Intervista ai traduttori di Orwell: Animal Farm

All’inizio di quest’anno sono scaduti i diritti sulle opere di George Orwell; di conseguenza, molti editori italiani hanno deciso di riportare in libreria i testi dell’autore britannico in tante, nuove traduzioni: ma quali sono le loro specificità? Abbiamo intervistato sei traduttori delle nuove edizioni della celebre Fattoria degli animali; un’occasione di confronto tra sensibilità traduttive che, seppur diverse per approccio e formazione, sono unite dallo scopo comune di restituire al lettore italiano la voce di un autore tutt’oggi estremamente attuale. In questo denso dialogo a più voci, i traduttori ci svelano salienti retroscena del loro lavoro e, impreziosendo il loro contributo con numerosi spunti riguardo il loro personale rapporto col testo, gettano luce su alcuni aspetti, affascinanti e impervi, del fare traduzione. Domani la seconda parte dell’intervista, su Nineteen Eighty-Four, intanto buona lettura!

Ringraziamo caldamente: Franca Cavagnoli (Feltrinelli), Claudia Durastanti (Garzanti), Vincenzo Latronico (Bompiani), Daniele Petruccioli (Rizzoli Bur), Marco Rossari (Einaudi), Enrico Terrinoni (Newton Compton).

ORWELLTYPEWRITER

Domanda generale su entrambi i testi: qual è stata, negli anni, la vostra personale esperienza di lettura, prima che di traduzione, di Nineteen Eighty-Four e Animal Farm? Li avete letti prima in lingua originale o in traduzione? Cosa vi hanno lasciato?

F. Cavagnoli (Feltrinelli): Orwell non è tra gli autori che ho letto nell’adolescenza, quando leggevo soprattutto scrittori italiani e francesi. Ho letto entrambi i libri in inglese intorno ai vent’anni, e non li ho mai letti in traduzione, come succede spesso a chi studia lingue e letterature straniere. Ho un ricordo vivido di Nineteen Eighty-Four: l’ansia che provai all’idea di essere sempre controllata da un occhio invisibile, un occhio che, dentro di me, si sovrapponeva a quello di mio padre e che mi gettava a volte in uno stato di profonda angoscia, spingendomi nel contempo a ribellarmi, ma che mi giocò poi un tiro mancino la prima volta che entrai in una cabina elettorale, ben decisa a votare per un piccolo partito della sinistra radicale mentre poi, all’ultimo momento, con gesto impulsivo votai per il partito per cui votava mio padre. Il senso di vergogna e di impotenza per quel gesto è rimasto a lungo e ancora oggi quando ci ripenso mi provoca inquietudine. La denuncia del totalitarismo e della menzogna, la ricerca della verità e l’impegno politico mi sono apparsi evidenti in seconda battuta. Lavorando alla traduzione del libro, quel senso di vergogna e di impotenza, annidato così in profondità nel romanzo, l’ho avvertito più volte. È questa, per me, l’essenza di Nineteen Eighy-Four.

C. Durastanti (Garzanti): Ho letto sia Nineteen Eighty-Four sia Animal Farm al liceo, il primo in italiano e il secondo in inglese, e poi non li ho ripresi più, se non citandoli occasionalmente o forse a sproposito in articoli di critica culturale o altro, ma quasi mai in pezzi di critica letteraria pura. Dico a sproposito perché mondi coerenti e fortemente connotati da allegorie e metafore, come lo sono quelli contenuti in questi libri, si prestano a un eccesso di riconoscibilità che però li opacizza, facendoli diventare alla distanza oggetti familiarissimi ma avvolti da un alone. Credo che il senso delle nuove traduzioni sia stato questo, per chi ci ha lavorato e per i lettori: ridurre l’opacità dell’Orwell iper-familiare e riconoscibile.  Ovviamente molte cose le avevo dimenticate, da lontano, e altre le ho ritrovate con sorpresa. Per me rileggere Animal Farm è stato riappropriarmi di una critica allo sfruttamento del lavoro.

V. Latronico (Bompiani): Devo aver letto entrambi in italiano, a scuola, ma a parte qualche immagine della Londra di Airstrip One non deve essermene rimasto molto. In compenso ricordo benissimo la seconda lettura, qualche anno più avanti, in inglese. Ciò che ricordo è soprattutto la scoperta della purezza stilistica di Orwell – leggendaria, in ambito anglofono, e poco nota da noi – e la meraviglia con cui mi rendevo conto della perfezione del meccanismo di creazione di angoscia che mette in piedi in 1984 – una meraviglia soffocata, diciamo. La terrificante allegoria politica del libro mette in ombra tutte le altre cose che è – un’opera di fantascienza; un raro caso di storia d’amore canonica ma senza lieto fine; un romanzo-saggio; un esperimento di linguistica sintetica. Questa molteplicità mi sembra uno dei maggiori risultati raggiunti da Orwell.

D. Petruccioli (Bur Rizzoli): Ho letto Animal Farm da bambino, in lingua originale, e poi da adulto nella traduzione di Michele Mari, quando uscì nel 2019 per Mondadori, perché cerco di seguire Mari regolarmente come scrittore e traduttore. 1984 l’avevo invece letto in italiano intorno ai 20 anni nella traduzione storica di Gabriele Baldini, e l’ho riletto in originale in occasione della mia nuova traduzione. Infine, prima di tradurre, mi sono procurato tutte le traduzioni italiane esistenti, ma questo riguarda già il lavoro di traduzione. Quanto alle sensazioni, non sono cambiate: Orwell, sia da bambino che da grande, mi ha sempre dato la sensazione di un autore senza pietà. Ricordo lo sgomento del me stesso ragazzo nel leggere del dispotismo omicida di Napoleone, la rabbia furiosa durante la scena dei maiali che si vestono da uomini e camminano su due gambe, la profonda, amara tristezza nell’incapacità degli altri animali di ribellarsi. Allo stesso modo, 1984 mi ha fatto fin da subito l’effetto di un film dell’orrore, con quel rapporto sadomasochista di Winston nei confronti del suo torturatore O’Brien. Insomma, un rapporto da subito difficile ed emotivamente molto intenso. Mi sono sempre chiesto se fosse necessario, per Orwell, farmi tanto male allo scopo – profondamente etico – di mettermi in guardia contro i pericoli della degenerazione del potere, anche dentro di me. La risposta è stata sempre: sì.

M. Rossari (Einaudi): Li avevo letti in traduzione da ragazzo. Mi avevano affascinato sul piano politico, ma lasciato freddo sul piano letterario. All’epoca mi interessavano di più Joyce, Pynchon, Robbins, Kesey. Poi ho riletto Animal Farm in inglese, anni dopo, per caso. Traducendoli, ad ogni modo, l’impatto è stato come sempre diverso. Stare in un testo significa dibattersi in un gorgo di correnti più e meno sottili, è completamente diverso rispetto alla lettura, per quanto analitica e critica. C’è un che di fantasmatico, nell’appollaiarsi sulle spalle dell’autore (soprattutto se gigante) e nell’imitare il lavoro che ha svolto. Percepisci sfumature molto ampie, soprattutto in 1984.

E. Terrinoni (Newton Compton): Li lessi in traduzione, quando ero al liceo. Il primo mi ha lasciato una forte consapevolezza dell’importanza della storia nella comprensione del presente e ancor di più nell’immaginare futuri possibili. Ricordo con nitidezza l’idea che la visione apparentemente pessimistica del libro lasciasse più di uno spiraglio a quella che chiamerei ora la creatività dell’ottimismo. Una sensazione confermata da Animal Farm, che lessi più tardi, e di cui studiai alcune interpretazioni critiche che lo contestualizzavano storicamente. Mi lasciarono scettico allora come oggi, non perché fossero inutili o false, ma perché Animal Farm è un libro che parla ancora una volta più del futuro che del presente o del passato. Un futuro da non accettare e da scongiurare con l’impegno, con la libertà di immaginare scenari differenti. Sono due libri che mi hanno molto segnato durante l’adolescenza. Li ho letti in inglese soltanto durante gli anni universitari.

animal farm

Passiamo ad Animal Farm: la prima edizione pubblicata nel Regno Unito ha come sottotitolo A Fairy Story, poi epurato dall’edizione statunitense. Le interpretazioni e traduzioni di “fairy story” possono essere molteplici: come avete interpretato e declinato questa espressione, che collocherebbe il testo dentro uno specifico genere letterario? Quali sono state le ragioni per la conservazione o l’eliminazione del sottotitolo nel testo italiano?

F. Cavagnoli (Feltrinelli): Orwell decide di aggiungere il sottotitolo perché fiabe e filastrocche hanno sempre esercitato su di lui una vera e propria fascinazione fin dalla prima infanzia, e anche in seguito, negli anni in cui si dedicò all’insegnamento, e pure nel corso del suo lavoro alla BBC. Ciò che sorprende è proprio la scelta dell’espressione fairy story, ossia “fiaba”, quando nella postfazione scritta per la prima edizione del libro, e che l’editore non pubblicò, entrambe le volte in cui Orwell allude al sottotitolo parla di fable, ossia di “favola”, come forse ci si aspetterebbe da una storia con animali parlanti. La prima è quando sottolinea il tema in rapporto al fatto che il libro è stato rifiutato da quattro editori: «Se la favola si rivolgesse a dittatori e dittature in genere, allora non ci sarebbero problemi per la pubblicazione, ma la favola segue gli sviluppi dei Soviet russi e dei loro due dittatori, e quindi si riferisce unicamente all’Unione Sovietica». La seconda volta è quando allude ai maiali: «Se la casta predominante nella favola non fosse quella dei maiali sarebbe meno offensivo». Per parlare della sua storia con elementi fantastici, che ha per protagonisti pochi uomini e molti animali, e il cui fine è far comprendere con un linguaggio piano una verità morale, alla stregua delle favole di Esopo, di Fedro e di La Fontaine, Orwell il saggista usa la parola “favola”. Orwell lo scrittore di narrativa, invece, sceglie per il sottotitolo del suo libro la parola “fiaba”. Ho voluto rispettare la scelta dell’autore e proporre come titolo Fattoria degli animali. Una fiaba.

C. Durastanti (Garzanti): Ho scelto di rendere «A fairy story» con una «Una storia fiabesca» approfittando della doppia valenza che «storia» ha in italiano, mentre in inglese si distingue tra history e story. Una storia fiabesca come Animal Farm è un episodio all’interno di un genere che possiamo immaginare come LA storia fiabesca, cioè la storia come insieme di snodi politici, sociali, collettivi e individuali «ridotta» (o amplificata, ecco) a fiaba, il che non la rende più innocua o innocente, ma più sinistra, inquietante. Non è un sottotitolo rassicurante, o meglio, è ingannevole, e tornandoci a lettura finita svela tutto il suo potenziale. Io lo interpreto un po’ come un campanello d’allarme, soprattutto se hai letto Animal Farm a scuola o tanto tempo fa, e ti ricordi che non andava a finire bene. Il sottotitolo enfatizza l’effetto ingannevole e traditore del racconto mellifluo e fiabesco proposto da una voce autorevole e adulta. La voce del potere, non la voce di Orwell qui. Una storia fiabesca possono dirlo giusto i maiali che vogliono ingannare gli altri animali della fattoria, che di fiaba ci muoiono.

V. Latronico (Bompiani): Più che una collocazione di genere, ho ritenuto quel sottotitolo una mossa di difesa politica preventiva da parte di Orwell – tant’è che, pur essendo lui in vita, non è stato mantenuto quasi mai. Anche in base a questo si è ritenuto di non mantenerlo.

D. Petruccioli (Bur Rizzoli): Ho deciso di mantenere il sottotitolo, ma di tradurlo “Una storia inventata”. Come ho scritto nell’introduzione alla mia traduzione, si tratta di una scelta molto voluta. Come dicevo prima, nello scrivere i suoi romanzi George Orwell è impietoso perché il suo intento – etico, vale la pena ricordarlo – è di indicarci un pericolo che nascondiamo in noi. E per segnalarlo, con sottilissima ironia, Orwell si serve non dell’espressione più ampiamente in uso di fairy tale, ma usa la forma meno in uso (nei corpora da me consultati, a metà degli anni Quaranta presenta circa la metà delle occorrenze) di fairy story. Secondo me lo fa apposta. Ecco perché tradurre «Una favola» o «Una fiaba» non sarebbe stato abbastanza. Per questo il mio sottotitolo, con intenti non meno ironici di quelli che leggo nelle intenzioni dell’autore, è “Una storia inventata” – cosa che La fattoria degli animali non è, come ben sappiamo. Eppure, è. Perché inventa quel che potrebbe accadere non nella vecchia URSS, ma qui da noi.

M. Rossari (Einaudi): Noi – e uso un noi redazionale, perché queste decisioni (come tante altre) vengono prese insieme a revisori, editor e direttori editoriali – abbiamo deciso di tenerlo e renderlo con “Una favola”. Non lo trovo sminuente. Anzi. Ormai non abbiamo più bisogno di conoscere le tappe della Rivoluzione d’Ottobre per coglierne il senso. Piace ai bambini così come ai più eruditi critici letterari. Coniugando Esopo e Swift, la Fattoria di Orwell è riuscita a replicare l’universalità della fiaba e del mito.

E. Terrinoni (Newton Compton): Ho affrontato la questione in maniera generale nella mia introduzione. Come per le fiabe di Wilde, qui Orwell a mio modo di vedere parla anche, se non soprattutto, a un pubblico giovanissimo. Come tutti i grandi socialisti e anarchici della storia, vuole intervenire nel presente per cambiare i solchi all’apparenza immutabili in cui questo tristemente si muove. Le letture critiche degli ultimi decenni hanno spesso sorvolato sulla possibilità di inserire il testo nella children’s literature, ma io ritengo che la questione vada posta eccome: basta il titolo a inquadrarlo così, fermo restando l’importanza di tutte le implicazioni storiche, politiche, sociali, delle letture storiografiche e così via. Per me, oggi, vale assai più la pena leggere questo testo come una sorta di profezia favolistica intesa a far aprire gli occhi anche davanti ai piccoli egoismi, ai piccoli egocentrismi. Se posso aggiungere, in questo contesto la sua collocazione storica, che è indubbiamente fondamentale, diviene però secondaria. Orwell parla alle giovani menti, perché sa che soltanto quelle possono cambiare la storia. Plasmando il carattere in senso aperto, inclusivo, altruista. In risposta anche alla domanda successiva sul lettore modello del testo, sono comunque state queste le considerazioni che hanno guidato sin dalle prime righe la mia traduzione.

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Animal Farm è un testo stratificato, che rivela significati diversi in base a chi lo legge. Dal momento che ha molte caratteristiche della favola e deve parte del suo successo alla diffusione nelle scuole, si è deciso di trattare il testo come un romanzo per ragazzi o per adulti? Chi era il lettore modello che avevate in mente durante la traduzione?

F. Cavagnoli (Feltrinelli): Malgrado il tono a tratti ingenuo, in particolare quando il narratore prende il punto di vista degli animali più sprovveduti, e un sottotitolo che ne specifica il genere, la novella di Orwell secondo me non è tanto per bambini – il tema politico e i puntuali riferimenti ai Soviet poco si prestano – quanto per quegli adulti che hanno saputo tenere vivo dentro di sé il bambino che sono stati. Quindi il mio lettore modello è stato un lettore adulto, anche giovane. Lettrici e lettori capaci di provare meraviglia, e che dell’infanzia hanno conservato l’entusiasmo e l’autenticità ma anche il senso di ingiustizia provato ogni volta che da bambini si sono trovati di fronte a un sopruso o a una prevaricazione. Adulti che sanno ancora indignarsi e che non hanno dimenticato l’insegnamento di Orwell quando rivendica il diritto di dire alla gente ciò che non vuol sentire, perché libertà significa questo.

C. Durastanti (Garzanti): Pensavo molto al lettore tra le classi medie e superiori, alla lettrice che sono stata io al liceo. La traduzione che ho realizzato per Garzanti ha una storia particolare in quanto la decisione di mettere il testo a fronte in inglese, con una chiara ottica di divulgazione scolastica, è entrata nel discorso a traduzione pressoché finita (ho avuto molto tempo per lavorarci) e dunque ha necessitato di vari passaggi avanti e indietro per limitare le eterodossie e le fughe rispetto al testo originale. Credo che nell’ottica dell’insegnamento della lingua inglese attraverso una delle sue opere più celebri e adatta a quella fascia di età, questo moto possa favorire un confronto ravvicinato con la parola, contribuire a rendere trasparente o meno la lingua, offrire un livello di interpretazione in più. Vedere Beasts of England/Animali inglesi così vicini nel testo può spingere a chiedersi ancora di più perché io abbia reso beasts con animali e non con bestie. È stata una scelta istintiva, perché quando Major la canta la prima volta, precisa che si tratta di una canzone perduta, che rimanda a un passato forse libero, mentre bestie è una parola derogatoria del potere che sottomette. Orwell non l’ha scelta a caso, ovviamente, ma un canto di protesta utilizzato anche per emanciparsi che contiene una parola così violenta è una scelta interessante, che forse vale la pena far vedere nello scarto. Animali inglesi da canto rivoluzionario diventa poi ripetitivo, abusato, vessato, proibito e anche «falso» in un certo senso, ma non nasce così, e nell’impossessarsi di sé come animali e non bestie da soma c’è uno dei momenti politici più belli del testo. Un moto speranzoso, in una storia che non lo è.

V. Latronico (Bompiani): Non credo che la distinzione fra ragazzi e adulti sia particolarmente pertinente dal punto di vista formale, in realtà. Se si escludono i libri per bambini e certe sperimentazioni moderniste, penso che anzi vi siano molti casi che ribaltano le nostre aspettative a riguardo. Generi tradizionalmente ritenuti per ragazzi – la fantascienza e il fantasy, ad esempio – mostrano una ricchezza lessicale e una complessità strutturale molto, molto superiori rispetto, chessò, ai romanzi di Elena Ferrante, che sono evidentemente per adulti. La distinzione mi pare in larga misura tematica – Ferrante, ma anche Woolf, interesserebbero difficilmente a un quindicenne. Nel caso di Animal Farm a mio parere il problema non si pone, dal momento che il significato secondario è allegorico, non dipende da ciò che si trova nel testo ma da ciò che il lettore vi legge. Per quanto mi riguarda ho cercato di attenermi al libro in sé, fiducioso che, se avessi trasposto fedelmente la storia di Napoleon e Boxer, chiunque fosse dotato di orecchie per intendere avrebbe inteso Stalin e la classe operaia.

D. Petruccioli (Bur Rizzoli): Ho avuto la fortuna di lavorare con entrambe le redazioni Rizzoli Bur: ragazzi e adulti. E proprio per l’ambivalenza di questo testo (che agli occhi di Orwell era decisamente per adulti, ma la cui tradizione editoriale lo ha portato più o meno percettibilmente a diventare un classico per ragazzi) abbiamo deciso di lavorare a partire da un’unica traduzione (la mia) rilavorandola poi con le due redazioni per lettori modello diversi. Nessun taglio o adattamento mai, sia chiaro: entrambe le versioni sono integrali. La differenza è stata nei giri sintattici, in alcune scelte lessicali, a volte nella decisione di tradurre in modo diverso un nome parlante.
E ci tengo a segnalare che il lavoro non è andato nella direzione di fare una versione per ragazzi più “facile” o “scorrevole”. Al contrario: sapendo che un bambino è tendenzialmente più aperto a giochi e sperimentazioni linguistici, se ne è tenuto conto. Perciò nella versione per ragazzi ci sono a volte più rime, più metri nascosti nella sintassi delle frasi. In quella per adulti invece si è in parte tenuto in maggior conto la tradizione e certe abitudini testuali, e d’altra parte si è potuto lavorare di più con i significati secondari, le ambiguità, le polisemie. Ecco, se dovessi sintetizzare, direi che il tentativo è stato di rendere la versione per ragazzi più melodica, quella per adulti più armonica.

M. Rossari (Einaudi): Non credo alla distinzione netta tra romanzi per ragazzi e per adulti. Diverse fiabe hanno un potenziale di spavento e perturbamento che i romanzi per adulti si sognano. Molti romanzi per adulti delineano i personaggi in un modo banale che ricorda certa narrativa young adult deteriore e condiscendente. Noi l’abbiamo pubblicato così com’è, non è certo un’edizione scolastica ma non è nemmeno obbligatoria una lettura eccessivamente consapevole. E forse pensare a un lettore modello non aiuta mai.

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I nomi degli animali hanno un ruolo importante e rimandano a figure storiche o a caratteristiche del personaggio a cui si riferiscono. Come si è deciso di trattarli nella versione italiana? Se la scelta è stata quella di tradurli in italiano quali sono stati i criteri generali nel farlo? Se invece sono stati lasciati in lingua inglese, qual è stato il motivo di tale scelta? Si è sentita l’esigenza di confrontarsi con le traduzioni precedenti per questi nomi parlanti?

F. Cavagnoli (Feltrinelli): Nella mia traduzione i nomi degli animali rimangono invariati. Da una parte alcuni sono nomi propri di persona (Benjamin, Jessie, Mollie, Moses, Muriel, Napoleon), che quindi non verrebbero comunque tradotti perché ormai i nomi propri non si traducono più e dai classici non solo sono sparite le Elisabette, non figurano più nemmeno le Bette, le Bettine e le Lisette per rendere Beth, Liz o Lizzie. D’altro canto, è chiaro fin dalle prime pagine che il romanzo è ambientato in Inghilterra, quando gli animali riuniti in assemblea intonano il loro canto, sicché è del tutto verosimile che gli animali abbiano nomi inglesi. C’è poi nei paesi anglofoni una consuetudine ormai consolidata di dare nomi parlanti ai figli, e a nessuno verrebbe in mente di scrivere Fiume Phoenix (o addirittura Fiume Fenice!) quando si parla dell’indimenticato River Phoenix. Per comodità di chi legge, nelle note al testo in fondo al volume ho scritto tra parentesi il significato dei nomi. In genere mi piace che in una traduzione rimanga traccia dell’estraneo, del fatto che quel certo testo è germinato in un altrove culturale. E non mi piace appropriarmi dell’Altro, assimilare l’estraneo nel senso di renderlo simile a sé, dando in questo modo a chi legge l’illusione che un certo testo sia nato nel nostro contesto culturale. E conservare i nomi invariati è uno dei modi in cui si può conservare la presenza dell’estraneo nel testo.

C. Durastanti (Garzanti): In una traduzione con il testo a fronte, il tasso di arbitrarietà nella traduzione di nomi non auto-evidenti come Napoleone, Maggiore o Palladineve o Mosé, ma leggermente più opachi come Boxer, Clover e Mollie non mi soddisfaceva, pur avendo apprezzato le soluzioni di Michele Mari e Guido Bulla. Poi ho pensato che se Animal Farm fosse stato un romanzo inglese contemporaneo, non avrei tradotto i nomi a meno di non rivolgermi a un lettore immaginario che non ha ancora una grande padronanza con la varietà delle lingue. Non l’ho sentito come un ambito particolarmente creativo in cui far risuonare il testo. Poi Squealer, leggendolo, è un nome che squittisce. Dispiaceva perderlo!

V. Latronico (Bompiani): Contraddicendo la mia risposta precedente, penso che la traduzione dei nomi sia forse un caso in cui l’accessibilità a lettori più giovani diventa rilevante. Da questo punto di vista mi pare che l’unico caso davvero complesso sia “Boxer”. La traduzione tradizionale, Gondrano, è tanto affascinante quanto inspiegabile (Mari ha avuto l’illuminazione di farla risalire alla ditta di traslochi Gondrand), e non mi sentivo di tenerla. Ho scelto “Spartaco” perché mantiene sia l’immagine di forza e anche violenza suscitata dal nome originale che il riferimento a una rivolta politica, seppur – in entrambi i casi – molto sommesso.

D. Petruccioli (Bur Rizzoli): Ci abbiamo pensato parecchio, con la redazione. Ci siamo anche chiesti se lasciarli in originale nella versione per adulti, dove sarebbe stato possibile un atteggiamento di tipo maggiormente filologico. Ma io sono un traduttore che punta innanzitutto all’espressività del testo, perciò ho deciso che andavano tradotti sempre. Del resto, Orwell li ha usati, e lui era convinto di scrivere per adulti. Piuttosto, in un caso – secondario, questo va detto – uno dei nomi parlanti è diverso nelle mie due versioni della Fattoria. Però non ve lo dico: chi è interessato dovrà scoprirlo da sé.

M. Rossari (Einaudi): Noi – di nuovo: non è un grottesco pluralis maiestatis o un riferimento alla celebre schizofrenia del traduttore-scrittore – noi in Einaudi abbiamo deciso di tradurle. Boxer invece del bislacco Gondrano è diventato un sonoro Campione. Napoleone e Palladineve sono rimasti così. Squealer è diventato Trombetta, che mi pareva restituire la natura meschina e vile del personaggio.

E. Terrinoni (Newton Compton): Ho tradotto i nomi per lo più in italiano, cercando di cogliere le sfumature di senso (vedi Spiffero, Trifoglina etc…). La mia traduzione, come tutte quelle che conduco di testi classici, non pretende di assurgere all’unicità o all’originalità, ma di porsi su un piano parallelo rispetto alle altre presenti e a quelle che verranno. Questo è il motivo, ad esempio, del cambiamento di tanti nomi (Boxer diviene per me Combattente). Confido nel lettore che ha a disposizione tante versioni per scorgere le gradazioni di significato suggerite dai nomi. Ritengo che la domanda shakespeariana “What’s in a name?” sia cruciale nelle opere letterarie. I nomi possono essere trattati con creatività se si sceglie di rivolgere il proprio testo non a un lettore universale ma a uno particolare, e nel mio caso, essendo convinto che Orwell parlasse ai più giovani, ho applicato questo convincimento alla strategia traduttiva adottata.

AF3

In Animal Farm mano a mano che i maiali si assuefanno al loro ruolo di despoti diventano sempre più antropomorfi. L’accostamento allegorico maiale/uomo tiranno è evidente, e forse non sarebbe stata così efficace se Orwell avesse scelto un altro animale. Siete d’accordo? Inoltre, la questione su cui il testo sembra riflettere è: i maiali/uomini sono per natura predisposti alla corruzione del potere o è il potere in sé a corromperli?

F. Cavagnoli (Feltrinelli): Quanto alla prima domanda, certamente. Orwell stesso nella sua postfazione ad Animal Farm, che l’editore non pubblicò, scrive che se la casta dominante non fosse stata quella dei maiali la cosa sarebbe risultata meno offensiva. Il che dimostra quanto fosse consapevole sia dell’efficacia dell’animale scelto sia dei pericoli che correva in termini di censura – e infatti il libro dovette attendere qualche anno prima di essere pubblicato e la postfazione addirittura 27 anni! Quanto alla seconda domanda, mi verrebbe da dire, con le parole di Hannah Arendt, che la volontà di potere più che una caratteristica dei forti è – come l’invidia e la grettezza – un vizio dei deboli, e forse il più pericoloso. Il potere corrompe quando i deboli – i deboli di spirito, non chi è in una posizione di debolezza nella gerarchia sociale, se mai i deboli di spirito nelle classi subalterne – si uniscono per rovinare i forti, non prima. L’essere umano è corruttibile di natura, salvo rarissime eccezioni, e sulla natura corruttiva del potere non ci sono dubbi: per restare al potere, il potere non può che corrompere. È una dinamica dialettica: è qualcosa di insito nella natura umana e nella Storia. E, come insegna Animal Farm, ma lo ha scritto anche Morselli, nessun partito politico radicato negli ideali di uguaglianza, giustizia e libertà, diciamo pure nessun partito di sinistra rimane tale dopo che ha assunto il potere – c’è sempre qualcuno, in quel partito, che è più uguale degli altri.

C. Durastanti (Garzanti): Non saprei. In un momento storico caratterizzato dalla solidarietà inter-specie come quello attuale, dalle riflessioni approfondite sul rapporto uomo-animale-ecosistema, in cui a essere sfruttati non sono i lavoratori ma proprio gli animali nell’industria della carne e negli allevamenti intensivi che stanno sovvertendo le nostre idee sulla sostenibilità, sulla sofferenza dell’altro e sulla necessità di superare il primato del concetto di «umano» rispetto a tutto il resto, per me questa allegoria di Orwell non è sopravvissuta benissimo. Proprio non sono riuscita a leggere Animal Farm senza pensare all’alienazione attuale nello specifico (molto inglese), a Mark Fisher, al dibattito sull’automazione, o a quello sui disastri dell’Antropocene. In una traduzione più libera, che tiene conto del presente, quell’Uomo che ricorre nei discorsi dei maiali forse sarebbe stato reso meglio con Anthropos, per umano, proprio per raccordarsi a uno scenario di squilibri eco-sistemici così violenti in cui non è così chiaro a quale specie ibrida apparteniamo, a enfatizzare quasi la qualità mitica di quell’Anthropos. L’andamento dell’animale che si disumanizza diventando uomo o viceversa di Orwell faceva riferimento a un sistema culturale più netto, organizzato, oggi un’allegoria del genere oserebbe qualcosa di diverso, cambierebbe i riferimenti.

V. Latronico (Bompiani): Penso che chiunque abbia vissuto a contatto con degli animali da fattoria sa che i maiali – onnivori, intelligentissimi, grandi comunicatori – sono quelli in cui è più facile rivedere se stessi, anche se non ci si sente tiranni. Ho scelto “porci” proprio per rimarcarne la connotazione negativa, altrimenti a mio parere assente. Per quanto riguarda la domanda sulla “natura”, so che alcune letture del testo vedono nella decisione di Napoleon di tenersi i cinque secchi una prova del pessimismo antropologico di Orwell. Io ci vedo qualcosa di diverso, e cioè la sua fiducia nei sistemi di regole, nelle impalcature istituzionali; l’idea, cioè, che la natura umana non sia fissa ma malleabile, come un liquido che tende a occupare lo spazio lasciato aperto dal “sistema”. Il “sistema” messo in piedi dai porci lascia spazio alla corruzione, e quindi la corruzione arriva.

D. Petruccioli (Bur Rizzoli): Secondo me non si tratta solo dei maiali. Sono tutti colpevoli. I maiali perché despoti, i cani perché ingordi, i cavalli perché troppo creduloni, i volatili perché troppo stupidi.
Sono tutti colpevoli: capitalisti, proletariato, classi medie.
Siamo tutti colpevoli. È questo che vuol dirci Orwell.
Dobbiamo stare più attenti a resistere ai nostri difetti (nella sua metafora: alle nostre animalità) quali che siano. Il potere corrompe, ma noi siamo predisposti a farci corrompere. Vuoi come carnefici, vuoi come vittime. È questo il suo avvertimento. Vale per la Fattoria come per 1984.

M. Rossari (Einaudi): Ho sempre pensato che Orwell avesse scelto i maiali perché erano intelligenti. E su questa intelligenza si gioca la malizia del potere. Tutta la vita intellettuale di Orwell mi sembra un invito a non fidarsi della realpolitik, ma anzi uno slancio di fiducia verso la verità, o l’approssimazione spasmodica alla verità.

E. Terrinoni (Newton Compton): Rispondo con un aneddoto. Durante la revisione, ho scelto di cambiare “maiale/maiali” in “porco/porci”. Credo che questa scelta dica tutto di come vedo l’atto interpretativo inerente e ineludibile del tradurre.

A cura di Francesco Cristaudo e Angela Marino

4 Comments

  1. Multi-intervista splendida, prima di tutto per le domande molto ben poste e poi per le risposte, molto interessanti anche nei casi in cui non le abbia condivise (per esempio gli scrupoli animalisti di Durastanti sono lontani dalla mia sensibilità).

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