All’inizio di quest’anno sono scaduti i diritti sulle opere di George Orwell; di conseguenza, molti editori italiani hanno deciso di riportare in libreria i testi dell’autore britannico in tante, nuove traduzioni: ma quali sono le loro specificità? Abbiamo quindi intervistato sette traduttori delle nuove edizioni di 1984; un’occasione di confronto tra sensibilità traduttive che, seppur diverse per approccio e formazione, sono unite dallo scopo comune di restituire al lettore italiano la voce di un autore tutt’oggi estremamente attuale. In questo denso dialogo a più voci, i traduttori ci svelano salienti retroscena del loro lavoro e, impreziosendo il loro contributo con numerosi spunti riguardo il loro personale rapporto col testo, gettano luce su alcuni aspetti, affascinanti e impervi, del fare traduzione. Buona lettura!
Ringraziamo caldamente: Bianca Bernardi (Garzanti) Franca Cavagnoli (Feltrinelli), Vincenzo Latronico (Bompiani), Daniele Petruccioli (Rizzoli Bur), Tommaso Pincio (Sellerio), Marco Rossari (Einaudi), Enrico Terrinoni (Newton Compton).
Domanda generale su entrambi i testi: qual è stata, negli anni, la vostra personale esperienza di lettura, prima che di traduzione, di Nineteen Eighty-Four e Animal Farm? Li avete letti prima in lingua originale o in traduzione? Cosa vi hanno lasciato?
B. Bernardi (Garzanti): Ho letto entrambi per la prima volta al liceo e in italiano. Ero in quell’età in cui il presente è l’unica dimensione che conta (o almeno così era per me) e 1984 mi colpì profondamente perché era un’opera del passato che mi sembrava parlare direttamente alla mia generazione: quella nata dopo la caduta dei grandi totalitarismi del Novecento, cresciuta nell’illusione della libertà assoluta e che stava cominciando a scoprire l’esistenza di nuove forme di controllo delle menti, forse ancora più sottili perché mascherate da scelte individuali.
T. Pincio (Sellerio): Ho acquistato entrambi nella cartoleria davanti alla mia scuola. Frequentavo le medie, avrò dunque avuto undici, dodici anni. In quello stesso periodo scoprii anche Lord of the Flies che mi impressionò più di Orwell, probabilmente perché lo intesi come versione nera e prepuberale dei Ragazzi della via Pál. Sempre per ragioni legate all’età, immagino, sul momento Animal Farm sembrò lasciare un’impronta più marcata. Alla distanza, però, la scoperta di Nineteen Eighty-Four si è rivelata più determinante, una lettura a rilascio lento che si è rinnovata nel tempo e ha lasciato tracce fin troppo evidenti anche nella mia opera di scrittore. Del resto, molte pagine del romanzo, come per esempio i brani del libro di Goldstein, non possono che risultare poco comprensibili o al più tediose per un dodicenne. Si è detto spesso che Nineteen Eighty-Four è un romanzo tutt’altro che perfetto, in particolare per via delle sue tante anime, dei tanti generi cui Orwell ricorre senza mai davvero fonderli del tutto ma lasciandoli slegati, tanto che il lettore si trova a saltare quasi senza soluzione di continuità da momenti di amore bucolico a lunghe dissertazioni teoriche. Credo tuttavia che la sua forza risieda proprio in questo, in un’apparente e multiforme discontinuità che consente al lettore di riappropriarsi del libro in modi sempre nuovi. Conosco persone che in un primo tempo non hanno letto l’appendice sul Newspeak nella convinzione che fosse una postfazione dell’editore. Che rivelazione deve essere stata per costoro realizzare che è anch’essa scritta da Orwell e costituisce una parte integrante del romanzo.
(N.d.R: Per le risposte degli altri traduttori a questa domanda si guardi l’intervista su Animal Farm)
Passiamo a Nineteen Eighty-Four: il testo di Orwell è stato definito romanzo distopico, satira politica, allegoria. A prescindere dall’afferenza ad uno specifico genere letterario, voi come lo considerate?
B. Bernardi (Garzanti): La maggior parte delle analisi di Nineteen Eighty-Four si concentra sul suo significato politico, di monito quasi profetico per i posteri e io stessa sono stata attratta in primo luogo da questo aspetto. È stato solo durante l’ultima fase della traduzione, coincisa con i primi mesi del confinamento, che ho incominciato ad apprezzare soprattutto la forza del racconto interiore di Winston, il tema della sua solitudine in un mondo in cui il contatto umano e i legami affettivi sono solo dei sogni annebbiati. Non che si possa paragonare l’esperienza del lockdown con lo scenario distopico dell’Oceania, certo. Ma devo dire che in quei mesi di sensazioni contrastanti tra l’isolamento e la costante connessione, in cui ero sempre sola e al tempo stesso sentivo di non poter sfuggire al cellulare, ho ritrovato nei pensieri di Winston uno specchio che rifletteva un’immagine deformata, seppur riconoscibile, di ciò che stavo vivendo. E ho cominciato a vederlo prima di tutto come il racconto di un dramma personale, un romanzo molto più intimo di quanto non avessi considerato prima.
F. Cavagnoli (Feltrinelli): Mentre traducevo il romanzo ho riflettuto molto sul significato della parola distopia. Oltre a indicare la forma letteraria che nel Novecento descriveva quanto accadeva nelle società totalitarie, con distopia si intende qualcosa di più ampio. Il senso primo è da rinvenire nella medicina, dove con questo termine si intende la dislocazione di un viscere, o di un tessuto, dalla sua normale sede (dis-tópos). Quindi è prima di tutto distopia nel corpo. E mi sono chiesta dove fosse la dislocazione maggiore nel romanzo. Dove andasse ricercato il danno più grave inferto al corpo. È Winston a ricordarcelo, nell’ultima parte del libro. Mentre riflette sul bipensare, dopo che O’Brien gliene ha data una chiara dimostrazione, Winston si sente mancare. Si rende conto di non essere sicuro che O’Brien stia mentendo: forse si è davvero dimenticato dell’esistenza della fotografia che scagionerebbe Jones, Aaronson e Rutherford da ogni presunto reato. Ma ciò che lo getta nello sgomento è che, in questo caso, O’Brien possa essersi “dimenticato di aver negato” l’esistenza della fotografia e abbia pure dimenticato l’atto stesso del dimenticare. Ossia quella di O’Brien sarebbe una vera e propria rimozione, una sorta di bugia sincera – non sarebbe consapevole di mentire a se stesso. E Winston, sopraffatto dal proprio senso di impotenza, pensa che, forse, “quella folle dislocazione nella mente poteva accadere davvero”. Distopica è dunque la mente di O’Brien e di tutta la Polizia del Pensiero. Il romanzo di Orwell è poi distopico anche per un altro aspetto, in senso figurato stavolta, per un altro modo in cui si può intendere la dislocazione di un tessuto dalla sua normale sede. Perché che altro è il Newspeak, che io ho reso con parlanuovo, se non una dislocazione mostruosa, un danno irreparabile inferto al tessuto della lingua?
V. Latronico (Bompiani): Come ho scritto nella risposta riguardo la mia esperienza di lettura dei due libri, penso che la sua grandezza stia (anche) in questa irriducibilità. 1984 ci mostra che i generi letterari sono tutt’al più espedienti didattici o categorie merceologiche, ma se vogliamo usarli con una qualche utilità dobbiamo considerarli come vettori più che come cassetti.
D. Petruccioli (Bur Rizzoli): Per me è un romanzo illuminista. Nel senso che è un romanzo etico: ci dice quello che potremmo diventare, se non stiamo attenti a noi stessi, più che agli altri. Il problema siamo noi, non il sistema. Il sistema siamo noi a corromperlo. È la nostra umanità profonda a essere messa in discussione dal romanzo. In questo, per me sta vicino a testi come Candide o Jacques il fatalista e il suo padrone.
T. Pincio (Sellerio): Dirò qualcosa che gli orwelliani di ferro prenderanno forse come eresia. Per come sono giunto a intenderlo, Nineteen Eighty-Four è un libro di magia nera. L’elemento fantapolitico è senz’altro presente, anzi è quello che in superficie risulta dominante; è il più commentato nonché all’origine dell’aggettivo “orwelliano”, che, al pari di “kafkiano”, viene usato spesso liberamente. Ma se il romanzo fosse soltanto un monito ai posteri sulla rivoluzione tradita, gli orrori del regime sovietico e il totalitarismo in genere non sarebbe sopravvissuto alla guerra fredda. Senza contare che il Novecento è pieno di romanzi che affrontano gli stessi temi, romanzi che abbiamo serenamente dimenticato o forse neanche mai letto. Quando dico che Nineteen Eighty-Four è un libro di magia nera penso piuttosto alla sua straordinaria duttilità. Nel corso della mia non più giovanissima vita ho visto questo romanzo mutare con il mutare dei tempi. Malgrado il mondo di oggi sia molto diverso dall’immediato secondo dopoguerra come anche dal 1984 che abbiamo in effetti vissuto – il 1984 della rielezione di Ronald Reagan, per intenderci – il romanzo sembra avere anticipato il presente che stiamo vivendo né più né meno come era sembrato anticipatore nei decenni precedenti. Ciò non vuol dire che il libro sia profetico, malgrado così venga spesso definito. Le vere profezie una volta avveratesi esauriscono il loro compito. Se Nineteen Eighty-Four sembra sempre avere preconizzato il presente è perché ha la capacità di mutare e agire come uno specchio delle nostre brame, perché ci trasforma nella strega della favola di Biancaneve. Il mito del Grande Fratello ha distolto l’attenzione dai lati oscuri del protagonista, che è meno vittima di quanto ce lo figuriamo. Chi sia il vero cattivo del romanzo non è affatto chiaro come sembra. La stessa esistenza di Big Brother è un fatto incerto, lo conosciamo soltanto in forma immagine. È grazie a questa sua ambiguità inquietante circa l’effettivo nocciolo del male che il romanzo riesce ad agire su di noi come uno specchio mascherato. Forse, se in qualità di traduttori italiani avessimo il coraggio di rendere il nome di Winston Smith per come dovrebbe suonare alle nostre orecchie, Benito Rossi, questo aspetto ci risulterebbe più evidente. Anche il fatto che il romanzo contenga molti libri al suo interno, che funzioni come una sorta di matrioska in cui troviamo il diario di Winston, il libro di Goldstein e alla fine, giunti alla famosa appendice, lo stesso Nineteen Eighty-Four, ha un suo peso. I libri in quanto oggetti sono magici per definizione.
M. Rossari (Einaudi): Ci sono tanti modi per leggerlo. Mentre lo traducevo, ho sentito con più forza lo strazio della resa identitaria, dell’abdicazione del sé, ma soprattutto la violenza che il sistema riverbera sulla storia d’amore tra Winston e Julia. Ma è anche tutte quelle altre cose, ovviamente. Per qualcuno è stato un romanzo realista. C’è una battuta che gira in Birmania: “Orwell ha scritto tre libri sulla Birmania: Giorni in Birmania, 1984 e La fattoria degli animali”.
E. Terrinoni (Newton Compton): Lo considero un testo profetico, una vera e propria profezia. Cos’è per me una profezia lo scrivo nell’introduzione generale al volume che include questo romanzo e altri quattro (di cui due tradotti da Andrea Binelli – Burmese Days e Down and Out in Paris and London – e uno da Francesco Laurenti assieme a Fabio Morotti – Homage to Catalonia). Basti qui notare che per me Orwell si pone su un piano che è simile a quello di un mio autore preferito, James Joyce: vuole usare le vecchie parole per descrivere nuovi mondi, per via dell’insoddisfazione sia delle parole vecchie sia dei vecchi mondi. È un testo quasi religioso, che prevede un approccio di tipo teologico, un arrangiamento retrospettivo, una lezione per il futuro. Questo sin dal titolo, che per noi oggi invece parla di passato… Orwell va letto per quello che ci dirà, non per quello che ci ha detto.
Con le traduzioni precedenti di Nineteen Eighty-Four alcuni termini sono entrati nell’uso corrente tradotti in un unico modo, ad esempio Big Brother è il Grande Fratello, sebbene traduca anche Fratello Maggiore; il Newspeak è comunemente noto come Neolingua, nonostante questa traduzione nobiliti il termine originale e non segua i precetti di impoverimento linguistico propri della lingua stilati in Appendice. Di conseguenza, in che rapporto vi siete posti con le vecchie traduzioni e come avete deciso di tradurre i termini più famosi, Newspeak e il suo lessico inclusi?
B. Bernardi (Garzanti): Sono una traduttrice abbastanza giovane e questo è stato decisamente l’incarico di maggior peso di cui mi sia occupata fino a ora. Per questo il rischio di essere influenzata, anche inconsapevolmente, dal rispetto e dall’ammirazione per le traduzioni precedenti era alto e ho deciso di non riprenderle in mano fino alla fase di revisione finale. Ovviamente, però, non c’era bisogno di rileggere il libro per sapere come erano stati tradotti Big Brother e Newspeak. Era innegabile che Grande Fratello e Neolingua comportassero delle problematiche di traduzione, il primo troppo letterale e svuotato di quella connotazione quasi affettuosa che ha l’originale, il secondo poco coerente con l’impianto generale della lingua. Alla fine, però, trattandosi di termini entrati nell’uso comune e che hanno generato a loro volta una rete inestricabile di idee e riferimenti, ha prevalso l’intenzione di permettere al lettore italiano di coglierli, proprio come accade al suo omologo inglese. Per questo, d’accordo con l’editore, dopo una prima ipotesi di tradurre Newspeak con parlanova (e Oldspeak con parlantica), ho deciso di mantenere i termini più emblematici della prima traduzione di 1984, permettendomi invece più libertà su tutto il resto, dai nomi dei ministeri e dei luoghi, fino ai tanti termini di Newspeak. Per quanto riguarda questi ultimi, ho cercato di basare le mie scelte su un criterio di coerenza tanto con le intenzioni quanto con l’effetto suscitato dall’originale nel lettore, cercando quindi di privilegiare la brevità dei termini laddove ciò non comportasse un’eccessiva distorsione delle regolarità dell’italiano. Al tempo stesso, ho dovuto fare molta attenzione a mantenere una coerenza interna al testo e assicurarmi che ogni nuovo termine inventato avesse un senso nell’impianto generale della lingua. Per fare un esempio, doublethink era stato precedentemente tradotto con bipensiero, ma dato che nell’appendice stessa si dice che la parola “pensiero” in neolingua non esiste perché “pensare” funge sia da nome che da verbo, non avrebbe avuto senso mantenere il termine bipensiero, che è diventato quindi bipensare.
F. Cavagnoli (Feltrinelli): Dato che ho letto il romanzo in inglese fin dalla prima volta, per me il testo fonte è stato per tutto il tempo quello scritto da Orwell e non il testo scritto in italiano dai suoi traduttori. Poi, chiaramente, certi termini ti arrivano comunque nella loro resa italiana, essendo entrati nell’uso corrente. Per quanto riguarda il Newspeak, ho riflettuto su ciò che Orwell scrive in Appendice, che come sappiamo non è un mero saggio sulla questione della lingua bensì parte integrante del romanzo di Orwell. Qui è evidente come il Newspeak miri a recidere uno dopo l’altro ogni legame con la memoria e con la Storia, ossia quanto di più prezioso un popolo ha per riconoscersi tale e un paese per sentirsi nazione. Il Newspeak punta a impoverire la lingua per impoverire il pensiero: un processo di programmato impoverimento della capacità di formulare ragionamenti articolati. Quel che ne consegue è una sistematica obliterazione del passato. Per questa ragione ho preferito tradurre Newspeak con parlanuovo e Oldspeak con parlavecchio, e ho rinunciato a usare la parola “lingua” con l’aggiunta di affissi. Prima di tutto, è Orwell stesso a non scegliere la parola language ma a optare per speak, ossia un vocabolo a cui si ricorre per formare parole coniate per l’occasione, che denotano un linguaggio settoriale preciso, come in youngspeak, ossia la parlata giovanile, o in Californiaspeak, o, nel caso di Millenovecentottantaquattro, il gergo scelto dagli ideologi del Partito. Quanto ai prefissi greci o latini da anteporre a “lingua”, mi pare vadano nella direzione opposta: sono un legame evidente con la memoria di una civiltà e di una cultura, un filo rosso che lega il presente al passato, proprio quel filo rosso che il Partito ambisce a recidere. Quindi anteporre un prefisso greco o latino equivarrebbe a nobilitare la lingua dei burocrati del Partito, quando invece alla base c’è un becero concetto di frugalità e il loro obiettivo è la semplificazione più estrema. In Appendice Orwell illustra pure la composizione di quello che chiama il “lessico B”, che nella finzione del romanzo consiste in vocaboli costruiti espressamente per fini politici, vocaboli, cioè, che non solo hanno implicazioni politiche, ma mirano a imporre alla persona che li usa l’atteggiamento mentale desiderato. Senza una piena comprensione dei princìpi del Socing, ossia del Socialismo inglese, è perciò difficile usarli in modo corretto, puntualizza il narratore. Nella mia resa di questi vocaboli ho privilegiato l’uso del verbo a quello del sostantivo, come in bipensare e reopensare, perché il verbo sostantivato mi ha consentito di fare economia di parole (bipensare come verbo e “il bipensare” come sostantivo). Ho costruito aggettivi e avverbi aggiungendo il suffisso -bile (rapidibile) e -oni (rapidoni, come in “a tentoni” e “gattoni”) mentre il passato remoto e il passato prossimo sono identici e terminano in -to, verbi irregolari compresi, e così via, all’insegna di una semplificazione esasperata e del massimo risparmio di parole. Un’ultima osservazione riguarda la decisione di tradurre Thought Police con Polizia del Pensiero: la polizia politica mira a controllare il pensiero – “pensiero” è una delle parole chiave del romanzo –, dal momento che il suo obiettivo è l’atrofia del pensiero critico. Quanto a Big Brother, che in inglese significa Fratello maggiore, mentre nelle edizioni precedenti è stato tradotto con Grande Fratello, ho deciso di lasciarlo in inglese per una serie di ragioni che vanno a sommarsi a quanto ho già detto rispondendo alla domanda sul lasciare invariati i nomi. Dietro Big Brother c’è il Benefattore dello Stato Unico, il Leader dagli attributi divini del romanzo Noi di Evgenij Ivanovič Zamjatin (a cui nella postfazione all’edizione Feltrinelli dedico ampio spazio), con cui Big Brother condivide singolarmente la B del nome. Tra l’altro, va ricordato che il volto baffuto di Big Brother mescola tratti di Stalin e del feldmaresciallo britannico Horatio Herbert Kitchener che, nominato ministro della Guerra nel 1914, si può considerare uno degli artefici della vittoria degli Alleati nella Prima guerra mondiale. La Scritta BIG BROTHER TI GUARDA rievoca quella del celebre manifesto di reclutamento del 1914, in cui Lord Kitchener fissa negli occhi chi guarda il poster e con il dito puntato ordina: Your country needs you (Il tuo paese ha bisogno di te). Ma per tornare alla lettera B, un dettaglio biografico di Orwell fornisce un altro elemento per la scelta di questa lettera per il nome di Big Brother. La BBC, dove lavorava Orwell, era una divisione del ministero dell’Informazione. A capo c’era Brendan Bracken, che i dipendenti della BBC avevano soprannominato B.B. Sono quindi numerosi i rimandi e le stratificazioni nel nome di Big Brother, tutti ben radicati nella realtà inglese – inglese e non britannica o del Regno Unito –, e quanta insistenza sulla lettera B. Non da ultimo, decidere di non tradurlo significa anche toglierlo da dove lo ha relegato la tv negli ultimi vent’anni, riducendolo a un format televisivo, e rimettere Big Brother là dov’è nato – nella letteratura.
V. Latronico (Bompiani): È difficile rispondere brevemente a questa domanda, anche perché una risposta è impossibile. Dopo aver penato a lungo ho deciso di lasciare tutti i termini in inglese, confidando che proprio l’impoverimento che ne costituisce il centro li rendesse decifrabili a un pubblico di lettori italiani sempre più portati a una sorta di bilinguismo per osmosi. È stato uno strazio rinunciare a gemme come bispensiero, che però, appunto, erano esattamente il contrario di ciò che indicavano i termini in originale (un caso di meta-bispensiero?). D’altro canto, se il Newspeak in origine era pensato per riecheggiare certe trasformazioni inaugurate dal russo dell’Unione Sovietica, mi pare che oggi quell’effetto – l’effetto di una lingua trasformata ricalcando le strutture tipiche della lingua di un potere distante – sia da ottenersi mimando l’inglese. Queste sono alcune, poche, ragioni a favore di una scelta che vede tante ragioni contro, ne sono perfettamente consapevole. Ma la coperta è quella che è, se la tiri da una parte scopri dall’altra, e la notte è freddissima.
D. Petruccioli (Bur Rizzoli): Grande Fratello è l’errore di traduzione più famoso del mondo. Big Brother è traducibile, infatti, ancor più che come Fratello maggiore, come Fratellone. È un termine affettivo, familiare. Orwell gioca ironicamente sul contrasto tra questo termine, che evoca un massimo di fiducia, e il dittatore per antonomasia (peraltro inventato: Big Brother non esiste, come spiega O’Brien, è solo la personificazione del Partito). E tuttavia non ce la siamo sentita di cambiare quella che è ormai un’icona pop. Qui, perciò, ho seguito la tradizione e mantenuto l’errore. Per tutto il resto, invece, ho cercato di lavorare come Orwell – e quindi ho cambiato moltissimo, se non tutto. Anche su questo mi sono soffermato con una certa ampiezza nella mia introduzione al romanzo, alla quale rimando.
Il Newspeak, nella mia versione, è parlanuovo, che gioca con la semplicità dei termini e usa l’imperativo (scelta legittima: speak è anche imperativo) per dare la sensazione di costrizione insita nella lingua. Tutti gli altri termini sono costruiti su questa falsariga. Unica eccezione: crimestop, che ho tradotto con reobasta usando il suffisso “reo” che è senz’altro desueto ma è termine tecnico di ambito giuridico e dunque secondo me era giusto, nel contesto e per l’effetto che volevo dare.
T. Pincio (Sellerio): L’appendice sul Newspeak è stata la mia bussola. È il funzionamento di questa lingua del male che mi ha indotto a eliminare ogni tratto suggestivo dalla mia versione italiana e convincermi che il Grande Fratello dovesse diventare (o tornare essere) il Fratello Maggiore e la Neolingua chiamarsi Parlanuovo. Pensando a un vecchio slogan pubblicitario che parlava di pennelli, inizialmente mi ha tentato l’idea di una semplice inversione: optare cioè per Fratello Grande. Con il senno di poi mi pento di non averlo fatto, ma è anche vero che adesso, con Fratello Maggiore stampato nella mia versione, è più facile dirlo. Mentre lavoravo al romanzo, non è stato affatto immediato decidermi neanche per Fratello Maggiore e, del resto, compulsando le nuove traduzioni di altri colleghi che stimo, vedo che ha prevalso la scelta di trattare Big Brother alla stregua di un nome proprio, lasciandolo in inglese. Altri hanno preferito mantenere Grande Fratello, perché, immagino, troppo fortunato e iconico come errore per essere emendato. Entrambe le scelte hanno molto senso, ma erano incompatibili con l’approccio che avevo adottato. Sempre per il bisogno di non cadere in tentazioni suggestive, ho scartato alla fine anche l’ipotesi di Fratello Grande, contentandomi di menzionare questa possibilità nella prefazione. Mi sento comunque di aggiungere che malgrado Fratello Maggiore, Neolingua, Psicopolizia restino lontani dal mio Orwell, non le trovo soluzioni infelici. Certi errori, se così vogliamo chiamarli, vanno pesati secondo il loro contesto, secondo il paese e il tempo che li hanno prodotti, e il contesto era quello di un italiano più inventivo e ancora arabescato, per stare alla definizione calzante che ne diede Flaiano. In quel contesto erano possibili azzardi fortunati come per esempio quello di Monicelli, quando tradusse science-fiction con fantascienza, improprio ma suggestivo ed efficace.
M. Rossari (Einaudi): Sarebbe stato bello tradurre con il più corretto Fratello Maggiore ma abbiamo optato per una resa tradizionale. Abbiamo tenuto Grande Fratello perché ci sembra ormai entrato nel parlato italiano, al di là della trasmissione televisiva. Dubito che per i prossimi cento anni qualcuno sui giornali arriverà mai a scrivere Fratello Maggiore. Neolingua, invece, è diventato più fedelmente nuovalingua.
E. Terrinoni (Newton Compton): Ho adottato una mia teoria, che nasce dai saggi di Orwell, e in particolare dalle sue critiche non al linguaggio in generale, ma al suo utilizzo strumentale come strumento ideologico foriero di dinamiche egemoniche. In poche parole, Orwell criticava innanzitutto quello che sarebbe stato il ruolo di appiattimento del Global English. Aveva previsto questa dittatura linguistica, e ne mina le premesse per farci capire che cambiando le parole cambiamo il mondo. Per questo ho mantenuto (a differenza che in Animal Farm) forme inglesizzanti. Mi spiego: Newspeak resta Newspeak e Big Brother resta Big Brother, però la Thought Police diviene la Mental Police, il Crimestop diviene il Criminalt e così via. Lascio però al lettore l’onere, il piacere, o il disturbo di scovare la ratio di questa mia scelta che può apparire estrema.
In un’intervista su gallimard.fr, la traduttrice francese di George Orwell Josée Kamoun dice di aver tradotto Nineteen Eighty-Four seguendo «il ritmo originale della frase, che va dritta al punto», poiché il ritmo di un autore è fondamentale e un traduttore non si impegna a tradurre parole, frasi, ma «a tradurre effetti». Siete d’accordo con questa affermazione? Come considerate il ritmo di Nineteen Eighty-Four e come vi ci siete approcciati in fase di traduzione?
B. Bernardi (Garzanti): D’accordissimo, l’obiettivo a cui puntare è sempre quello di trovare la formula più efficace per riprodurre nel lettore una reazione analoga a quella di chi legge l’originale, anche se a volte per raggiungere lo stesso obiettivo bisogna passare per tutt’altra strada. La difficoltà, secondo me, sta anche nel trovare un equilibrio e non lasciarsi trasportare eccessivamente dalla propria percezione personale del testo, letto e riletto migliaia di volte, al punto da aggiungere sfumature che non ci sono. Personalmente, ho considerato che per riprodurre il ritmo di Nineteen Eighty-Four, diretto e regolare, fosse il caso di privilegiare frasi brevi, limitando la subordinazione dove possibile e combinando queste scelte sintattiche con un lessico sobrio, privo di eccessivi svolazzi.
F. Cavagnoli (Feltrinelli): Orwell usa una lingua piana – piana, non piatta – e un periodare per lo più paratattico, che dà un ritmo ben preciso alla frase, senza l’andamento sinuoso e l’indulgere dell’ipotassi. Il ritmo della prosa è dato dalla sintassi e dalla punteggiatura. Se si uniscono due frasi che in inglese sono separate, ne risente tutto il ritmo del periodo. E così pure se si dissemina di virgole una frase che nel testo originale ne è priva e quindi costringe chi legge a una lunga apnea. Ogni traduzione razionalizzante, che tende per esempio a unire ciò che nel testo originario è separato, altera il ritmo della prosa. Quindi ho cercato di rispettare il periodare di Orwell. Ma ho cercato pure di restare il più possibile vicina alle sue scelte lessicali, tenendo presente quello che scrive nei saggi, quando afferma che i testi scritti male hanno due particolarità: «immagini stantie e mancanza di precisione». Orwell critica «lo stile pretenzioso» di chi si impegna in un continuo esercizio di nobilitazione della lingua e chi usa perifrasi per evitare la fatica di scegliere parole precise. Quindi ho cercato di non alzare il registro, ma anche di ricorrere alle collocazioni se a farlo è lui. Nell’insieme c’è una sobrietà di fondo, a volte una certa secchezza, nel suo modo di scrivere, sia nella prosa saggistica sia in quella narrativa, e un netto rifiuto dei “fiori ornamentali”, per usare le parole di J.M. Coetzee, un altro autore anglofono che li detesta. Ho cercato di avere riguardo per le sue scelte stilistiche nel ritmo della prosa, ma anche nella sintassi, nel lessico e nella punteggiatura.
V. Latronico (Bompiani): Indubbiamente Orwell ha uno stile estremamente puro e preciso, per cui è giustamente rinomato in ambito anglofono. Per varie ragioni, anche di traduzione, questa sua fama non è arrivata in Italia, sinora, e naturalmente la necessità di rispecchiarne qualcosa era ben presente nel momento in cui ho cominciato a ritradurlo. Ciò detto, naturalmente è del tutto impossibile restituire il “ritmo” di una lingua in un’altra, si può semmai cercare di ricreare qualcosa di analogo… ma cosa vuol dire analogo, nel momento in cui anche il metro con cui si stabilisce tale ritmo è linguisticamente determinato? E cosa vuol dire privilegiare l’effetto, che va tenuto certamente in considerazione, rispetto alle parole? La complessità è proprio questa – che bisogna mantenere entrambi, e non si può. Penso di aver cercato di mantenere qualcosa del gelo stilistico di Orwell, quella sua trasparenza crudele, che nelle traduzioni precedenti non era del tutto evidente. Probabilmente avrei potuto fare di più, ma ero rincuorato dalla certezza che qualcun altro dei molti traduttori impegnati sulla stessa opera avrebbe sopperito a questa necessità. C’è qualcosa di estremamente rassicurante nel lavorare in tanti alla medesima traduzione: più che una competizione, per me, è una garanzia del fatto che la vera natura dell’originale emergerà, non in questa o quella versione, ma dal loro coro.
D. Petruccioli (Bur Rizzoli): Non potrei essere più d’accordo. Il ritmo, ovvero la sintassi, le ripetizioni, le allitterazioni e tutti gli artifici retorici tipici della prosa sono il fluido, la corrente elettrica su cui viaggiano i significati delle parole. Se si traducono solo i significati, senza lavorare sul ritmo, non si rende un romanzo ma un’esegesi, un saggio esplicativo. Il grande romanzo passerà lo stesso, certo. Ma è come quei film scritti benissimo e recitati male: capisci che sono stupendi, però a ogni scena pensi “santo cielo, che peccato”. Ciò detto, credo che bisogna dire che 1984 non ha un ritmo soltanto. Ha un ritmo distopico alla Philip Dick, con quella Londra letteralmente postatomica della prima parte; un ritmo da storia d’amore romantica e carnale quasi alla Lawrence, con qualcosa di Eliot e l’amore per il bucolico che tanta tradizione ha nella letteratura inglese, nella seconda parte; ha il ritmo del saggio economico-politico nella parte (tutt’altro che secondaria) del saggio di Goldstein e quella della ricerca linguistico-antropologica nelle appendici sul Parlanuovo; e infine l’atrocità di uno Stephen King nel rapporto vittima-carnefice di cui è pervasa tutta la parte sulla “rieducazione” di Winston. Sono tanti andamenti diversi che costruiscono una grande sinfonia, con le sue parti bucoliche, drammatiche, ironico-scherzose, melodico-melodrammatiche e infine grandiosamente maestose. Un lavoro retorico (e un lavoraccio tradurlo) di cui sinceramente mi sembra un po’ riduttivo dire semplicemente che «va dritto al punto».
T. Pincio (Sellerio): Sono d’accordo. È una delle ragioni per cui ho scelto di invertire l’ordine dell’incipit, anteponendo l’informazione dell’ora al fatto che siamo in una fredda e luminosa giornata di aprile. Anche in questo caso sono stato tentato da un’altra possibilità, quella di tradurre «the clocks were striking thirteen» con «gli orologi rintoccarono tredici volte» per rendere evidente la stranezza di un diverso modo di misurare il tempo. La frase sarebbe però diventata troppo aulica, senza peraltro eliminare il rischio che il lettore non cogliesse comunque il senso profondo di quel dettaglio. Così ho preferito che l’accento della frase cadesse su quel dato per noi oggi insignificante, usandolo come una sorta di eco al contrario di ciò che si scopre nel corso del romanzo, quando gli orologi con i quadranti di dodici ore vengono definiti old-fashioned. Sempre per questioni di effetto e ritmo ho evitato quanto più possibile il ricorso ai verbi composti e costruzioni sintattiche complesse.
M. Rossari (Einaudi): Kamoun ha ragione. Orwell è uno scrittore che non ama le frivolezze. È chiaro, direi terso. E quindi difficile. La frase ti sfugge proprio perché è nitida, netta. Il ritmo è efficacissimo, soprattutto nelle pagine finali, che sprofondano verso l’orrore senza un momento di incertezza.
E. Terrinoni (Newton Compton): Sono d’accordo, ma imitare il ritmo credendo di poter imitare la sintassi mi pare utopico e privo di vero fondamento, a meno che non si traduca da lingue dalle sintassi diciamo quasi sovrapponibili. Il ritmo non lo danno soltanto le stringhe di testo e gli accenti, ma anche la velocità di lettura, il modo di scrivere asciutto o artificioso, le scelte lessicali altisonanti o minimalistiche. Insomma, il ritmo lo dà l’immaginario, e il traduttore è uno scrutatore di immaginari. È come un direttore d’orchestra, che può scegliere di rallentare o velocizzare il ritmo di una sinfonia. È un interprete. Non mi fido troppo delle visioni traduttive perentorie, normative, massimaliste. La traduzione è un atto di democrazia perché implica l’interpretazione, e interpretare è ciò che ci rende liberi.
La dimensione saggistico-politica all’interno di Nineteen Eighty-Four è inestricabile da quella narrativa, soprattutto alla luce dell’appendice dedicata ai Princìpi del Newspeak e agli inserti del testo di Emmanuel Goldstein The Theory and Practise of Oligarchical Collectivism. Secondo voi la forma discorsiva propria del saggio ha influenzato la scrittura di Orwell nelle sue parti narrative o viceversa? Se reputate ci sia stata un’influenza di forma, cosa potrebbe aver implicato nel passaggio dall’inglese all’italiano?
B. Bernardi (Garzanti): Rispetto ad altre opere di Orwell, la voce narrante in Nineteen Eighty-Four è particolarmente essenziale, neutra e può darsi che ciò sia dovuto all’importanza del carattere saggistico nell’opera. Rispetto ai passaggi dedicati al libro di Goldstein, in particolare, c’è una corrispondenza intenzionale con le riflessioni di Winston sulla vita sotto il dominio del Partito, che ritornano quasi parola per parola in alcuni punti di The Theory and Practise of Oligarchical Collectivism, come a voler rimarcare ciò che poi Winston espliciterà: il libro non gli sta dicendo nulla che lui non sappia già. Nel passaggio all’italiano, oltre a ad assicurarmi di mantenere tutti i rimandi intratestuali, ho dovuto lavorare sullo stile, cercando di tenere a freno la naturale tendenza della nostra lingua alla fioritura. C’è da dire, però, che nel testo appaiono anche altri stili: dal tono quasi didattico e argomentativo del libro di Goldstein, alla semplicità infantile delle nursery rhymes ripescate dalla memoria del signor Charrington, fino all’atmosfera incantata dei sogni e dei ricordi di Winston. Pensiamo solo alla visione del Golden Country che appare in forme diverse nelle tre sezioni del libro, prima come un sogno, poi come una sorta di déjà-vu e infine nell’ultimo guizzo di ribellione di Winston. Ho dovuto quindi anche fare attenzione a non appiattire tutte queste sfumature.
F. Cavagnoli (Feltrinelli): In due saggi illuminanti, entrambi del 1946, Perché scrivo e La politica e la lingua inglese, Orwell mette in guardia dagli effetti rovinosi del linguaggio. Nel secondo, in particolare, con approccio decisamente normativo arriva al punto di stilare delle regole di scrittura per saggisti e giornalisti. In questi scritti Orwell ha detto apertamente quanta dedizione riservasse alla scrittura e quanto fosse critico nei confronti della sciatteria nella prosa dei suoi contemporanei. E ha dichiarato di scrivere per mettere a nudo la menzogna e di voler fare della scrittura politica una forma d’arte. Nell’Appendice Orwell porta alle estreme conseguenze quanto scrive in La politica e la lingua inglese, e si comprende molto bene che il parlanuovo nasce dalle sue riflessioni sulla trasandatezza nella lingua scritta e orale. Il conformismo e la mancanza di consapevolezza nella scelta delle parole da parte di politici, oratori, saggisti – e, si potrebbe aggiungere, scriventi di ogni genere – sono fonte di lacerazioni, strappi sottili. Non ci vuole molto a produrre una dislocazione grave nel tessuto della lingua. E ciò è quanto mai vero ancora oggi, e non solo nel Regno Unito. Secondo Orwell, è la miscela di vaghezza e incompetenza la caratteristica più marcata della prosa inglese del suo tempo, in particolare dei saggi politici. Le metafore, scrive, sono trite, “hanno perso ogni potere evocativo” e sono ormai solo delle frasi fatte, e ogni frase fatta “anestetizza una porzione del cervello”. Le riflessioni che matura sulla scrittura saggistica finiscono con il dare forma anche alla sua scrittura narrativa, in particolare negli ultimi due romanzi, che di fatto sono i due esempi più alti della forma artistica che Orwell ha voluto dare alla scrittura politica. In Nineteen Eighy-four, però, Orwell esplora anche i registri bassi, in particolare con Julia, e si avventura pure a esplorare le varietà linguistiche locali dell’inglese con i personaggi che vivono nell’East End londinese. Tradurre le parti saggistiche del romanzo ha comportato ricorrere prevalentemente all’italiano medio, punteggiato qua e là di qualche termine del linguaggio politico, mentre nelle parti più narrative, in particolare nei dialoghi, ho potuto scendere lungo il continuum sociolinguistico al di sotto della lingua standard, e divertirmi a tradurre ricorrendo al neo-standard, alla lingua familiare e colloquiale, giù fino alla lingua popolare. Alcune pagine del diario di Winston, poi, sono scritte tutte d’un fiato – non c’è punteggiatura – e quindi occorre impostare i segmenti di frase in modo che i pensieri che si addensano nella sua mente siano riconoscibili e abbiano senso compiuto anche se privi di punteggiatura. La scrittura di Orwell mi ha costretta, cioè, a un continuo cambio di andatura, il che è sempre un piacere quando si traduce.
V. Latronico (Bompiani): Mi pare che in generale la lingua di Orwell abbia qualcosa di saggistico, una specie di freddezza, di luminosità. Forse in 1984 la giustapposizione delle due voci fa apparire in modo particolarmente spiccato tale contaminazione (o forse è meglio dire continuità), ma trovo che sia una caratteristica dell’autore.
D. Petruccioli (Bur Rizzoli): Come dicevo prima: no. Al contrario. Secondo me li ha tenuti volutamente molto separati, per costruire il suo romanzo-sinfonia. Sono “discorsi” (in senso foucaultiano, ovvero: di trasmissione di una visione e dunque di un sistema di potere) molto diversi. Le immagini cinematografiche di Londra si contrappongono a quelle della campagna inglese per maggiore o minore lirismo; i discorsi d’amore tra Winston e Julia sono diversissimi da quelli con O’Brien: nei primi c’è la costruzione di una visione, nei secondi l’imposizione di una logica; e anche i saggi sono diversi, secondo me: quello di Goldstein ha la consequenzialità del discorso “scientifico” marxista, mentre quello dell’appendice veicola l’interlocutorietà ironica di chi cerca di capire qualcosa che è successo, ma che non deve succedere mai più. Ho cercato di usare tutte queste forme, ovviamente all’interno del nostro sistema linguistico-culturale, e quindi a volte facendo uso di forme più britanniche, altre più italiane. Perché dovevo tradurre un effetto, appunto. Non ricalcare una forma.
T. Pincio (Sellerio): Le due parti saggistiche del romanzo sono molto diverse tra loro, soprattutto nello stile. Il libro di Goldstein assume il tono solenne della verità rilevata e affronta questioni che riguardano i massimi sistemi. L’appendice è invece più distaccata, più scientifica, arriva al generale in maniera indiretta, concentrandosi sui dettagli del Newspeak, anche se alla fine è più rivelatrice del libro di Goldstein perché ci mostra nel concreto come il potere si perpetua: controllando il linguaggio. La diversa temperatura emotiva delle due parti è funzionale al momento in cui compaiono. La calda foga di Goldstein serve da incitamento e la leggiamo quando Winston e Julia sono nel pieno del loro slancio di rivolta. Il tono più distante dell’appendice arriva per contro quando ci viene chiesto di separarci emotivamente dal triste caso di Winston per ricavarne una lezione di ordine morale. Ciò mostra quanto Orwell fosse consapevole e attento nell’uso dei vari registri di cui è composto il romanzo.
M. Rossari (Einaudi): La dimensione saggistico-politica è fondamentale in tutto Orwell, che era imbevuto di esperienza e che aveva trasferito quell’esperienza nei saggi sui raccoglitori di luppolo, sui minatori, sui moribondi, sui poveri che vivevano all’addiaccio, eccetera. Proprio quell’esperienza l’aveva aiutato a percepire il supremo avvilimento dell’essere umano. Per questo nella postfazione finale dico che 1984 è un romanzo realista: Orwell usa l’esperienza sul campo per rendere credibile un mondo distopico. Sono tutte cose che lui ha visto, che ha sentito sulla pelle. Stilisticamente, invece, a me sembra che la sua dimensione saggistica dia puntualità, rigore a quella narrativa e non per i lunghi brani dell’immaginario trattato da Goldstein, ma proprio per l’ordine del pensiero nel meccanismo narrativo (è per questo, invece, che qualcuno lo trova opaco).
E. Terrinoni (Newton Compton): Sicuramente c’è quest’influenza. Di Orwell ho sempre preferito i saggi alle opere letterarie, che comunque ammiro moltissimo. Nelle seconde, Orwell traduce in forma narrativa e creativa i presupposti della sua lettura del mondo. Nei primi romanzi lo stile documentaristico emerge dalla sua formazione anche giornalistica. Orwell è come Phil Ochs, che con le sue canzoni e ballate ha raccontato il presente e prefigurato il futuro. È un cantastorie della cronaca, ma non si ferma alla cronaca: ha scarti stilistici importanti; ma anche tante grandi penne del giornalismo li hanno. Il passaggio dall’inglese all’italiano è stato per me influenzato da queste considerazioni, e dal ritmo inteso, come dicevo prima, quale grammatica segreta dell’immaginario.
Dal 1951 al 1987, tutte le edizioni inglesi di Nineteen Eighty-Four non riportano il ‘5’ della famosa formula 2 + 2 = 5, poiché quel carattere era caduto durante la stampa dell’edizione Secker & Warburg del 1951, ristampata poi per tanti anni senza essere corretta. La mancanza del numero ‘5’, che non appare neanche nella scena finale dell’adattamento diretto da Michael Redford del 1984, nega l’idea che Winston si sia piegato senza riserve al volere di Big Brother, facendo così terminare il romanzo sull’onda di una speranza per il futuro piuttosto evidente. Ma, nonostante il reinserimento del numero nelle edizioni più recenti, secondo voi c’è dell’ottimismo nel romanzo di Orwell?
B. Bernardi (Garzanti): Personalmente trovo che le ultime battute del testo lascino davvero poco spazio all’ottimismo sulla conversione di Winston. A volerne ricercare qualche spiraglio, mi verrebbe piuttosto da puntare lo sguardo su Julia, personaggio al quale credo sia dato meno spazio di quanto meriterebbe, ma che forse proprio per questa ragione lascia maggiori possibilità di speculazione. Julia è nata e cresciuta nel mondo creato dal Partito e, a parte un nonno vaporizzato quando era bambina, non ha potuto conoscere un mondo alternativo e perciò non capisce le riflessioni di Winston. Ciononostante, in lei c’è un istinto di ribellione spontaneo e inconsapevole, che viene efficacemente paragonato allo “starnuto di un cavallo che sente odore di fieno cattivo”. Julia è il simbolo della natura umana che reagisce, della sessualità irreprimibile, persino del sarcasmo e della volgarità. È il prodotto di un fallimento nell’educazione delle menti imposta dal Partito, che può essere corretto solo con la tortura. E quel poco che ci viene raccontato della sua vita passata lascia intendere che anche altri, come lei, nascondano tentativi di disobbedienza dietro una facciata di ortodossia. Per questo mi piace immaginare che, benché venga sconfitta come Winston, la sua stessa esistenza possa forse rappresentare una speranza.
F. Cavagnoli (Feltrinelli): Secondo me non c’è un filo di ottimismo fino alla fine della Parte Terza: nell’ultima pagina vediamo Winston – ormai il ritratto di un vinto – davanti al suo bicchiere di gin sintetico, come in una versione tutta al maschile dell’Assenzio di Degas. L’ottimismo lo sento alla fine dell’Appendice: «Fu soprattutto per lasciare il tempo necessario allo svolgimento del lavoro preliminare di traduzione che l’adozione definitiva del parlanuovo venne fissata solo per il 2050». Sono queste le ultime parole del romanzo: a opporsi al parlanuovo sono solo i grandi classici della letteratura. Il nemico numero uno del regime è la lingua letteraria. La parola creativa, con la sua polisemia, non è semplificabile e si rifiuta di lasciarsi privare della sua forza espressiva, non si fa ingabbiare in pochi segni impregnati di ideologia. Tradurre letteratura è un’attività complessa, che necessita di tempo, per questo l’adozione del parlanuovo slitta così in là. L’Appendice smorza l’atmosfera cupa di qualche pagina prima, lascia una speranza. In questo suo elogio della lentezza Orwell sembra dirci che a opporsi al danno inferto al tessuto della lingua ci sono solo le parole della letteratura e che tradurre è un atto di resistenza.
V. Latronico (Bompiani): Temo proprio di no.
D. Petruccioli (Bur Rizzoli): C’è, certo che c’è. È un romanzo atroce, ma finisce bene. Non nella parte narrativa però. È l’appendice finale sul parlanuovo, che essendo scritta al passato e con la curiosità antropologica di chi non è più forzosamente immerso in quel contesto, a dirci che nella natura umana è insita anche una possibilità di analisi, di distanziamento e comprensione. Dunque, di liberazione.
T. Pincio (Sellerio): L’ottimismo c’è e va cercato nell’afflato libertario di Winston e Julia, nella loro voglia di amarsi. L’anelito viene prima soffocato dal sistema, è vero, e poi anche rinnegato da quella che per un breve momento è stata una coppia, ma quell’anelito c’è comunque stato, lo abbiamo letto. Quando nel romanzo ci viene detto che la speranza va cercata nei prolet è proprio questo che Orwell intende: non speranza nei prolet in quanto classe, ma in quanto persone che vivono ancora alla giornata, ancora in contatto con quelle pulsioni profonde e naturali senza le quali nessuna vera rivoluzione è possibile e la cui repressione, una volta sovvertito il vecchio sistema dominante, comporta fatalmente il tradimento dello spirito rivoluzionario e la comparsa di un nuovo regime. Per dirla in termini più prosaici, l’ottimismo del romanzo potrebbe essere reso con un noto adagio popolare: Finché c’è vita c’è speranza. Orwell va però oltre, per lui la vera questione è cosa c’è dopo la vita, ammesso vi sia qualcosa. Ciò su cui si interroga è la possibilità della speranza. Spes contra spem, in sostanza. È un aspetto del suo pensiero che a volte viene trascurato, ma in più di un’occasione Orwell ha evidenziato che la morte di Dio auspicata dal socialismo poneva un problema, quello di offrire un’alternativa alla speranza in una vita ultraterrena, perché senza la promessa di un paradiso credibile la possibilità che la rivoluzione si risolva in un regime è quasi una certezza. Questo elemento è fortemente presente nel romanzo e non tanto perché Nineteen Eighty-Four è un libro terminale se non testamentario, l’opera di un uomo consapevole di non avere molto tempo davanti a sé, quanto perché anche quando la vita appare ancora lunga si ha bisogno di una promessa per credere in un ideale. In fondo ciò che ci rattrista maggiormente nel finale del romanzo non è la resa di Winston ma il vuoto che lo attende dopo la rieducazione. Di fronte a quel vuoto che il 5 ci sia o no ha poca importanza.
M. Rossari (Einaudi): La parte narrativa del romanzo ha una delle chiuse più tristi della storia della letteratura. La tortura, l’incontro con Julia per la strada nella giornata gelida, l’intontimento arreso di Winston gonfio di gin: è tutto terribile. Ma se consideriamo l’appendice ecco che scopriamo un Orwell diverso, quasi postmoderno, ironico, beffardo. Se c’è qualcuno che ha compilato quel saggetto finale, allora il Grande Fratello è caduto. Quindi quel potere immenso e pervasivo poteva venire sconfitto e tutto il sacrificio di Winston non è stato invano. Per certi versi, Orwell smentisce l’intero libro, e immagino che a Thomas Pynchon – uno dei grandi fan del libro – questo lato sia piaciuto in modo particolare.
E. Terrinoni (Newton Compton): Orwell è per me uno scrittore ottimista, i critici più raffinati hanno visto nelle ultime righe dell’appendice, e nel riferimento temporale, la prova che l’ordine nuovo di cui ha parlato nel testo non ha visto piena realizzazione nel futuro. Se ne parla come di qualcosa di non implementato. È un altro «arrangiamento retrospettivo» (posso svelare ora che l’espressione ricorre diverse volte in Ulysses). Descriverlo come uno scrittore disilluso, come uno che accetta la verità storica per cui tutte le rivoluzioni si tramutano sempre in reazione, è sbagliato a mio modo di vedere. Orwell, dal suo passato, è d’accordo col futuro di Guccini, che in una sua canzone scrive «da qualche parte un giorno / dove non si saprà / dove non l’aspettate / il “Che” ritornerà».
A cura di Francesco Cristaudo e Angela Marino
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