarà presente anche in Averno – di seguire una narrazione ben definita. Nel caso de L’iris selvatico questo accadesoprattutto tramite poesie in forma di dialogo. Infatti, per quanto le liriche possano essere prese singolarmente, è fondamentale durante la lettura avere una concezione di unità. La raccolta ha un inizio e una fine, dove si percepisce chiaramente che durante il percorso narrativo c’è stato un cambiamento nella consapevolezza dei personaggi. L’iris selvatico e Averno sono due libri che ripropongono una narrazione interiore dell’uomo alla ricerca di un senso o quantomeno di una speranza, e ciò che li accomuna ancor di più è proprio la forma narrativa, oltre a uno stile poetico attribuibile alla Glück per via di alcuni elementi a cui farò cenno più avanti.
Averno è stato pubblicato negli Stati Uniti nel 2006, quattordici anni dopo L’iris selvatico.
L’Averno, che dovrebbe essere l’oltretomba – come citato alla prima pagina del libro: «Averno. Dal latino Avèrnus./ Laghetto craterico a sedici chilometri/ a ovest di Napoli, che i Romani/ credevano fosse l’ingresso dell’oltretomba» – si rivela in realtà uno stato della vita della narratrice, probabilmente passato, il quale, una volta rivissuto, consente una nuova visione del presente.
Come ne L’iris selvatico, ci troviamo all’interno di una narrazione complessa ma piuttosto definita nei suoi contorni.
In qualche modo Averno è un libro che racconta una crescita, in particolare la maturazione di una donna che si trova di fronte a delle contraddizioni sociali che riguardano soprattutto la sua educazione sentimentale. Non a caso il filo conduttore di queste poesie è Persefone e la sua discesa – apparentemente forzata – nell’Averno. Infatti, la Persefone che troviamo nella raccolta appare molto meno costretta di quanto non appaia nel mito che tutti conosciamo. In qualche modo la morte è sia un mistero abbastanza terrificante che una liberazione: come se il vuoto potesse essere il giusto equilibrio dopo la vita. Questa visione la suggerisce proprio la poetessa nel primo componimento della raccolta, Le migrazioni notturne:
«[…]
Allora cosa farà l’anima per rinfrancarsi?
Mi dico che forse non avrà più bisogno
di questi piaceri;
forse già non essere basta del tutto,
per quanto sia difficile da immaginare.»
Allo stesso modo de L’iris selvatico, sarebbe una violenza tremenda categorizzare Averno in un “tipo o genere di libro”, al contrario, come forse accade ad ogni poeta che si può definire tale, quando Glück sembra parlare di qualcosa, sta parlando anche di qualcos’altro. Quindi si può dire che Averno ha sì dei temi principali come la morte e la crescita, ma contemporaneamente questa categorizzazione risulterebbe un “tarpare le ali” al libro stesso.
La solitudine e un’incomprensione sostanziale tra gli esseri umani sono di certo i leitmotiv di queste due raccolte di Louise Glück, così come una continua e profonda ricerca di un significato della vita, il quale però potrebbe essere “semplicemente” un non-significato, una non-spiegazione priva di logica e scopo. Citando tre versi di Ninnananna, da L’iris selvatico: «[…] all’essere umano occorre/ insegnare ad amare/ silenzio e oscurità».
Prima di concludere, è importante accennare al linguaggio e allo stile di Louise Glück. Il suo modo di scrivere è legato a una tradizione americana che come in Allen Ginsberg e ancora prima in Walt Whitman, presta moltissima attenzione al “respiro” dell’autore. Ciò significa che il verso molto spesso ha la lunghezza del respiro dell’autore stesso; il tempo di dirlo, insomma. Questa linea è riconoscibile nella poesia di Louise Glück, la quale inoltre si affida alle parole comuni, conosciute. Non ricerca un linguaggio sofisticato o troppo complesso, bensì preferisce assemblare parole apparentemente semplici per dare vita a un pensiero colmo di riferimenti e significati. Quella della Glück è una scrittura chiaramente americana che porta con sé il vantaggio di avere questa consapevolezza, e di non volere in alcun modo cadere nell’imitazione di altri grandi del passato. In questo modo durante la lettura non ci imbattiamo mai in un minimalismo forzato. La scrittura è spontanea e offre questa stessa caratteristica alla lettura.
Inoltre, non si può tralasciare il concetto di silenzio e di bianco. Molto spesso Louise Glück ci lascia dinanzi a un momento di vuoto, di pausa. In particolare questo accade dopo una rivelazione piuttosto importante, ed è contrassegnato dal simbolo del trattino (“-”). Questa componente “non scritta” ci porta su un ulteriore piano di comprensione di ciò che ci viene raccontato. La pausa, quindi, così come il respiro, è aspetto fondante della poetica di Louise Glück.
In generale, la poesia di Louise Glück ha dei chiari punti di riferimento, come Emily Dickinson – fra tutti -, Walt Whitman e la contemporanea Anne Carson. Il silenzio della pagina bianca e delle pause è parte fondamentale del componimento stesso. Il linguaggio è semplice, diretto. Viene costantemente sfruttato l’ambiente circostante alla narrazione per creare metafore e significati; quindi è un linguaggio spesso composto di oggetti concreti. Ma è proprio un interesse per l’altro, per il “non detto” che fa parte della nostra vita a rendere visionaria e complessa la sua poetica. Si potrebbe dire che nella poesia di Louise Glück c’è spazio per tutto ciò che interessa una vita umana.
«E voglio gridare
vivete tutti in un sogno».
Vittorio Parpaglioni